DI SERGIO DI CORI MODIGLIANI
sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Ipocriti.
E anche assassini.
La nostra classe politica dirigente si distingue, per l’ennesima volta, nel fare a gara a chi vince la battaglia degli errori.
O meglio degli orrori.
La tragedia della fabbrica cinese a Prato svela il segreto di Pulcinella e scopre l’acqua calda.
Tutti sanno, tutti sapevano.
Sembra ormai dato per scontato che nel cuore dell’Italia, quella Toscana che per decenni è stato il trampolino di lancio dell’industria del made in Italy verso i mercati di tutto il mondo, i cinesi usano sistemi cinesi con operai cinesi soldi cinesi e merci cinesi sul nostro suolo nazionale, approfittando del fatto che l’Italia è un paese corrotto, dove la legalità non conta e non viene rispettata.In nessuno altro paese dell’Unione Europea i cinesi schiavisti godono dell’immunità di cui si avvantaggiano, invece, in Italia.
E’ uno dei grandi paradossi dell’età in cui viviamo: il più grande paese schiavista del mondo, il paese che più di ogni altro in assoluto sfrutta il bisogno di sopravvivere trattando gli esseri umani come bestie, è allo stesso tempo un paese che ha una istituzione e una classe politica dirigente che si richiama al comunismo e ai diritti dei lavoratori, definendo se stessi degni eredi di Carlo Marx.
Basterebbe questo per comprendere quanto sia intricata e complessa l’aggrovigliata matassa degli interessi geo-politici nel mondo di oggi, e quanto sia difficile percorrere i sentieri del Senso.
La tragedia di quei poveretti a Prato è una tragedia tutta italiana.
Perchè quella è una fabbrica che produce il pronto-moda a prezzi imbattibili, che sta mettendo in ginocchio l’economia italiana del settore due volte: una, perchè stampa il marchio “made in Italy” potendolo fare con prodotti di bassa qualità e quindi sottrae all’immagine dell’Italia il suo insostituibile valore aggiunto; l’altra, perchè veicola le proprie merci e sta dando un enorme contributo alla diffusione della illegalità facendo affari con la criminalità organizzata italiana.
Un metro di tessuto per realizzare questi capi costa, all’origine, in Italia, 5 euro dal miglior offerente. In Francia costa 4,75 euro. In Germania ne costa 5,22. In Olanda 4,80 euro.
I cinesi lo pagano 54 centesimi di euro.
Tonnellate di questi tessuti arrivano via nave nei porti di Napoli, Genova, Ancona.
E lì avviene l’inghippo: in quei porti.
Perchè questi tessuti non sono a norma. Non vengono controllati, la maggior parte delle volte non esistono neppure bolle d’accompagnamento e di scarico, c’è sempre qualcuno che chiude un occhio. Non credo avvenga la stessa cosa a Marsiglia, Amburgo, Rotterdam, Liverpool, i nostri principali concorrenti.
Quindi, la prima responsabilità è delle istituzioni governative statali che presiedono i doganieri, i finanzieri, gli ispettori fiscali.
C’è la totale responsabilità degli amministratori locali liguri, campani e marchigiani, anche loro chiudono un occhio.
C’è la totale responsabilità di tutto il personale politico-amministrativo della Regione Toscana, della Provincia di Firenze, del Comune di Prato, che non eseguono i controlli di norma previsti dalle Leggi e regolamenti che gli imprenditori italiani, invece, rispettano, altrimenti l’Europa ci bastona. Giustamente.
Poi c’è la responsabilità dei sindacati, che dovrebbero vergognarsi di se stessi, perchè la base del concetto stesso di “sindacalismo” poggia sull’idea di “solidarietà tra tutti i lavoratori” mentre, rispetto a questo problema, si sono comportati sempre nello stesso modo: “tanto quelli sono cinesi”, come se non fossero esseri umani e come se il solo fatto di essere cinese, avere gli occhi a mandorla e parlare il mandarino, automaticamente garantisce un passaporto per l’immunità.
Ne vogliamo parlare?
C’è chi l’ha fatto e da lungo tempo.
Si tratta di una bravissima giornalista toscana che collabora a IlSole24ore.
Si chiama Silvia Pieraccini.
Ecco che cosa scriveva 10 mesi fa in un suo articolo apparso nella rubrica economica del Corriere Fiorentino.
ORRORI A CHINATOWN NEL SILENZIO DI PRATO
Un altro cittadino cinese è morto nel silenzio della comunità di cui faceva parte. Ma anche nel silenzio della città in cui viveva , lavorava, soffriva. Nel silenzio di quella Prato tradizionalmente operosa e attenta che è capace di indignarsi per i (presunti) valori troppo alti della diossina dell’inceneritore di Baciacavallo, per gli scarsi controlli dell’Europa sulle merci in arrivo dalla Cina, per le linee soppresse degli autobus e per le buche nelle strade, ma non dice nulla o quasi sui morti cinesi, sugli schiavi cinesi, sugli sfruttatori cinesi, sugli evasori cinesi, tutti «prodotti» di un medesimo sistema organizzato di illegalità che qui ha messo da tempo radici profonde, e che sta diventando sempre più pericoloso.
E dice poco, questa Prato distratta e superficiale, sul riciclaggio di denaro guadagnato illegalmente (due miliardi la sti- ma dei ricavi sottratti al fisco), sui centinaia di operai senza contratto che danno linfa ai laboratori in cui si cuciono abiti a 1 euro, sui mutui da 200mila, 300mila e addirittura 400mila euro concessi dalle banche (tutte le principali) a cittadini cinesi che presentano dichiarazioni dei redditi da fame.
Ê come se la città si fosse assuefatta a una malattia pestilenziale, seduta su un bubbone inoperabile, adattata a un desti- no infausto. Tacciono le forze economiche, continuando ad agitare (da 10 anni) la bandiera della possibile integrazione tra tessile pratese e abbigliamento low cast cinese. Tacciono i sindacati, sempre poco interessati a una comunità che non porta tessere. Tacciono i magistrati, le forze di polizia, le istituzioni locali, i politici di nuova e vecchia elezione, gli enti religiosi e le associazioni noprofit di destra e di sinistra. Tutti muti, senza voglia di ribellarsi, di fare appelli, di lanciare allarmi, di fare domande e esigere risposte. Solo l’assessore-sceriffo Aldo Milone continua a urlare, quotidianamente, contro l’illegalità cinese di ogni ordine e grado, prendendosi le battute di chi lo liquida come colui che ha legato la sua stessa sopravvivenza alla lotta contro i cinesi.
Ieri il gruppo interforze ha sequestrato un capannone di 500 metri quadrati che ospitava un’azienda cinese in cui lavoravano (anche) sei clandestini. Cucivano maglie per un committente italiano, un maglificio di Agliana che si è giustificato dicendo di aver ottenuto dalla ditta cinese il Durc, il documento unico di regolarità contributiva che attesta il pagamento dei contributi dei dipendenti. Di quelli in regola, naturalmente: gli altri non interessano, ed è meglio non vederli. E qui sta l’altro bandolo della matassa: la connivenza di quella parte (piccola, per fortuna) di città che sulle spalle dei cinesifa soldi e fortuna. Un intreccio ine- stricabile guidato dal profitto, che pochi sembrano interessati a disboscare. «Sporcarsi» le mani per combattere la ragnatela di illegalità cinese è faticoso e rischioso. In un’altra fase storica Prato ci avrebbe provato, e forse avrebbe vinto. Oggi, acciaccato dalla crisi economica e guidato dagli interessi di bottega, ha deci- so che la rassegnazione è meglio della pro- testa. E ha scelto il silenzio.
Silvia Pieraccini
Corriere Fiorentino 28 Marzo 2013
Qualche tempo fa, dopo diversi articoli sulla questione che nessun politico, amministratore, magistrato, ha raccolto per far valere il principio di legalità, Silvia Pieraccini ha scritto e pubblicato un libro (edizioni Il Sole24ore) che si chiama “L’assedio dei cinesi: il distretto senza regole degli abiti low cost a Prato”.
E’ una bella e corposa inchiesta sulla questione, caduta nel silenzio.
La morte dei quei cinesi schiavizzati pesa sulle coscienze di noi tutti.
Perchè noi siamo europei, e non siamo schiavisti.
E se non affermiamo, oggi, con vigore, il sacrosanto diritto alla salvaguardia di chiunque lavori nel territorio della Repubblica Italiana, qualunque sia il colore della pelle o la razza, il messaggio che l’Italia sta dando nel mondo è: “venite pure qui da noi a fare gli schiavisti, tanto le istituzioni, la classe politica, gli amministratori locali e i sindacati chiudono tutti un occhio e potete fare quello che volete, come vi pare, quando vi pare e per quanto vi pare”.
Ma è anche un segnale, tragico termometro sociale, dei cieli che ci attendono, se non andiamo in Europa a combattere con furia e tenacia per far affermare l’Europa dei Diritti, del rispetto del lavoro, ma soprattutto della Civiltà.
Qui di seguito vi propongo una bella intervista rilasciata da Silvia Pieraccini alla giornalista Sonia Montrella che è apparsa su una agenzia di stampa ad ampia diffusione, nella sua specifica rubrica relativa alla China. Si chiama AGI CHINA 24.
Ecco il link: QUI
E’ stata pubblicata circa un mese fa, nessuno ne ha voluto parlare.
E’ arrivato il momento di prendere il toro per le corna.
Facciamo in modo che la morte di quei poveri schiavi sia servita a qualcosa.
E non dite a voi stessi: chissenefrega tanto quelli so’ cinesi.
Sono esseri umani.
E l’Italia non è terra franca aperta agli schiavisti sfruttatori: che si richiamino a Mao Tze Dong o a Goldman Sachs, per me è irrilevante.
Sempre bastardi sono.
Se non li fermiamo adesso, penseranno che c’è il semaforo verde per loro.
Domani faranno la stessa cosa con i lavoratori italiani.
Anzi, lo stanno già facendo: questa è la vera notizia del giorno.
Intervista rilasciata a Silvia Montrella per Agichina24 on line da SILVIA PIERACCINI – AUTRICE DEL LIBRO – INCHIESTA “L’ASSEDIO CINESE – IL DISTRETTO SENZA REGOLE DEGLI ABITI LOW COST DI PRATO”
A Prato si sono venuti a creare diversi fattori che hanno reso possibile lo sviluppo del pronto moda cinese. Per prima cosa i pochi controlli che sono stati effettuati nella città toscana hanno regalato ai cinesi l’opportunità di operare indisturbati; in secondo luogo, la forte crisi del tessile ha creato una grande disponibilità di spazi, in prevalenza capannoni, da utilizzare.
A ciò bisogna poi aggiungere la collaborazione di ‘braccia italiane’, ovvero di quelle persone del ‘sottobosco’ che hanno aiutato i cinesi a mettere in piedi questo distretto illegale. Decisiva è stata poi la collocazione geografica: il fatto di essere al centro dell’Italia e sulla direttrice nord sud favorisce gli spostamenti, tanto ogni fine settimana a Prato si assiste a un flusso di compratori dell’est Europa e dell’Europa centrale che arrivano nella città toscana per fare il carico di prodotti di abbigliamento cinese.
Tutti questi fattori, uniti alla disponibilità di servizi (logistica, spedizioni, ecc.) presenti sul territorio grazie alla lunga tradizione pratese nel settore moda hanno contribuito al successo del pronto moda sino-pratese.
E’ possibile secondo lei replicare altrove in Italia l’esperienza pratese?
Secondo me a Prato si è verificata una ‘congiuntura astrale favorevole’. E’ difficile dire se il fenomeno sia replicabile altrove, ma di certo la realtà manifatturiera, la location, la crisi del tessile e la scarsità dei controlli sono tutti elementi fondamentali che inducono a pensare che oggi sarebbe molto difficile esportare altrove il modello pratese.
Uno dei punti di forza del pronto moda sino-pratese è naturalmente il prezzo stracciato. Un metro di tessuto importato dalla Cina costa 54 centesimi contro i 5 euro del prodotto italiano. A ciò si aggiungono poi le evasioni fiscali e l’ingresso di tessuti illegali che arrivano nei porti di Napoli, Livorno, Genova e La Spezia e che costituiscono ormai un fatto noto. Quale è il grado di responsabilità delle autorità doganali e cosa ha fatto finora il governo italiano per mettere un freno a questa tendenza?
Un’inchiesta condotta dalla guardia di Finanza, in collaborazione con l’Agenzia delle Dogane, e resa pubblica proprio mesi fa ipotizza un contrabbando di tessuti in arrivo dalla Cina e che entrano nel nostro Paese senza pagare dazi e IVA. Naturalmente in questa inchiesta non sono coinvolti solo i cinesi, ma anche funzionari italiani che inevitabilmente hanno permesso tutto ciò. Non credo, infatti, che un’attività di questo tipo sia possibile senza la collaborazione di personale dei porti e delle dogane europee. In questi anni sono stati fatti pochi controlli dogane ed è stata fatta passare molta merce.
Si potrebbe parlare di ‘concorso di colpe’?
Quello di Prato è sicuramente uno di quei casi in cui lo Stato italiano ha dimostrato la propria scarsa forza nel fare i controlli, a qualsiasi livello: locale, nazionale, sono stati condotti pochi controlli nei porti, nei negozi cinesi, e sui soldi guadagnati dai cinesi spesso in modo illegale che attraverso money transfer vengono mandati in Cina. E’ come se lo Stato avesse girato la testa dall’altra parte e avesse deciso di non guardare quello che stava succedendo.
A marzo il Parlamento italiano ha approvato la legge Reguzzoni-Versace che stabilisce che per poter etichettare un marchio come “Made in Italy” il capo deve aver subito almeno i 2/3 della lavorazione in Italia. La legge sarebbe dovuta entrare in vigore dal 1 ottobre, ma manca ancora il via libera di Bruxelles. Se la normativa dovesse essere varata quanto ne risentirebbe il distretto di Prato? E quanto il Made in Italy sarebbe effettivamente protetto dalla concorrenza sleale?
La legge Reguzzoni non dovrebbe toccare il distretto pratese. I cinesi a Prato realizzano due fasi: la cucitura e la nobilitazione – tintura del capo finito, rifinitura del capo, stampa di disegni su magliette e abiti – .Se la normativa dovesse essere approvata i cinesi di Prato continuerebbero ad apporre (legittimamente) l’etichetta Made in Italy, in linea con i principi della Reguzzoni – Versace. In questo caso il Made in Italy prodotto in Italia sarebbe legittimo. Ma se l’Ue non riesce ad approvare una normativa sull’etichetta “Made in” delle merci in entrata nel continente, non è possibile mettere un freno nemmeno a quei prodotti che vengono prodotti all’estero ed etichettati in Italia.
Spesso si tratta di prodotti di scarsa qualità. E’ così per molti generi alimentari ed è così anche per le stoffe che contengono sostanze tossiche. Ma mentre la Cina prima di importare prodotti dall’estero li sottopone a lunghe analisi ed esami, l’Ue non impone obblighi di salubrità e “spalanca i cancelli”. Perché?
Questo è il grande problema della mancanza di reciprocità. L’Europa richiede scarsissimi requisiti per poter ammettere merci varie, in particolare quelle tessili. Spesso queste stoffe vengono importate dalla Cina senza alcun problema, ma nel momento in cui questi tessuti vengono trasformati in abiti e riesportati in Cina, vengono fermati alle dogane, esaminati accuratamente e spesso respinti perché per il governo cinese non rispondono ai parametri richiesti. Mentre questo grande Paese in via di sviluppo si è attrezzato con una serie di barriere e di ostacoli per selezionate l’ingresso di merci sul proprio territorio, l’Europa rimane a guardare. Famoso è il caso di Zegna che tempo fa si è visto respingere alla dogana alcuni tessuto precedentemente acquistati in Cina perché ritenuti non idonei. Ci troviamo quindi di fronte a un caso davvero paradossale. Se vogliamo dirla in modo banale, la Cina si è attrezzata per proteggere le sue frontiere, l’Europa no: la prima è molto più restrittiva ed esigente, la seconda importa tutto e fa passare qualsiasi cosa. E oggi ne paghiamo le conseguenze.
Secondo lei è un fatto di ‘distrazione’ , di ‘ingenuità’, si teme di ‘stuzzicare’ il Dragone o c’è qualche altra ragione?
Questa è una risposta che dovrebbe dare la politica. Sicuramente a Bruxelles ci sono forze contrastanti per cui accanto a Paesi importatori, che non hanno molti interessi a porre paletti all’ingresso delle merci in Europa, si collocano altri Paesi manifatturieri, tra cui l’Italia, che avrebbero grande interesse a imporre una serie di parametri di protezione come avviene in molti altri Paesi. E’ questo scontro che fino ad oggi ha ritardato l’approvazione dell’etichettatura per i prodotti importati. Credo che alla base di tutto ci sia il conflitto tra i Paesi dell’Ue, ma naturalmente anche la grande potenza cinese ha un grande peso.
Nel libro si parla di due aziende, Giupel e Koralline, che hanno imboccato la via della legalità. La prima, specializzata in capi in pelle è una delle poche SPA in Italia, la seconda è “il primo marchio cinese Made in Italy”. Pensa che saranno d’esempio anche per altre aziende o resteranno casi isolati?
Spero vivamente che siano d’esempio per le altre aziende, ma purtroppo a sei anni di distanza dalla sua entrata in Confindustria, bisogna constatare che Giupel continua a essere l’unica compagnia cinese iscritta nel registro. Giupel era entrata in Confindustria con la speranza e la promessa di portare altre aziende sulla via della legalità, ma nessun’altra ha seguito il suo esempio e il ponte tra le aziende cinese e la comunità italiana che Giupel si era prefissata di costruire è franato miseramente. Oggi Prato conta 5000 aziende cinesi di cui 4000 operanti nel settore dell’abbigliamento e ancora oggi i controlli eseguiti dalle forze dell’ordine mostrano che la maggior parte di esse presentano grandi sacche di illegalità. Un fatto allarmante soprattutto se si considera il fatto che è tra l’illegalità e la grande circolazione di denaro che spesso si vanno a insinuare le organizzazioni criminali.
Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Link: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2013/12/che-cosa-si-nasconde-dietro-lassedio.html
2.12.2013