CHE C'E' DI MALE SE UN RAGAZZO VUOLE VESTIRSI DA DONNA ?

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Di RUTH PADAWER
nytimes.com

Vogliono mettersi la gonna, giocare con le bambole e dipingersi le unghie. Ma non si considerano né maschi né femmine. E una nuova generazione di genitori sta imparando a crescerli.

La sera prima di mandarlo alla “primina”, i genitori di Alex, Susan e Rob, scrissero una mail ai genitori dei compagni di classe. “Alex” era scritto nella mail “è sempre stato di “genere fluido” e in questo periodo s’identifica tranquillamente sia nei calciatori sia nelle principesse, supereroi e ballerine (per non parlare di Lava e Unicorni, dinosauri e arcobaleni luccicanti).” Spiegarono che Alex recentemente si era molto rattristato quando i genitori gli avevano proibito di indossare vestiti femminili se non durante un gioco di travestimento. Dopo aver consultato il suo pediatra, uno psicologo e aver sentito genitori di altri bambini di “genere non-conformato”, Susan e Rob conclusero che “la cosa essenziale era di insegnargli a non vergognarsi di come si sentiva dentro”. Era quello il motivo del vestito a strisce fucsia, rosa e giallo che avrebbe indossato il giorno dopo a scuola. Per completare l’informazione, la mail riportava un link informativo sui bambini di “genere variabile”.

Quando Alex aveva quattro anni, si definiva allo stesso tempo “bambino” e “bambina” ma da due anni a questa parte si definiva un bambino a cui ogni tanto piaceva vestirsi da donna e atteggiarsi come tale. A volte in casa indossa vestiti, si mette lo smalto alle unghie e gioca con le bambole; altri giorni fa giochi rudi e aggressivi e dice di essere Spider-Man. Anche la sua gestualità cambia totalmente secondo come si sente quel giorno: i giorni che indossa vestiti femminili è grazioso, gentile, si muove quasi come in una danza e quando parla termina le frasi con toni acuti. I giorni invece che opta per l’abbigliamento solo maschile assume un atteggiamento da bulletto arrogante. Ovviamente, se Alex fosse stato una bambina che a volte giocava o si atteggiava da maschio, la mail non sarebbe stata mandata e neanche pensata. Nessuno avrebbe fatto caso se una bambina giocasse a football o indossasse una maglietta di Spider-Man.

Ci sono sempre state persone che infrangono le normali leggi del “genere”. Alcuni testi medici del tardo ottocento descrivevano le femmine “invertite” come persone molto dirette, con una particolare avversione per i lavori di cucito” e con una “inclinazione e gusto per le scienze”; i maschi invertiti, invece, sono definiti “totalmente incapaci nei giochi all’aperto”. Verso la metà del ‘900, i dottori tentavano terapie correttive per cercare di eliminare comportamenti atipici di genere. Lo scopo era di impedire ai bambini di diventare omosessuali o trans-genere (termine usato per definire chi sente di essere nato nel corpo sbagliato).

Oggi, molti genitori e medici rifiutano di ricorrere a terapie correttive, creando le basi di una prima generazione che permette ai maschi di giocare e vestirsi apertamente e liberamente in modi prima riservati esclusivamente alle femmine – per poter esistere in ciò che uno psicologo ha definito “quello spazio di mezzo” tra la mascolinità e la femminilità tradizionali.

Questi genitori hanno preso coraggio da una comunità su internet in rapida ascesa di persone che condividono le stesse opinioni e i cui figli si identificano come maschi ma gli piacciono i diademi e gli zaini con gli unicorni sopra.

Anche gli individui trans-genere conservano la tradizionale classificazione binaria tra i generi: nati in uno ma appartenenti all’altro. Invece, i genitori dei maschi di questo “spazio intermedio” sostengono che il genere è un ventaglio di possibilità e non soltanto due posizioni opposte, dove nessun uomo o donna può dire di appartenere precisamente e completamente.

“Certo, il mondo è più semplice e ordinato se si stabiliscono due possibilità di genere sessuale precise e separate”, scrisse l’anno scorso nel suo blog una madre del North Carolina, “ma annullando tutti gli spazi tra l’una e l’altra possibilità si finisce con il non rappresentare sinceramente la realtà vissuta. E dirò di più: se lo fate state annullando anche mio figlio”.

L’appassionata autrice di quel blog, Il Rosa è per i maschi, si è riservata di rivelare l’identità di suo figlio, lo stesso hanno fatto i genitori intervistati per questo articolo. Per quanto questi genitori vogliano sostenere e difendere ciò che rende così unici e felici i loro figli, allo stesso tempo temono di esporli a un rifiuto da parte della società. Alcuni hanno cambiato scuola, cambiato chiesa e cambiato casa per proteggere i loro figli. Questa tensione tra l’arrendersi alla conformità e incoraggiare la libera espressione di sé è comune a tutti i genitori di figli che differiscono dalla “norma”.

Ma i genitori dei cosiddetti “maschietti rosa” hanno anche un’altra preoccupazione: sapendo che il genere determina una gran parte dell’identità di un individuo, temono che un’errata decisione genitoriale possa danneggiare il benessere sociale ed emotivo dei propri figli. Il fatto che ci siano ancora opinioni contrastanti tra i maggiori psicologi su se sia giusto o meno soffocare un comportamento non convenzionale o incoraggiarlo, rende queste decisioni ancora più ardue da prendere.

Molti genitori che permettono al proprio figlio di occupare liberamente questo “spazio intermedio” erano socialmente liberali ancor prima di avere un figlio “rosa”, già pronti quindi a difendere i diritti degli omosessuali e la parità di diritti per le donne e pronti a mettere in discussione i confini tra la mascolinità e la femminilità tradizionali. Ma quando i loro figli escono dalle norme convenzionali, persino loro ne sono disorientati. “Com’è possibile che il modo in cui gioca mio figlio – una cosa semplice e gioiosa in sé – riesca a creare così tanto disagio? E perché la cosa mi disturba quando lui vuole mettersi un vestito da femmina?”

Nonostante il tono deciso della lettera che i genitori di Alex hanno inviato via mail agli altri genitori della classe, Susan era terrorizzata. Temeva che la propensione di Alex per la femminilità lo rendesse un facile bersaglio di atti di bullismo, anche se in una scuola di una città piuttosto progressista del New England, dove vivevano. Si sentita torturata dalle statistiche che indicavano che i teenager omosessuali e di trans-genere, quello che lei immaginava Alex potesse diventare, erano più soggetti all’uso di droghe e a commettere suicidio. Iniziò ad avere attacchi di panico. “Era tutto una grande vertigine” disse. “E’ dura realizzare quanta differenza possa significare l’identità di genere nell’esistenza di una persona. Come genitore, è molto destabilizzante quando questo riguarda un proprio figlio. E mi preoccupavo del fatto che se per me era così difficile capirci qualcosa di questo mio figlio, io che lo amo più della mia vita, come avrebbe mai potuto reagire la gente davanti a lui?”.

Finora si è fatta ben poca ricerca sui bambini di genere non-conformato, per cui è impossibile sapere quanti bambini escono dai limiti del genere – o anche quali sono esattamente questi limiti. Studi fatti calcolano che dal 2 al 7% dei maschi sotto i dodici anni mostrano regolarmente comportamenti di genere misto, anche se molto pochi desiderano realmente essere una femmina. Ciò che questo indica per il loro futuro, è difficile saperlo. Intorno ai dieci anni, la maggior parte dei maschi “rosa” lasciano perdere la loro propensione all’aspetto e ad atteggiamenti non convenzionali, sia perché superano questo desiderio sia perché lo reprimono. Tutti gli studi eseguiti su quello che accade nell’età adulta ai bambini maschi di genere non definito, mostrano tutti forti limiti metodologici, tuttavia indicano che anche se molti uomini omosessuali nell’infanzia non sono stati maschietti “rosa”, dal 60 all’80% dei maschietti “rosa” alla fine diventano omosessuali. Il resto, crescendo, diventano o uomini eterosessuali o donne, facendo cure ormonali o sottoponendosi a operazioni chirurgiche.

Tuttavia, i comportamenti di genere “fluido” da parte delle femmine raramente diventano oggetto di studio, questo perché le varianti alla femminilità tradizionale sono tante, diffusissime e generalmente accettate. Gli studi in material indicano che le “maschiacce” hanno molto più probabilità delle tipiche “femmine” a diventare bisessuali, lesbiche o a identificarsi in un “maschio”, ma la maggior parte di esse diventano eterosessuali.

Alex faceva chiaramente parte di quella piccola percentuale di maschietti che oscillano tra i limiti dei due generi. A tre anni insisteva nell’indossare le gonne anche dopo che finivano i giochi di travestimento all’asilo che frequentava. Faceva finta di avere i capelli lunghi e disegnava figure di ragazze dalle lunghe trecce con gonne ampie e sontuose. A quattro anni, spesso singhiozzava quando si guardava nello specchio mentre aveva i pantaloni, diceva di sentirsi brutto.

Preoccupata, sua madre iniziò a navigare su internet in cerca d’informazioni. Insieme al marito Rob trovarono in rete il sostegno necessario per affermare – invece che reprimere – le espressioni di “genere fluttuante” che il loro bambino mostrava. Solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile trovare un simile incoraggiamento. Va detto che i movimenti gay hanno fatto una grande differenza. Inoltre, la visibilità delle persone trans-genere – sia tra candidati politici sia tra i ballerini di tango di Ballando con le Stelle – ha creato una notevole breccia per chi si sentiva in mezzo ai due generi. Benché l’accettazione non sia ancora molto diffusa, molti distretti scolastici e governi locali non ammettono la discriminazione in base all’identità e alle espressioni di genere sessuale.

Anche gli attivisti trans-genere hanno fatto molte pressioni per far apportare cambiamenti importanti nella psichiatria, che tuttora considera la confusione tra i generi una vera e propria malattia mentale.

Ora, l’Associazione degli Psichiatri Americani sta rivedendo la diagnosi di “Disturbo dell’Identità di Genere nei Bambini” nella prossima edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali”. I critici, però, condannano la scelta del Dr. Kenneth Zucker come capo dell’indagine. Zucker dirige un’importante Clinica dei Disturbi dell’identità di Genere Sessuale a Toronto ed è il più famoso e qualificato difensore dei metodi tradizionali nei casi di non-conformità ai generi. Zucker invita i genitori a dirigere fermamente i bambini verso giocattoli di genere ben definito, e lo stesso vale per l’abbigliamento e i compagni di gioco, e consiglia di proibire qualsiasi comportamento associato all’altro sesso. Gli articoli accademici di Zucker sostengono che mentre la biologia di un individuo può predisporre alcuni bambini alla non conformità di genere, altri fattori, come traumi e scompensi emotivi, hanno spesso una forte influenza. Altre concause citate sono “madri iperprotettive”, “padri emotivamente assenti” o “madri ostili verso il sesso maschile”.

I difensori del genere fluido e i medici simpatizzanti affermano che dire a questi bambini di smettere con i loro interessi e propensioni di tipo trans-genere, non fa altro che aumentare il loro stress mentale.

Ci sono, inoltre, pochissime prove che l’intervento terapeutico possa cambiare il percorso d’identificazione di genere o l’orientamento sessuale in questi bambini. I medici contrari alle terapie tradizionali sostengono che il non conformarsi a un genere è la stessa cosa che essere mancino: insolito, ma non innaturale. Invece che spingere i bambini a conformarsi, questi medici gli insegnano a come reagire alle espressioni d’intolleranza, incoraggiano i genitori ad accettare le espressioni naturali dei loro figli, soprattutto perché alcuni studi mostrano che l’appoggio dei genitori costituisce per questi bambini una forte difesa contro l’autoemarginazione e la perdita di stima in se stessi.

Non è noto quanti genitori effettivamente scelgono di seguire quest’ approccio invece che quello tradizionale. Risulta chiaro però che negli ultimi anni, in U.S.A. e in Europa, sono aumentate le “sfide” ai modelli convenzionali sia nelle pubblicazioni scientifiche, sia tra gli specialisti e sia tra i genitori stessi.

“Il clima è cambiato” ha detto Edgardo Menvielle, direttore di uno dei pochi programmi mondiali dedicati ai giovani di genere non-conformato al Children’s National Medical Center di Washington. “Molti genitori non vanno neanche più dai medici. Vanno sui siti internet e si associano a gruppi online di persone con lo stesso “problema”. Sempre più genitori decidono che indurre i propri figli a conformarsi a un genere preciso potrebbe seriamente danneggiare la loro autostima, cosa che condivido. Penso che non sia per niente etico dire a un bambino: ‘ Questo è il genere che tu devi essere’ ”.

A Washington, Menvielle coordina un gruppo di sostegno per genitori che ha fondato insieme con una psicoterapista di nome Catherine Tuerk. Quando il figlio di C. Tuerk (anche lui di genere atipico) era un bambino (parliamo di tre decenni fa), la madre consultò uno psichiatra che le disse di tenere suo figlio lontano dai giocattoli femminili e dalle amichette femmine, in modo da incoraggiare un atteggiamento più aggressivo. Lei e il marito iscrissero quindi il loro figlio a karate e a calcio e lo portarono dallo psicologo quattro volte la settimana, per anni. Il bambino diventò triste e arrabbiato. A ventun anni il ragazzo disse ai suoi genitori che era omosessuale. Col tempo la Tuerk e il marito capirono che tutti i loro sforzi non erano stati altro che un abuso sul loro figlio. La Tuerk da quel momento in poi si dedicò a evitare che altri commettessero lo stesso errore.

La mamma di Alex, Susan, conobbe la Tuerk nelle sue ricerche in rete al tempo in cui Alex chiese insistentemente per la prima volta di indossare vestiti da bambina per andare all’asilo. Dopo una lunga conversazione telefonica con la Tuerk, Susan comprò alcuni vestiti da femmina per il figlio. La cosa che infastidiva Alex era che per strada la gente lo scambiava per una femmina. “Non mi piace che mi prendono per quello che non sono” disse il bambino alla baby sitter. Quando i suoi genitori gli chiesero se voleva che per lui si usasse il pronome “lei” invece che “lui”, lui rispose “No, sono ancora un ‘lui’”.

Susan e Rob si domandavano se Alex alla fine diventasse un trans-genere. Sapevano che sempre più medici prescrivevano ormoni bloccanti della pubertà a ragazzi pre-adolescenti che consideravano il passaggio all’altro sesso. Questi ormoni non solo permettevano di guadagnare tempo ma risparmiavano ai giovani ragazzi lo svilupparsi di quelle caratteristiche sessuali che sentivano estranee a loro. Anche Zucker era a favore degli ormoni da dare ai teenager che volevano cambiare sesso, perché c’erano sempre più prove che tali cure evitassero frustrazione e tristezza. Molti però hanno dubbi se gli adolescenti siano o meno abbastanza maturi da prendere simili decisioni definitive, soprattutto considerando che non sono ancora ben noti gli effetti collaterali di cure ormonali così prolungate.

Anche se ad Alex mancava ancora molto tempo prima di dover prendere una simile decisione, la madre Susan ci pensava spesso quando assisteva agli sconvolgimenti emotivi del bambino mentre frequentava l’asilo. Si era fissato con un vestito color lavanda e andava su tutte le furie quando la madre lo metteva da lavare. Allarmati, Susan e Rob decisero di limitare i giorni di “travestimento” ai martedì e ai sabati, dicendo ad Alex che non potevano lavare i suoi vestiti preferiti così spesso. La loro vera ragione era molto più complessa. Primo: non avevano la forza emotiva di permettergli di indossarli ogni giorno e avere a che fare con i fraintendimenti e i giudizi della gente. Secondo: avevano notato che Alex si comportava in diversi modi, secondo l’umore del giorno e dai vestiti che indossava. Mentre continuavano a dare ad Alex giochi e giocattoli di vario genere, speravano che se avesse indossato più a lungo vestiti da maschio si sarebbe sentito più a suo agio quando nella società, poiché avrebbe risposto alle aspettative di genere che essa si attenda da lui per il suo sesso biologico, data la reale possibilità che si sarebbe alla fine evoluto in un adulto maschio ben identificato.

Eppure era difficile non domandarsi cosa intendesse veramente Alex quando diceva che si sentiva come un “maschio” o come una “femmina”. Quando si comportava in modo femminile, era perché semplicemente gli piacevano le cose delle femmine e quindi pensava che fosse bello essere femmina? Oppure davvero in quei momenti si sentiva come una femmina (qualunque sia questa sensazione) e quindi consolidasse questo modo di sentirsi scegliendo giocattoli, vestiti e atteggiamenti culturalmente identificati come “da femmina”? Qualunque fosse il ragionamento, l’ossessione di Alex era poi così diversa dall’ossessione di migliaia e migliaia di ragazzine che insistono nell’indossare vestiti scomodissimi? Era poi così diversa dall’ossessione contraria delle “maschiacce” che invece non sopportano simili indumenti?

Nessuno sa il perché la maggior parte dei bambini scivola facilmente nel genere loro assegnato e invece alcuni non riescono a farlo. I livelli ormonali sicuramente contribuiscono a determinare l’uno e l’altro comportamento. Un suggerimento ci viene da una rara condizione genetica conosciuta come Iperplasia Adrenalinica Congenita ( C.A.H. ). Tale condizione produce ai primi stadi della gestazione alti livelli di androgeni, compreso il testosterone, e può creare nelle femmine dei genitali simili a quelli dei maschi. Le femmine affette dalla C.A.H. sono educate come femmine e gli sono somministrati ormoni femminili, anche se alcuni studi hanno dimostrato che queste ragazze sono più aggressive e attive fisicamente delle normali ragazze, e hanno una particolare propensione per giocattoli come macchine, camion, costruzioni e compagni di gioco maschi. Anche se la maggior parte di loro diventa eterosessuale, le femmine affette da C.A.H. hanno maggiore probabilità di diventare lesbiche o bisessuali di altre femmine che durante la gestazione non sono state esposte ad androgeni.

Anche la genetica ha il suo ruolo nella determinazione del genere. Alcuni ricercatori hanno messo a confronto il comportamento di genere di due gemelli identici (che condividono il 100% dei geni) con quello di due gemelli diversi (che condividono circa metà del corredo genetico). Lo studio più importante è stato un’indagine olandese del 2006 sui gemelli, 14.000 soggetti di sette anni e 8.500 di dieci. Lo studio concludeva che i geni determinano per il 70% il comportamento atipico di genere in entrambi i sessi. Tuttavia non era chiaro cosa fosse ereditato esattamente: se le precise preferenze di comportamento, o l’istinto ad associarsi all’altro genere, o l’impulso a rifiutare i limiti che vengono imposti – o altri elementi del tutto diversi.

Qualunque sia l’influenza biologica, le espressioni di mascolinità e di femminilità sono culturalmente e storicamente ben definite. Nel 19° secolo, sia i maschi sia le femmine spesso indossavano vestiti lunghi e avevano capelli lunghi fino a sette anni. I colori erano gli stessi per entrambi i sessi. A volte il rosa era considerato un colore “forte” e quindi maschile, mentre l’azzurro era considerato delicato, I vestiti dei bambini per entrambi i sessi avevano lacci, balze, fiori e merletti. Ci furono cambiamenti all’inizio del 20° secolo, scrive Jo Paoletti, un professore di studi Americani all’University of Maryland e autore di “Rosa e Celeste: distinguere maschi e femmine in America.” A quel tempo, alcuni psicologi iniziavano a sostenere la tesi che quei maschi che s’identificavano troppo con la propria madre sarebbero diventati omosessuali. Nello stesso momento le suffragette spingevano per l’emancipazione della donna. Per risposta a queste pressioni sociali, l’abbigliamento iniziò a cambiare e i maschietti cominciarono a indossare vestiti diversi da quelli delle madri e delle femmine in generale. Nel 1940 qualsiasi forma di merletto fu bandito dall’abbigliamento maschile e anche i colori iniziarono a distinguersi precisamente tra i sessi.

Nel frattempo le donne iniziarono a indossare i pantaloni, a lavorare fuori di casa e a praticare diversi sport. Settori storicamente “maschili” divennero territorio neutrale, specialmente per le ragazze adolescenti, e l’idea di una ragazza che si comportasse in modo maschile perse la sua connotazione critica. Uno studio del 1998 del Giornale Accademico Sex Roles indica quanto sia diventato ordinario per le ragazze occupare tranquillamente quello “spazio intermedio”: il 46% delle cittadine adulte, il 69% delle baby-boomers e il 77% delle donne della Generazione X affermano di essere state delle “maschiacce”.

Ai giorni nostri, l’evoluzione delle convenzioni legate al genere si estende anche alla scelta dei nomi dei figli: nomi che un tempo erano decisamente maschili, ora sono usati anche per le femmine. Mai però accade il contrario. Questo accade perché le ragazze tendono a conquistare nuovi spazi sociali quando “invadono” il territorio maschile, mentre i ragazzi fuggono da ogni accenno di femminilità. “Essere uomini, nella nostra società, è molto più vantaggioso” dice Diane Ehrensaft, una psicologa dell’University of California, San Francisco, che è favorevole a consentire ai bambini di essere, come lei li definisce, di “genere creativo”. “Quando un ragazzo vuole comportarsi come una ragazza, la cosa ci fa tremare, perché per quale motivo una persona vorrebbe essere di genere ‘inferiore’?” I maschi sono sette volte più soggetti delle femmine a dover ricorrere agli specialisti per valutazioni psicologiche. A volte le “infrazioni” si limitano al desiderio di una Barbie per Natale. In confronto, la maggior parte delle ragazze che ricorrono agli psicologi sono molto più estreme nella loro “atipicità”: vogliono nomi e pronomi maschili.

Alcune culture definiscono delle precise categorie per quelli che escono fuori dalle convenzioni sociali legate al genere. A Samoa, I maschi biologici che assumono atteggiamenti femminili sono definiti del “terzo sesso”, in lingua locale “fa’afafine”. Negli U.S.A., alcuni di questi che occupano il cosiddetto “spazio intermedio” si autodefiniscono “genderqueer”, anche se non si tratta di un concetto culturale ben preciso.

“La gente ha bisogno della distinzione tra generi per comprendere il mondo, per mettere ordine nel caos” dice Jean Malpas, che dirige il Progetto Genere e Famiglia all’ Ackerman Institute di Manhattan. “Abbiamo voluto così testare il benessere delle persone: “Ti senti a tuo agio? Ti senti bene? O ti senti in imbarazzo?” Le categorie sociali di UOMO/DONNA, RAGAZZO/RAGAZZA sono fondamentali, e quando un individuo sfida quest’ordine rendendo vaghi i confini tra le due, all’inizio la cosa disorienta molto. “E’ come se si mettessero in questione le leggi della gravità”.

E’ così per Moriko e suo marito, che per anni hanno lottato per comprendere l’attrazione del loro figlio per i vestiti femminili, anche se la cosa lo emarginava socialmente. “Ero triste e spaventata, davvero spaventata” disse Moriko. “Questa cosa qua non è certo contemplata nel libro “Cosa devi aspettarti quando aspetti”. Non sapevo cosa fare, cosa pensare e cosa sarebbe accaduto. Portarono il loro figlio di sette anni da uno psicologo a New York, sperando di avere un’adeguata consulenza e un buon sostegno. Al contrario, la terapista attribuì a loro la femminilità del loro figlio, disse che Moriko era emotivamente distaccata e che suo marito era troppo assente. Consigliò loro di confiscare al bambino le bambole e I vestiti da femmina e di trovargli dei compagni di gioco maschi. Seguirono le sue istruzioni, ma il loro figlio diventò triste; alla fine interruppero la terapia. “Era evidente che non era quella la strada giusta”. Disse Moriko. “Stava facendo del male a tutti noi”.

Quando suo figlio ebbe nove anni, Moriko e un’altra madre diedero il via a un gruppo di sostegno per famiglie che intendevano accettare, e non cambiare, le espressioni di genere sessuale dei loro figli. Offrirono una stanza per far parlare tra loro i genitori e un’altra stanza per far giocare i loro figli. Oggi questo gruppo conta più di venti famiglie. Pochi di questi bambini prendono ancora farmaci bloccanti degli ormoni, alcuni altri sono diventati chiaramente omosessuali. Il figlio di Moriko è ancora ‘fluttuante’.

Il figlio di Moriko fra poco frequenterà la terza media alla scuola media statale di Long Island. I suoi amici sono per lo più ragazze e lui si veste come loro: jeans aderenti, eyeliner nero, rossetto color pastello e camicette scollate che prende dal reparto ragazze dei grandi magazzini. (Moriko gli fa indossare sotto una canotta). Quando i suoi insegnanti gli chiesero che pronome dovessero usare quando parlavano con lui, lui disse “maschile”. Ma lui non vuole essere chiamato né ragazzo né ragazza.

“Questo ragazzo si trova esattamente nel mezzo” disse Moriko. “I suoi piedi si stanno allungando, la sua voce si fa più profonda. Non intende prendere i bloccanti degli ormoni, proprio non sappiamo cosa succederà”. E qui Moriko singhiozzò e iniziò a piangere. “La sua terapista mi ha detto, “So bene che finora siete vissuti per tanto tempo senza una “casella” di genere e so che è molto frustrante e confuso, ma ora il ragazzo non vuole essere messo in alcuna “casella di genere”. Non sto cercando di etichettarlo, ma è dura non domandarmi che cosa è, se non è un maschio e neanche una femmina. A volte penso che non essere in una precisa “casella di genere” sia un male, fosse anche “omosessuale” o “genderqueer”.’Voglio solo aggrappare la mia mente a un concetto preciso. So che devo essere paziente, ma a volte mi sento come un ostaggio emotivo perché, essendo sua madre, è mio compito aiutarlo a essere quello che desidera essere, e non posso farlo se neanche lui sa ancora cosa vuole essere.”

La non conformità a un genere preciso è un argomento delicato, e quei genitori che accolgono favorevolmente questa cosa nei loro figli possono essere molto malgiudicati. Quando J. Crew fece uno spot con la loro presidente che metteva lo smalto rosa alle dita dei piedi di suo figlio, con la scritta “Sono fortunata, mi ritrovo un figlio che come colore preferito ha il rosa” un commentatore disse che stava sfruttando suo figlio “nascondendosi dietro una facciata di politica liberale e d’identità trans-genere”. Poi arrivarono Kathy Witterick and David Stocker, la coppia di Toronto subito presa di mira dalla critica dopo aver affermato di non voler rivelare il sesso del loro figlio perché non volevano sottoporlo ad alcuna aspettativa di genere sessuale. L’idea gli venne dal loro figlio di sei anni, Jazz, che per tre anni aveva insistito nel voler scegliere nei negozi i suoi vestiti dal reparto “bambina”. “Non avevo alcuna intenzione di distruggere le nozioni dei generi sessuali nei miei figli.” Mi disse Witterick. “Avevo abbastanza esperienza di vita da sapere che il modo con cui costruiamo la mascolinità determina se gli uomini siano vittimizzati perché sono delle femminucce o diventino dei “duri” che vittimizzano quelli che non lo sono. Ma non ho problemi ad ammettere che la prima volta che Jazz scelse un vestito da femmina dallo scaffale del negozio, davvero non sapevo cosa fare. Gocce di sudore iniziarono a scendermi sulla fronte.”

Ellen R. e suo figlio di dieci anni, Nick, vivono in un piccolo centro del New Jersey. A volte Nick passa ore a disegnare gonne per le sue trentasei Barbie e a crearle sia per sé sia per le sue bambole, usando stoffa, nastri e nastro adesivo. Per un po’ Nick tenne segreta questa sua passione, Ma un giorno in seconda elementare un amico passò a casa di sorpresa e vide le Barbie sparse in tutto il soggiorno. Il bambino fuggì via di corsa da casa nostra, Il giorno dopo, a scuola, disse a tutta la classe “Nick gioca con le bambole.” “Tutti mi guardarono, volevo urlare, ma a scuola non si può urlare. Così ho detto che non era vero. Ma non mi ha creduto nessuno”. Per qualche minuto restò silenzio, concentrandosi su un fermaglio un po’ difettoso sui capelli di una delle Barbie. “Lui era mio amico” poi disse. “Questa è la cosa peggiore”.

Da allora, sono due anni che Nick non ha mai invitato né è stato mai invitato a giocare a casa dei suoi compagni di scuola. Sotto sotto Ellen è convinta che Nick non debba vergognarsi di ciò che è. Ciononostante deve combattere contro il timore di venire emarginata e malvisti. “Quando tuo figlio ha atteggiamenti femminili all’asilo, gli altri genitori pensano che sia carino, Ma non è più carino quando sono all’elementare, e sempre meno a mano a mano che cresce. Quando sono seduta vicina ad altri genitori alle riunioni e alle assemblee di classe (sono rappresentante di classe), ed è difficile non pensare: ‘Forse quelli stanno prendendo in giro sia me sia mio figlio’”.

Per altri genitori, il disagio è ancora più forte. Quando Jose era piccolo, suo padre, Anthony, accettò la “fluidità” del suo genere, e persino giocava con lui al “negozio di bellezza”. ”Ma a mano a mano che Jose cresceva, venne chiaro che i suoi interessi non erano soltanto fantasie passeggere” ricorda Anthony. Lottò a lungo contro il senso di confusione, di delusione e di alienazione che gli provenivano da suo figlio, che si autodefiniva “ragazza-ragazzo”. Anche se cercava di nasconderlo, ad Anthony gli si stringeva il cuore quando vedeva Jose che si pavoneggiava con addosso un vestito prestato da un vicino, o con una parrucca in testa. A volte Anthony si univa senza problemi a qualsiasi gioco Jose stesse giocando, a volte invece lo contrastava. Se Jose usciva fuori da casa portando con sé una Barbie, Anthony borbottava: “Devi per forza portarla con te ogni volta?” Una volta quando Jose aveva tre anni e si metteva dei vestiti da donna ogni giorno, Anthony protestò “Jose! Sei un maschio! Non sei una femmina – sei un maschio!” e poi iniziò a piangere. Jose scivolò fuori dal letto si avvicinò al padre piangente e iniziò ad accarezzargli la testa. “Non sapevo proprio come rapportarmi con lui” ha ricordato Anthony recentemente. “Non sapevo come fare il padre di una figlia femmina nel corpo di un maschio.”

Anthony e sua moglie, che vivono a New York, hanno creato un sito internet di sostegno e hanno iniziato ad andare da uno psicologo. Questo li ha invitati a permettere a Jose di giocare con i giochi che lui voleva. In un compresso terapeutico, lo psicologo ha suggerito di consentire a Jose di indossare a casa qualsiasi cosa volesse, ma fuori casa non doveva farlo per nessun motivo, per evitare di essere preso in giro. L’estate dopo l’asilo, Jose and Anthony andarono a un campo dedicato ai bambini di genere atipico. Lì Anthony fu molto colpito nel vedere come erano felici tutti i bambini di giocare insieme in piena libertà indossando anche vestiti femminili. Dopo questa esperienza, lui e sua moglie entrarono in un gruppo di sostegno e iscrissero Jose a una prestigiosa scuola di ballo, dove tuttora si sta notevolmente distinguendo per la sua bravura. Anthony è molto fiero di questo suo talento.

Ora Jose ha nove anni. E’ interessato ai Lego e ai cartoni animati dove i supereroi lottano per combattere il crimine. Raramente indossa un vestito femminile ed è felice di essere un ragazzo; gioca ancora con le bambole, solo questo. Anthony è soddisfatto della situazione, anche se ammette con una certa riluttanza che ancora non sopporta quando il figlio parla e si atteggia come una diva del cinema, e di questo non sa spiegare il motivo. Anthony ha chiesto scusa a Jose. “Gli ho detto che avevo la mente chiusa. Non capivo proprio, non avevo mai conosciuto uno come lui, quindi mi c’è voluto tempo per abituarmici. E mi dispiace molto”. E più di una volta Jose gli ha detto: “Ti perdono”.

E’ vero che ai nostri giornii ragazzi e gli uomini hanno più spazi per scegliere il loro abbigliamento e come comportarsi, anche in modo molto meno mascolino che in passato. Tra gli uomini son ormai diffusi i capelli lunghi e alcune collane e alcuni orecchini, specie in alcune società. Molti uomini si depilano le sopracciglia, fanno manicure e indossano abiti rosa. In alcune zone del paese, quest’apertura degli stili ha consentito in parallelo un’apertura per quei maschi che oscillano tra le regole dei due generi sessuali.”

Ad esempio, James, un ragazzo di quattordici anni che dai cinque fino ai dieci anni ha portato i capelli lunghi, ha indossato vestiti femminili e spesso è stato scambiato per una femmina. Questa cosa né lo disturbava né lo esaltava. In quinta elementare, però, aveva abbandonato le gonne. Un anno dopo, era così convinto di essere un ragazzo che proibì categoricamente ai genitori di ricordare o menzionare il suo passato con i suoi amici.

James ora è alto un metro e ottanta, la sua voce è profonda. I suoi capelli sono ancora lunghi fino alle spalle e si tinge le punte di rosa. Quando è con amici maschi, giocano insieme ai videogiochi e creano personaggi manga. Quando è con amiche femmine, si travestono con parrucche e fanno scenette, con toni di voce acuti. Si spazzolano i capelli e si fanno le treccine tra loro.

A un caffè vicino la loro casa di Cambridge, suo padre mi disse che all’inizio aveva cercato di dissuadere James dall’indossare vestiti femminili in pubblico, per difendere se stesso e il proprio figlio dai giudizi e dalle critiche. Ma quel primo imbarazzo si è piano piano trasformato in orgoglio. “E’ una persona davvero molto coraggiosa” disse il padre. “Ho imparato tanto da lui… Al College ricordo che mi chiedevo perché i gay non si comportano in modo meno appariscente? La gente smetterebbe di dargli addosso, ma poi ho pensato: ehi, parla per te. Ora so che è sbagliato. Mio figlio mi ha dimostrato che fa tutto parte di un’identità, non qualcosa che una persona si mette e si toglie a suo piacimento. E non sta a loro preoccuparsi di metterci tutti a nostro agio.

Un giorno, questa primavera, andai al parco giochi con un bambino di 8 anni di nome P. J. Un nastro rosa con delle farfalle luccicanti teneva legati I suoi folti ricci neri, che ogni tanto si tirava indietro con gesto teatrale. Indossava un casco da bici decorato con serpenti e scheletri, una maglietta Pokemon blu, pantaloni stretch neri e rosa, una felpa fucsia e al collo un cuore iridescente come ciondolo. Lui e il suo amichetto correvano felici intorno al parco rincorrendosi chiassosamente, si fecero nuovi compagni di gioco.

Dopo aver giocato per mezz’ora, alcuni bambini fecero capannello per riprendere fiato e per conoscersi un po’ tra loro. Gli occhi di una ragazza di dieci anni si spalancarono. Si rivolse a me, l’adulto più vicino a lei, e mi disse: “Lo sai che lei è un maschio?” Feci sì con la testa. Convinta che avessi capito male, indicò P.J. che era vicino a lei e disse “No! Questa qui è un maschio!”. I genitori di P.J gli permettono di indossare abiti da ragazza in pubblico, cosa che fa raramente, ben sapendo i commenti che la cosa susciterebbe (es. Sì dal dentista, no a casa dei nonni). A scuola, però, i genitori gli permettono di indossare qualsiasi cosa tranne che vestiti da femmina, poiché il vestito intero è un indumento che da solo è più esplosivo di tutti i rosa, fucsia e lustrini messi insieme. P.J. mi disse che indossava camicette da “femmina” (usò le dita per fare il gesto “tra virgolette”) tre giorni la settimana e camicie da maschio gli altri due giorni. Il più delle volte sceglie pantaloni rosa o viola. Nonostante i genitori avessero pagato di tasca loro mezza giornata di formazione, destinata agli insegnanti della scuola, di psicologia legata alle incertezze sessuali nei bambini, P.J. è ancora preso di mira sul pullmino della scuola o durante l’ora di ricreazione.

“Alcuni ragazzi a scuola mi prendono in giro” dice lui. “Continuano a chiedermi,” e qui la voce diventa piagnucolosa “Sei un maschio o una femmina? Mi sono dimenticato’. E poi me lo chiedono anche il giorno dopo. Non ci credo che se lo sono dimenticato un giorno dopo soltanto, sono soltanto cattivi. Dicono che mi dovrei tagliare i capelli perché così sembro una ragazza e se sembro una ragazza è sbagliato. Non sono affari loro, ma me lo dicono lo stesso.”

Il videogioco preferito di P. J., Glory of Heracles, mostra un personaggio di genere ambiguo che P.J. definisce come una ragazza che vuole essere un ragazzo. “Ti senti così?”Gli chiesi un giorno a casa sua. “No, non voglio essere una ragazza” disse, mentre si specchiava nello specchio della sua camera mettendosi in posa, stile Cosmopolitan. “Voglio solo mettermi roba da ragazze”. “Perché vuoi essere un maschio e non una femmina?” Gli chiesi. Lui mi guardò come se fossi un alieno. “Perché voglio essere quello che sono!”

Per spiegarsi meglio, mi raccontò di un ragazzo della terza classe che era fanatico del calcio. “Lui viene a scuola tutti i giorni con la tuta da calcio” disse P.J, “ma questo non significa che lui è un calciatore professionista”. Ha ragione: nessuno si gira a guardare chi sogna di diventare una star del mondo del calcio, mentre ragazzi come P.J. e Alex vengono guardati con imbarazzo, soprattutto quando diventano ancora più grandi.

Per questo motivo, l’estate scorsa, mentre I genitori di Alex stavano considerando di mandare il figlio alla scuola elementare locale, avevano timore che i bambini potessero trattarlo male e prenderlo in giro. Decisero quindi di proibirgli di mettersi vestiti da femmina all’asilo. Alex non la prese tanto male. A quel tempo le sue richieste di travestimenti si erano diradate, una volta o due al mese al massimo, e si metteva sempre vestiti da maschio, anche se gli piaceva sempre mettersi una collana con perline del colore dell’arcobaleno e lo smalto alle unghie. Inoltre, i suoi genitori gli avevano detto che I calzini, le scarpe, lo smalto e I gioielli li decideva lui – come un modo per esprimere se stesso mentre tastava il terreno a poco a poco.

Verso la fine della prima settimana di asilo, Alex arrivò a scuola indossando dei calzini rosa-shocking – uno di quei colori “proibiti”. Un bambino della classe gli chiese: “Ma che sei una femmina?” Alex disse ai suoi genitori che si era sentito offeso e che non aveva avuto il coraggio di rispondere. Per solidarietà suo padre comprò un paio di scarpe da ginnastica rosa da indossare la mattina quando accompagnava Alex a scuola.

Intervenne poi anche l’insegnante di Alex, la signora C. Durante l’ora del “cerchio di esperienze” menzionò dei suoi amici maschi che si mettevano lo smalto alle unghie e portavano orecchini. La Signora C. disse che quando era più giovane le piaceva indossare le scarpe da ginnastica dei maschi. Questo forse la rendeva un maschio? I bambini pensavano forse che non avrebbe dovuto farlo? Pensavano forse che fosse giusto riderle dietro per questo? I bambini dissero di no. Poi disse loro che tempo fa alle ragazze era vietato indossare i pantaloni, cosa che fece spalancare gli occhi a più di un bambino. “Dissi: ‘ Potete immaginare se vi proibissero di indossare pantaloni quando lo volete ‘? E se voleste davvero indossarli e qualcuno vi dicesse che non vi è permesso solo per il fatto che siete femmine? Sarebbe una cosa tremenda!” Dopo queste parole, praticamente finirono in classe i commenti sull’aspetto di Alex.

Ci vollero settimane ad Alex per ritrovare la sua sicurezza. E poi, circa una volta alla settimana, si metteva i suoi calzini rosa e le sue scarpe luccicanti e trotterellava baldanzoso in giardino a giocare.

Ruth Padawer insegna alla Columbia University Graduate School of Journalism
Redattore: Vera Titunik

Fonte: www.nytimes.com
Link: http://www.nytimes.com/2012/08/12/magazine/whats-so-bad-about-a-boy-who-wants-to-wear-a-dress.html?pagewanted=all&_moc.semityn.www
8.08.2012

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.orga cura di SKONCERTATA63

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