CHARLIE E LE BANLIEU

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DI GEORGE KAZOLIAS

counterpunch.org

Il prezzo dell’intolleranza

Parigi – Sono arrivati in centinaia di migliaia. Ebrei, musulmani (benché meno di quanto si sperasse), cristiani e atei: studenti, lavoratori, disoccupati e borghesi. Dicevano “Io sono Charlie”. “Io sono Ahmed” ( il poliziotto ucciso a Charlie Hebdo). “Io sono ebreo”. O semplicemente non dicevano nulla.

Erano anarchici, comunisti e ultranazionalisti, socialdemocratici e conservatori. Erano anche islamofobi e antisemiti. La sola cosa che li univa tutti era il rifiuto di cedere alla paura e il loro desiderio di mantenere la libertà di pensare ciò che vogliono e di poterlo dire in pubblico senza dover affrontare questa violenza oscurantista. Questo convergere tutti insieme di persone che credono nel diritto di non essere d’accordo è straordinario. La Francia, che ha dato vita all’Illuminismo, al 1789 e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è ancora une Grande Nation.

E poi c’erano i leader mondiali. Il Primo Ministro ucraino, Arsenij Jacenjuk, che ha dei neonazisti nel suo governo e che non ha fatto nulla per consegnare alla giustizia quei fascisti e alcuni poliziotti loro complici che lo scorso maggio hanno assassinato 48 russi ad Odessa.

C’era il Primo Ministro ungherese, Viktor Orbán, che ha preso diverse misure per imbavagliare la stampa di opposizione, guadagnandosi il disprezzo di “Reporter senza frontiere” che classifica questo paese al 64° posto per la libertà di stampa. È andato anche incontro a critiche a livello internazionale per il trattamento nei confronti dei rom e per l’antisemitismo che dilaga del suo partito.

Era presente anche il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, i cui precedenti nei confronti dei diritti umani sui palestinesi non hanno bisogno di commenti. Israele è un paese che il professor Shlomo Sand chiama “il più razzista al mondo!”. Netanyahu ha sfruttato la sua visita a Parigi per lanciare un appello agli ebrei francesi, suggerendo loro di emigrare in Israele dove, ha detto, sarebbero protetti, sottintendendo che in Francia non lo siano.

Per cinque giorni i reporter hanno seguito la storia, inseguendo la polizia, contando i morti, creando isteria, restando sulla superficie degli eventi in evoluzione, tenendoci ben informati su quello che avremmo potuto veder succedere sugli schermi.

E, ovviamente su tutti i canali TV, gli onnipresenti leader politici e religiosi, gli analisti del sistema, gli esperti e gli apologeti che promuovono i valeurs de la République; le “teste parlanti” che puntano tutte il dito contro l’Islam radicale importato dal Medioriente, “che non ha spazio nella nostra République”, informandoci che questo “non è Islam”.

Ma il problema è che i tre attentatori erano figli della Francia: nati, cresciuti e imprigionati nella République. Loro sono il prodotto finale di un esperimento mal riuscito. Forse è questo il motivo per cui l’unica cosa palesemente assente dalla TV erano le banlieue, quei ghetti periferici in cui si trovano le cité, anonimi progetti abitativi costruiti per poco prezzo da manodopera immigrata negli anni ’60 e ’70 e in cui si è piazzata la maggior parte della popolazione musulmana francese.

Quella dei giovani arabi o neri è una vita di umiliazione. Possono essere fermati più volte al giorno dalla polizia per il controllo dei documenti d’identità. Il loro orizzonte è ostruito da queste abitazioni fatte di lastre di cemento alte 15 piani dall’altra parte della strada. La disoccupazione è tre volte la media nazionale. Che importanza ha se i loro genitori sono venuti qui in cerca di una vita migliore? Per loro non c’è speranza. Come ha detto un insegnante: “l’uguaglianza non esiste e i ragazzi non sono scemi”.

Questo emerge chiaramente vedendo alcuni studenti che escono dalle aule, fischiando e infastidendo piuttosto che rispettando il minuto di silenzio osservato giovedì scorso per le 17 persone uccise dai tre islamici armati. Gli hashtag e il web salutano gli assassini come degli eroi.

Per molti di questi giovani, la Francia è in guerra con l’Islam. L’esercito era in Afghanistan. Parigi ha guidato la campagna per deporre Gheddafi. Stanno bombardando la Siria. Stanno combattendo contro i musulmani a Mali e nella Repubblica Centroafricana. Frustrati delle loro vite quotidiane, sentendosi tormentati da una società che fa carte false contro di loro, molti hanno una tendenza naturale a non vedere questi fanatici come dei “cattivi ragazzi”.

La retorica durante tutto il weekend può solo riaffermare il loro credere nella guerra. Sabato, su i-Télé, Roger Cukierman, Presidente del Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche in Francia (CRIF), ha dichiarato che gli attacchi di Parigi sono stati l’inizio della Terza Guerra Mondiale e li ha paragonati a cioè che sta accadendo in Siria e a Gaza.

L’ex Presidente Nicolas Sarkozy ha detto che “è stata dichiarata guerra alla Francia”. Per l’editorialista Ivan Rioufol, che scrive su Le Figaro, “La Francia è in guerra. Una guerra civile forse, domani. Il suo nemico è l’Islam radicale, l’Islam politico, l’Islam jihadista”.

La risposta di Roger Cukierman sembra poter creare ulteriore tensione nei ghetti arabi e musulmani in Francia. “Siamo in uno stato di guerra” ha detto. “Abbiamo bisogno di misure adeguate ad uno stato di guerra”. Il Primo Ministro francese, di origini spagnole, Manuel Valls sta spiegando oltre 10.000 truppe per sostenere la polizia.

Alcuni manifestanti domenica portavano dei cartelloni su cui era scritto “La risposta è più democrazia e più libertà”, ma i politici in Francia discutono sulla detenzione amministrativa: l’arresto e l’incarcerazione di una persona, non per ciò che questa ha compiuto o pianifica di compiere, ma per ciò che potrebbe compiere in base a come pensa e parla. È una “misura adeguata ad uno stato di guerra”.

Molte leggi repressive sono in corso d’opera perché “nulla sarà più lo stesso”. Molte persone mi hanno detto “questo è il nostro 11 settembre”. Valls ha promesso decreti governativi il prima possibile. “Non voglio che ci siano giovani che fanno il segno della “V” per “vittoria” dopo ciò che è successo”. Tra le misure da prendere c’è impedire a cittadini “sospetti” di lasciare il paese anche se non hanno fatto nulla di male e chiudere siti internet che diffondono idee fondamentaliste.
“Cambieremo un’era domani”, avrebbe affermato un consigliere del governo. “Mobilitare i tribunali, individuarli all’interno delle prigioni, attraverso i servizi segreti interni e stranieri intercettare le comunicazioni, controllare le frontiere: tutto è sul tavolo”.

Non è difficile capire perché i musulmani si sentano in generale nel mirino. Tutti questi provvedimenti saranno applicati ai loro vicini quando ciò che vorrebbero vedere sono misure per aiutarli a trovare lavoro, per ridurre le molestie da parte della polizia, per vivere con dignità piuttosto che provare perennemente umiliazione. Più repressione potrebbe non essere abbastanza per convincere i giovani marginalizzati delle periferie che gli ebrei sono persone che meritano rispetto, che le donne sono uguali agli uomini, che gli altri hanno diritto a credere in una religione diversa, o a non credere affatto.

Se non vengono prese misure per correggere ogni decisione sbagliata che la Francia ha preso riguardo la popolazione immigrata negli ultimi cinquant’anni, iniziando da un programma di urbanizzazione totalmente rinnovato, l’aumento di vigilanza può solo produrre un’intifada francese e omicidi ancora più furiosi.

Sabato, in un discorso ad Evry, di cui è stato una volta sindaco, il Primo Ministro Valls è riuscito a destreggiarsi tra due nozioni opposte. Mentre applaudiva da una parte una Parigi multiculturale e multi-religiosa, dall’altra denunciava il comunitarismo, l’identità con una razza, l’etnicità e/o la religione che va oltre la nazione. I giovani musulmani arrabbiati interpreteranno l’appello di Valls per una “tolleranza secolare” è che Multikulti va bene se sei benestante o giudeo e vivi nella capitale ma non se sei un disoccupato arabo che vive ancora coi genitori.

Come fece notare il filosofo tedesco Jürgen Habermass, in un’intervista dopo l’11 settembre, la tolleranza non coincide con l’ospitalità. “La tolleranza possiede un nucleo di intolleranza” perché implica che la persona o la nazione più forte consenta a quella più debole di agire come vuole all’interno di limiti imposti. E sembra che questi limiti si stiano man mano restringendo per la comunità musulmana francese.

George Kazolias è un giornalista che lavora a Parigi

Fonte: www.counterpunch.org/

Link: http://www.counterpunch.org/2015/01/13/charlie-and-the-banlieues/

13.01.2015

Traduzione italiana per www.comedonchisciotte.org a cura di GIULIA AMATO

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