CERCASI SEGGIO, DISPERATAMENTE

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DI CARLO BERTANI

Per dovere d’informazione – della vera informazione, che oramai si trova soltanto sul Web – vorrei chiedere dove sono i tanto millantati seggi per votare sul referendum per il welfare.
No, perché nella mia scuola (circa 60 dipendenti) e nell’azienda di mia moglie (altri 50 circa), nessuno ne sa nulla: telefono ad amici e conoscenti e mi raccontano le stesse storie.
Si narra di seggi “itineranti”, di “grande consultazione”, ma il delegato sindacale della mia scuola (CGIL) non sa nemmeno dove sia il seggio più vicino.

Marco Rizzo ha dichiarato d’essere in possesso di prove che certificano brogli: controlli non eseguiti sui votanti, “bonzi” sindacali che viaggiano di seggio in seggio (beati loro che sanno dove sono) depositandola in ogni luogo. La scheda, ovviamente.
Ovviamente, Rizzo è responsabile delle sue affermazioni, ma “dal basso” lo spettacolo che si vede sembra dargli ragione. E poi: quali sono le garanzie di questa consultazione? Chi certifica il numero dei votanti e lo spoglio? Gli stessi che hanno siglato l’accordo senza chiedere nulla – prima – ai lavoratori? La validità di una consultazione, deve essere confermata dalle Corti d’Appello: tutto il resto – le famose “primarie” del centro sinistra e questa scempiaggine dei sindacati confederali – è soltanto aria fritta.
Questa vicenda non è solo più un tormentone – uno dei tanti di questa fatiscente repubblica – bensì sta diventando la cloaca della democrazia italiana.
A cominciare da quella notte di Luglio – fabbriche oramai chiuse, scuole in vacanza, tutti al mare – quando si riunirono alle tre di notte per decidere il nostro futuro: non per nulla, quando ne scrissi, intitolai il pezzo “Di notte, come i ladri”.
Tutta la vicenda inizia con un vero e proprio attentato alla vita democratica del Paese, con una riunione ristretta, nella quale non era presente nessuno dei leader della sinistra italiana. Giordano e Diliberto sono doppiamente colpevoli, perché non basta – se sei parte di una coalizione – affermare che “non eri stato invitato”. La rivoluzione non è un ballo in maschera, ma ci puoi andare anche senza invito.
Su quella loro colpevole assenza, si sorvola, al punto che il chierico Damiano rilancia: «Non si può non votare oggi un accordo che, a suo tempo, si è accettato». Peccato che “a suo tempo” – vale a dire nella notte delle beffe – nessuno dei ministri della sinistra era presente.

Poi avanzano i tre Re Magi, e Bonanni va ancora oltre: «La politica deve fare un passo indietro rispetto a ciò che è già stato deciso dalle “parti sociali”». Quando l’ho udito, mi sono dato i pizzicotti.
Chi dovrebbe fare un passo indietro? Pur ammettendo che i nostri “dipendenti” non sono certo delle aquile, Bonanni non è nemmeno uno st…stornello. Chi mai l’ha eletto? Un comitato centrale di bonzi come lui, che per anni non hanno fatto altro che marinare il lavoro, godendo a piene mani dei permessi sindacali concessi a pioggia?
Perché i sindacati di categoria e tutti gli altri sindacati – chiamiamoli “minori” – non hanno voce in capitolo? Vorremmo conoscere la vera consistenza numerica della UIL, perché – qui, “dal basso” – un sindacalista della UIL non lo vediamo da decenni. Eppure, siedono su scranni regali che nessuna legge della Repubblica concede loro.
Le cosiddette “parti sociali” – signori miei – dalle mie parti si chiamano “corporazioni” ed erano lo strumento principe sul quale, in assenza di democrazia, si reggeva il Fascismo.
Con quale faccia il signor Bonanni si permette di siglare accordi, e poi pretende che i rappresentanti democraticamente (si fa per dire…) eletti si facciano da parte?

Ora, chi scrive non è così ingenuo da credere alla favola di Biancaneve – ossia che il giochetto non piaccia tanto anche ai nostri “dipendenti” in Parlamento – però la democrazia ha altre regole.
Le leggi, in uno stato democratico, le fanno i Parlamenti. Se le decidono i tre Re Magi, il Lucherino della FIAT ed i banchieri gentilmente rappresentati dal dott. Padoa Schioppa (manco lui eletto), significa che la democrazia in questo paese ha già chiuso i battenti. Di conseguenza, siamo autorizzati a rispondere con il canonico: “me ne frego!” (“Vaffa” nella versione Grillo).

Forse ci siamo persi qualcosa, ed allora è meglio rivedere come si è giunti a tanto.
L’inganno è sottile perché, nonostante le evidenze – ossia che siano stati al potere per cinque anni gli iscritti ad una loggia segreta, che oggi a tirare le redini siano gli uomini delle grandi banche d’affari, che le due parti siano in combutta (al punto che il “giacobino” Violante dichiarò in Parlamento che “c’era un accordo per non fare una legge sul conflitto d’interessi”) e che le leggi, oramai, le fa soltanto chi viene invitato a Palazzo Venez…pardon, Chigi – crediamo ancora di vivere in una democrazia.
Lo so che, a mente fredda, riconosciamo che così non è ma, il semplice fatto di non dover bere l’olio di ricino (o finire nel gulag), ci fa credere di vivere in democrazia. Come hanno fatto a turlupinarci in questo modo?
Ci può venire in aiuto una testimonianza poco conosciuta ma importante, quella di una persona che ha iniziato a parlare di “democratura”.
Il neologismo è stato coniato dallo scrittore croato Predrag Matvejevic, per descrivere l’abortita transizione delle repubbliche ex jugoslave verso la democrazia, ma ben si adatta per descrivere molti aspetti della nostra vita politica e culturale:

“Non si tratta più di una semplice crisi culturale, ma di ben altro: di una crisi di credito nella cultura. Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera sciagura. Riprendere le forme più primitive del capitalismo – che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato – non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti di sorta. L’idolatria dell’economia di mercato dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato, vuol dire la mercanzia! I risultati della democrazia borghese, che quelle «democrature» cercano di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali. Le conoscenze in materia di riformatori occasionali sono spesso limitate[1] .”

Chissà perché, quando leggo “riformatori occasionali”, mi vengono in mente i Di Pietro che vorrebbero rifondare l’Italia e i Calderoli che desidererebbero scrivere Costituzioni.
Matvejevic scrisse queste parole pensando, ovviamente, al disastro della sua gente, ma stiamo tutti procedendo – senza coscienza di compiere la transizione – verso scenari simil-balcanici: basta sostituire ai vetero-nazionalismi di quelle aree la nostra vetusta e noiosa cultura di regime, quel compendio di deindustrializzazione, di vertiginoso calo demografico e di riduzione dei redditi e dello stato sociale al quale stiamo assistendo.
Con la legge 30 – non la chiamo Biagi, perché non era questo l’impianto pensato da Biagi: ciascuno prese ciò che gli conveniva, compiendo semplicemente qualche “copia e incolla” qui e là, dove comodava – stiamo tornando a forme involute di capitalismo. E, guarda a caso, anche qui la “mercanzia” non abbonda: non è forse vero che la gente non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese?
La “crisi di credito” in una cultura è quella che i giovani che lavorano a progetto per 500-1000 euro il mese ben conoscono: in quale “cultura” devono ancora credere? In quella che – a fronte dell’opulenza di una ristretta elite – nega loro i fondamenti della vita: la possibilità d’avere una casa, di sposarsi, d’avere dei figli e guardare con speranza al futuro?
Quale speranza puoi avere se ti vengono negati i diritti più elementari? Non ci sono risorse? Falso.

Il grande problema del lavoro è che si continuano ad ignorare gli incrementi di produttività del sistema: ogni anno, l’occupazione delle grandi imprese diminuisce dell’1% circa. Si dovrebbero produrre meno beni: falso! Se ne producono di più!
L’incremento di produttività non viene considerato, ed esso segue lo stesso trend dell’occupazione, ma in positivo: in altre parole, più scendono gli occupati, più aumenta la produzione, perché oggi a produrre beni sono principalmente le macchine, non le mani dell’uomo.
Mentre un tempo, con le vere lotte sindacali, i lavoratori contrattavano quell’aumento di produttività, oggi – nel capitalismo che torna indietro, verso il liberismo sfrenato – i possessori di capitali ritengono che quei denari siano loro e basta.

Per sostenere questa tesi, servono abbondanti chierici e cantori: ecco la Casta dei tre Re Magi, del chierico Veltroni, del cardinal Prodi, del caporal Giordano. Dall’altra, nani e ballerine: il “venditore di minestre[2] ” Berlusconi, penosi tirapiedi come Bondi, mefistofelici azzeccagarbugli come Buttiglione, fegatosi spazzini di sacrestie come Casini, che trombano sull’indissolubilità della famiglia e poi frantumano la propria.
La dinamica, quindi, non può essere che quella degli accordi truccati, e non basta conoscere la truffa che compiono sulla moneta – il signoraggio è solo una parte del problema – perché il grande problema da risolvere è tornare dalla democratura alla democrazia.

Nella vera democrazia, le leggi si discutono nell’agorà – non alle tre di notte – e non si intima a nessuno di “fare un passo indietro”. Fallo tu, Bonanni: nessuno ti rimpiangerà.

Carlo Bertani
[email protected]
www.carlobertani.it
http://carlobertani.blogspot.com/
9.10.07

NOTE

[1] Predrag Matvejevic, Dal comunismo allo sfascio: una transizione fallita, La Repubblica, 2 giugno 1999.

[2] L’epiteto fu affibbiato a Berlusconi – “vendeur de soupe” – da Chirac, quando gli negò l’accesso ai media francesi, la nota vicenda della abortita “Le Cinq”.

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