Gli amici svedesi che condividevano le mie preoccupazioni sull’euro mi telefonarono nel mezzo della notte per festeggiare la vittoria del “no” al referendum. Sostenere che quello che conta è la politica e che le economie dell’Eurozona nel frattempo stanno crescendo è una sciocchezza. In risposta al dilagante politichese, un modello keynesiano spiega la situazione dell’Irlanda. Non importa quanto la Grecia sia disposta a soffrire, senza una forte riduzione del debito pubblico è destinata a fallire. (NdT)
LA FASTIDIOSA APOLOGIA DELL’EURO
DI PAUL KRUGMAN
Ci sono dei buoni argomenti da utilizzare contro chi sostiene che la creazione dell’euro sia stata un errore epico? Forse. Ma quelli che ho dovuto ascoltare negli ultimi tempi sono stati scelti davvero male. E fanno anche un po’ schifo.
Un argomento che comincia a farsi strada – e che gli economisti-critici come me proprio non riescono a capire – è che l’euro sarebbe un progetto politico-strategico e non soltanto una questione economica, un mero rapporto fra costi e benefici.
Ebbene sì. Io, in effetti, non sono che uno sciocco e rozzo economista, completamente all’oscuro del ruolo della politica e della strategia internazionale nelle decisioni politiche, che non ha mai sentito parlare del progetto europeo e delle sue origini, preso com’ero dallo sforzo di mettermi alle spalle l’eredità delle guerre europee – per non parlare del rafforzamento della democrazia durante la “Guerra Fredda”.
Beh, in realtà, io saprei pressoché tutto di queste cose. Il punto, però, è un altro. Nonostante il progetto europeo si sia sempre sforzato, in ogni sua fase, di combinare gli obbiettivi economici con quelli, più ampi, di tipo politico – la pace e la democrazia attraverso l’integrazione ed il benessere – non si poteva pretendere, tuttavia, che esso funzionasse, a meno che le misure economiche non fossero già di per sé una buona idea, o quanto meno non fossero catastrofiche.
Quello che è successo, nella marcia verso l’euro, è che le élites europee, innamorate del simbolismo della moneta unica, hanno chiuso le loro menti a qualsiasi avvertimento sul fatto che l’Unione Monetaria – a differenza della sola rimozione delle barriere commerciali – non fosse, anche nel migliore dei casi, che una scelta ambigua nella sua logica economica e davvero una pessima idea – anche ex ante.
Un argomento alternativo proposto dalle economie europee in depressione, come ad esempio la Finlandia, è che i costi a breve termine della rigidità [del cambio] siano controbilanciati dagli apparentemente enormi vantaggi di una maggiore integrazione.
Ma dove sono le prove di questi enormi guadagni?
Nel grafico a seguire è possibile rilevare la forte crescita della Finlandia prima della recente crisi. Ma è plausibile conferire alla moneta unica il merito per il boom della Nokia [che fino al 2008 ha trainato la crescita del paese]?
Beh, il grafico propone un confronto che trovo molto interessante tra la Finlandia e la sua vicina di casa, la Svezia, paese che, attraverso un referendum tenutosi nel 2003, ha respinto l’adesione all’euro. Ancora oggi ricordo quel voto: gli amici svedesi che condividevano le mie preoccupazioni sull’euro mi telefonarono nel mezzo della notte per festeggiare.
Per entrambi i paesi uso il 1989 come anno di base. Si tratta dell’anno che precedeva il primo grande crollo scandinavo degli anni ‘90, causato dalla fuga delle banche e da un’enorme bolla immobiliare.
Dopo quella crisi, la Finlandia ha registrato un lungo tratto di solida crescita economica. Ma così ha fatto anche la Svezia, ed è difficile intravedere una reale differenza nel loro grado di successo. Non c’è nulla ad indicare che l’adesione all’euro sia stata fondamentale per la crescita [della Finlandia]. Dal 2008 in poi la Svezia – nonostante abbia sbagliato politica monetaria – ha fatto molto meglio.
Come ho già detto, ci sono, forse, dei buoni argomenti contro chi sostiene che l’euro sia stato un errore. Ma sostenere che quello che conta è la politica e che le economie nel frattempo stanno crescendo è una sciocchezza; non è l’utile argomento che stanno cercando.
L’EMIVITA DEGLI ALTRI (PURO POLITICHESE)
Cosa possiamo dire sull’Irlanda? E’ quello che mi hanno chiesto alcune persone. Credono che l’Irlanda sia una storia di successo per chi sostiene l’austerità, e che questo successo confuti in qualche modo la mia visione dell’economia, ampiamente keynesiana. Credo sia necessario, a questo punto, un qualche chiarimento.
Si dà il caso che anche Simon Wren-Lewis si sia posto questa domanda [http://mainlymacro.blogspot.it/2015/07/ireland-and-greece.html] e, in un certo senso, non ho molto da aggiungere. Dirò quindi più o meno la stessa cosa, ma in modo diverso.
Innanzitutto l’Irlanda è un successo sì, ma solo in senso relativo. Ha indubbiamente fatto meglio della Grecia, ma ha subito una prolungata e gravissima crisi. E’ di nuovo in crescita, finalmente – ma questo fatto non annulla la realtà del grandissimo prezzo che il paese ha dovuto pagare per arrivare fino a questo punto.
L’Irlanda cresce tutt’ora, ed in modo abbastanza veloce. Ma questa crescita non è, per caso, un evento che invece non avrebbe dovuto accadere? In realtà, no.
Se applicate un semplice modello keynesiano tratto da un normale “libro di testo” – quello internazionalmente più venduto è il “Krugman, Melitz, e Obstfeld” – scoprirete che racconta una storia che assomiglia molto all’esperienza irlandese.
Quel modello da manuale può essere descritto con le tre equazioni a seguire, in cui tutte le variabili sono intese come deviazioni dal loro equilibrio di lungo periodo.
L’”output gap y” [la differenza tra il Pil effettivo e quello potenziale] viene determinato, in primo luogo, attraverso l’effetto moltiplicatore del “saldo di bilancio strutturale B”, ed il livello delle “esportazioni nette NX“.
In secondo luogo, le “esportazioni nette” sono determinate dal “tasso di cambio reale”. Se prendete il “tasso di cambio nominale” (ad esempio se siete nell’eurozona) ed i “prezzi esteri” come dati acquisiti, questo determinerà il livello “p” del prezzi nazionali. Abbiamo, infine, una rudimentale curva di Phillips, in cui il tasso d’inflazione dipende dall’”output gap”.
Nel loro insieme, le prime tre implicano la quarta equazione, che mostra come l’output tende ad auto-correggersi nel corso del tempo. In altre parole, se un’economia è depressa sperimenterà la deflazione – forse anche in assoluto, ma in ogni caso rispetto ai suoi partners commerciali.
La deflazione migliorerà gradualmente la competitività, che a sua volta causerà un aumento delle esportazioni. L’economia, quindi, tenderà a convergere verso la “normalità”.
Il tasso di convergenza dipenderà da tre parametri: il moltiplicatore, la sensibilità della bilancia commerciale al tasso di cambio reale ed infine la sensibilità dell’inflazione all’output gap.
Ho già preso nota di alcune ipotesi plausibili per questi tre parametri. Implicano che il processo di svalutazione interna correggerà di per sé il 22,5% del gap nel corso di un singolo anno. In alternativa, implicano che l’emivita [tempo di dimezzamento] della deviazione dell’output dal suo potenziale sarà di poco più di tre anni.
Ma, direte voi, noi siamo a più di 5 anni dall’inizio della crisi dell’euro. Questa deviazione non dovrebbe già essere stata in gran parte assorbita? La risposta è no, perché l’austerità non è stata messa in atto tutta in una volta. I paesi hanno dovuto affrontare diversi anni di consolidamento fiscale prima che ci fosse una pausa in grado di far riprendere la crescita.
La figura di cui sopra mostra un ipotetico esempio, da intendere come una sorta di Irlanda stilizzata. Ho supposto che un inasprimento fiscale pari al 6% del Pil potenziale abbia luogo nel corso di tre anni. Il saldo corretto ciclicamente poi si stabilizza, senza un ulteriore inasprimento.
Quello che potete vedere è l’immagine di una grande crisi economica, finché le viti vengono serrate, ma anche di un significativo recupero, una volta che si smette di serrare. Ancora una volta, questo è solo un esempio di macro economia-aperta keynesiana: nel corso del tempo un’economia depressa ri-guadagna competitività tanto che, nel lungo periodo, c’è una ripresa.
Ma nel lungo periodo …
UNA POSIZIONE INSOSTENIBILE
Tutti parlano del recente aggiornamento del FMI alla sua analisi sulla sostenibilità del debito greco, dov’è scritto il paese è destinato al fallimento senza una forte riduzione del debito pubblico. E questa è certamente la conclusione più giusta.
Tuttavia, è difficile sostenere che si tratti di un nuovo sviluppo – ovvero del risultato della crisi bancaria degli ultimi tempi – che si è aggiunto alle difficoltà economiche che sono sorte da quando Syriza è andata al potere.
Se il piano originale per la Grecia avesse avuto un senso, doveva essere in grado di riportare la situazione alle condizioni precedenti. Utile, in altre parole, a ripristinare la liquidità delle banche e a dar vita ad un Governo di “fedeli” in grado sia di recuperare la fiducia [dei mercati] che di far crescere il debito di soli pochi punti percentuali [di Pil] rispetto a quanto precedentemente previsto.
In altre parole, se anche Syriza fosse accusata di aver terribilmente abborracciato le cose, nessuna analisi economica di mia conoscenza sostiene che un paio di mesi di malgoverno possa danneggiare in modo permanente le prospettive di crescita di un paese.
Il punto, invece, è che il piano concepito per la Grecia non è mai stato un qualcosa nell’ambito del possibile.
Non importa quanto una nazione sia disposta a soffrire, non importa quanto sia disposta a conseguire imponenti avanzi primari, cercando di ripagare i suoi debiti attraverso un’austerità priva di qualsiasi tipo di compensazione monetaria … quel piano è una ricetta che porta solo alla deflazione del debito e al fallimento. Questo è ciò che ha detto l’analisi del FMI.
Il ritorno alla crescita dello scorso anno avrebbe portato ad una “falsa alba” anche senza la successiva crisi politica. Quel lieve miglioramento era dovuto in gran parte ad una pausa nell’applicazione delle misure d’austerità – e sarebbe sparito non appena la Troika avesse ripreso a stringere la morsa fiscale.
Il FMI ha quindi assunto una posizione realista, anche se continua a non ammettere pienamente gli errori del passato – che contano moltissimo, perché sono il prologo di quel destino che deve comunque essere affrontato ad ogni tentativo di mantenere la rotta.
22.07.2015
22.07.2015
15.07.2015
Scelti e tradotti per www.comedonchisciotte.org da FRANCO
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