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La Redazione

 

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CENTO MORTI E NON SENTIRLI

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A cura di Davide
Il 2 Novembre 2006
62 Views

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DI MARCO TRAVAGLIO
L’Unità

Nel 2005 la camorra ha fatto secche 90 persone. Nel 2006 solo 76, ma ha ancora due mesi di tempo per eguagliare il record. La risposta dello Stato, però, è stata all’altezza della situazione. In attesa di inviare mille poliziotti in più, che andranno ad aggiungersi ai 13.500 già schierati sul campo, il Parlamento ha già provveduto, con l’indulto, a inviare sul posto altri delinquenti in più, casomai non bastassero quelli già a piede libero. Ora, se misurassimo, anche a spanne, le parole dedicate dalla classe politica, e dunque da giornali e tv al seguito, all’analisi della criminalità organizzata e dei rimedi per combatterla, e lo confrontassimo con quelle usate sul fronte del fondamentalismo islamico, il rapporto sarebbe di uno a dieci, forse di uno a mille. Eppure, a oggi, i morti per terrorismo islamico sul territorio italiano sono zero. Mentre i morti per camorra, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona sono centinaia ogni anno.Le ultime stragi, in Italia, le ha fatte un’organizzazione terroristica denominata Cosa Nostra nel 1992-’93, fra Palermo, Milano, Firenze e Roma. Gli esecutori materiali sono dentro, mentre i mandanti «esterni» restano, secondo le stesse sentenze che condannano gli esecutori, «a volto coperto». Cioè fuori. La Seconda Repubblica – come ha ricordato l’altroieri il pm Ingroia presentando a Palermo «Il gioco grande» di Giuseppe Lobianco e Sandra Rizza (Ed. Riuniti) «è nata sul sangue dei magistrati, degli uomini di scorta e dei cittadini assassinati in quella mattanza, ma i mandanti non interessano a nessuno».

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In compenso, con uno sforzo di altruismo davvero encomiabile, siamo molto interessati ai mandanti delle stragi in casa d’altri, tant’è che da quattro anni collaboriamo a radere al suolo l’Afghanistan e l’Iraq, senza peraltro cavarne un ragno dal buco, mentre dei morti di casa nostra, anzi di Cosa Nostra, allegramente c’infischiamo. Uno straniero che, per masochismo, leggesse l’opera omnia dei nostri migliori intellettuali, da Panebianco a Ferrara, verrebbe colto da un lievissimo senso di spaesamento: possibile che queste teste d’uovo non parlino d’altro che di Islam radicale, avendo sull’uscio di casa pericoli ben più concreti e incombenti che parlano e sparano in italiano?

Per tutta l’estate ha spopolato un editoriale di Panebianco, a metà strada tra Kafka e Ionesco, che domandava se non sia il caso di autorizzare una «zona grigia» di illegalità per consentire ai nostri servizi di torturare almeno un po’ i terroristi islamici (che fortunatamente, finora, In Italia non hanno sparato neppure un petardo a Capodanno). Ora ferve il dibattito su quell’autentica emergenza nazionale che sono le donne col velo islamico, per non parlare delle due o tre avvistate in Val Brembana addirittura col burka.

I passamontagna e i giubbotti con kalashnikov incorporato a Napoli e Reggio Calabria allarmano molto meno. Giuliano Ferrara, sempre molto intelligente ma soprattutto molto intelligence, dedica colate di piombo (di tipografia) alle gravi minacce incombenti sui vignettisti danesi che prendono per i fondelli Maometto, per poi scoprire che in Italia c’è uno scrittore, Roberto Saviano (nella foto sotto), che finisce sotto scorta per essersi occupato di mafia, cioè di un tema che da parecchi anni è uscito dall’agenda dei molto intelligenti (salvo, si capisce, quando si tratta di attaccare i magistrati antimafia, spontaneamente o su commissione del Sismi). Ancora l’altro giorno s’invocavano pene esemplari contro l’imam di Segrate, reo di aver dato dell’ ignorante alla signora Santanchè che si era dimostrata ignorante in fatto di Corano. E Magdi Allam, sul Corriere, ammoniva severamente chi consente ad Al Jazeera di celebrare l’anniversario della sua fondazione. Ora, per carità, non saremo noi a sottovalutare il pericolo della propaganda televisiva contro chi combatte, o dice di combattere, il terrorismo islamico. Ma della propaganda televisiva contro chi combatte le mafie ne vogliamo parlare?

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Ieri, sul Foglio, Lino Jannuzzi rivendicava con orgoglio i suoi rapporti con i servizi deviati, con Gelli, Liggio, Michele Greco detto «il Papa», Ciancimino e altri galantuomini, sostenendo che avere «molti amici criminali» è normale, «perché sono un giornalista». Fortuna che nessuno di quegli amici si chiama Mohammed. Altrimenti, invece di pubblicargli il pezzo, Ferrara lo faceva arrestare su due piedi.

Marco Travaglio
Fonte: http://www.unita.it
Link: http://www.onemoreblog.org/archives/013292.html
02.11.2006

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