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La Redazione

 

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CENTO ANNI DI SOLITUDINE EBRAICA

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A cura di Truman
Il 19 Febbraio 2007
165 Views
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blankDI GILAD ATZMON
Counterpunch.org

TRA LO SHTETL E LA BIG CITY

L’ebreo emancipato è insicuro nelle sue relazioni con i suoi simili, timido con gli stranieri, sospettoso pure verso i segreti intimi dei suoi amici. Impiega le sue energie fino ad esaurirle per sopprimere o per lo meno tentare con difficoltà di nascondere la sua vera natura”.

Max Nordau, Discorso al Primo Congresso Sionista, 29 Agosto 1897

Il sionismo non è più un movimento giovane. Sono ormai passati quasi centodieci anni da quando si è tenuto il Primo Congresso Sionista e novanta da quando è stata emessa la Dichiarazione di Balfour (1917). Sono passati appena sei decenni dalla prima formazione dello stato ebraico e dalla prima pulizia etnica attuata contro la popolazione indigena palestinese. Non solo il sionismo non è più giovane, ma è anche ben lungi dall’essere un movimento ideologico omogeneo. Infatti, è pressoché impossibile determinare con precisione due degli elementi essenziali che lo compongono: dove il sionismo sta puntando, e dove si trovano i suoi centri principali; forse uno è l’ufficio di Olmert a Gerusalemme, o è più probabile che si trovino a Wall Street? Esiste un continuum ideologico lineare tra la visione di Israele sugli interessi in Medio Oriente e gli artefici che stanno dietro il Project for the New American Century [Progetto per un Nuovo Secolo Americano]? C’è un continuum tra il crimine perpetrato contro il popolo palestinese a Gaza in nome di una guerra contro il terrore e il crimine attuato contro il popolo iracheno in nome della ‘liberazione’? In un mio precedente articolo (La “terza categoria” e il movimento di solidarietà per la Palestina, l’identità ebraica, il sionismo e la Palestina), sostenevo come fosse piuttosto facile trattare il tema del sionismo in termini di operazioni in rete, in cui ognuno dei suoi elementi contribuisce al mantenimento dell’intero sistema. All’interno della rete sionista non è necessaria l’esistenza di un sistema di egemonia trasparente. In una rete di questo genere, ogni elemento semplicemente si conforma al suo ruolo. E infatti il successo del sionismo esiste per dimostrare che il tutto sembra essere molto più grande delle singole parti che lo compongono.

Attraverso gli anni il sionismo è diventato un sistema piuttosto efficiente che serve quelli che potrebbero essere definiti gli interessi primari ebraici. All’interno della struttura sionista, gli israeliani colonizzano la Palestina, la diaspora ebraica è lì per mobilitare le lobby e reclamare il sostegno internazionale. I neocon trasformano l’esercito degli Stati Uniti in una squadra di pronto intervento israeliana che combatte le ultime sacche di resistenza araba. Altro elemento interessante: gli antisionisti di discendenza ebraica (tra i quali possiamo annoverare quelli che si autodisprezzano con orgoglio, come il sottoscritto) esistono anche per descrivere un’immagine di pluralità ideologica e di impegno etico nell’ambito del mondo ebraico. E pure i ‘nemici del popolo ebraico’ hanno un ruolo ben distinto nell’ambito di questa visione. Ahmadinejad è l’attuale ‘Hitler’, e il resto degli ‘Islamofascisti’ sono lì per portare a termine il ‘giudeocidio nazista’. In altri termini, la visione sionista consente di farsi un’idea piuttosto chiara dell’identità ebraica e delle questioni ebraiche.

Benché tradizionalmente si tenda ad associare il sionismo con una particolare aspirazione nazionale ebraica e con un richiamo al ritorno a Sion (Palestina), questa non è necessariamente l’unica interpretazione storica o filosofica possibile dell’impresa sionista. Io qui aggiungerei anche che ha più senso guardare al sionismo come un progetto di protezione ebraica. In altre parole, il sionismo potrebbe facilmente essere interpretato come un movimento ebraico globale che ha come finalità quella di proteggersi dall’assimilazione. E di conseguenza, il sionismo dovrebbe essere visto come un amalgama di differenti filosofie specializzate in forme diverse di svincolamento. Una simile interpretazione permette di ampliare il raggio delle nostre critiche e potrebbe gettare nuova luce su questo movimento: l’elevato potere del sionismo globale, il sostegno generale del popolo ebraico mondiale per lo stato di Israele. Potremmo anche comprendere per la prima volta l’entità del ruolo di quelle sporadiche voci ebraiche che si ritrovano ad opporsi al sionismo. Una simile traslazione terminologica sulla nozione del sionismo enfatizzerà un continuum ideologico fra la posizione di Theodor Herzl sull’assimilazione e il ‘disimpegno unilaterale’ di Sharon. Potremmo comprendere molto più a fondo l’ideologia che muove la rete della terza categoria. Una volta che riusciamo a renderci conto di cosa il sionismo sia realmente, potremo forse scoprire per la prima volta chi sono quelli che gli si oppongono seriamente.

L’EBREO TRIBALE, QUELLO UNIVERSALE E QUELLO SOCIALISTA

Gli ebrei, più di chiunque altro, hanno il privilegio di mandare a stendere il padreterno, lasciare la loro fede e divorziare dalla religione. Ma disfarsi di Dio non è questione di dibattiti filosofici né di ragionamenti etici. Abbandonare la religione non significa necessariamente diventare un umanista, e il laicismo non comporta necessariamente l’universalismo. Annientare l’idea di Dio non solo non ha niente a che fare con la filosofia; semplicemente non è oggetto di alcun dibattito. È pura pratica. Infatti il vero universalismo consiste nel sostituire Dio con una visione moralista antropocentrica.

Storicamente fu Spinoza che lanciò l’attacco modernista all’ortodossia biblica giudaica. Lo scopo di Spinoza era quello di sostituire il Dio di Abramo con la ragione. Mentre gli intellettuali ebrei antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale come Franz Rosenzweig, Herman Cohen, Leo Strauss, Gershon Scholem e altri cercavano di sfidare l’abisso creato dalla filosofia di Spinoza proponendo delle argomentazioni filosofiche, la sfida degli ebrei del dopoguerra contro la modernità era stata semplicemente affondata e praticamente sostituita con una squallida forma di identità politica e con la pratica sionista.

Recentemente è stato pubblicato un testo davvero interessante dal londinese Jewish Chronicle. Si tratta di un breve panorama offerto sul mantra politico e filosofico di una coppia ebraica socialista e antisionista che ha ripudiato la religione. A dispetto del fatto che sono fieri di avere rinnegato Dio, continuano tuttavia ad onorare ancora il Seder [celebrazione inaugurativa della pasqua ebraica], hanno circonciso i loro due figli gemelli e li hanno iniziati al ‘battesimo ebraico‘ del Bar Mitzvah [lett. “figlio del comandamento”, cioé quando un figlio o una figlia raggiungono l’età ritenuta matura per diventare responsabili della legge ebraica]. In una certa misura, questa è l’espressione di un dialogo tra la voce della ‘comunità ebraica’ (CE) e la cosiddetta ‘voce ebraica dissidente’. Questa è la storia della giornalista Julia Bard (56 anni) e del professore David Rosenberg (48 anni), entrambi membri fondatori del Jewish Socialists’ Group [Gruppo Socialista Ebreo]. È una voce che di certo si fa sentire, nel mondo strano e inconsistente della sinistra tribale ebraica. E non ho difficoltà ad ammettere che è stata Bard ad aprirmi gli occhi su una nuova interpretazione del termine ‘sionismo‘.

Secondo il Jewish Chronicle: “Julia Bard e David Rosenberg sono degli ebrei impegnati. Si sentono strettamente legati alla storia ebraica, hanno una forte componente ebraica nella loro vita sociale e i loro bambini hanno ereditato un profondo amore per la cultura ebraica e yiddish… David e Julia non frequentano nessuna sinagoga, non credono in Dio e si oppongono strenuamente al sionismo. Ritengono anche che questa loro posizione non dovrebbe impedire loro di essere accettati all’interno della comunità ebraica.

Come molti moderni ebrei assimilati, David e Julia insistono nel limitare l’ebraismo ad una forma di orientamento tribale speziato con qualche aspetto culturale. Infatti amano la cultura yiddish e la storia ebraica. Proprio come la maggioranza degli ebrei moderni assimilati, guardano alla Bibbia come ad un testo esoterico storico più che come a una guida spirituale esoterica. Certo, non è un crimine.

Cosa ancora più sorprendente, sebbene a David e Julia non importi granché di Dio e non siano particolarmente interessati al giudaismo, ci tengono moltissimo a sentirsi parte della comunità ebraica. Mi chiedo perché. Di cosa hanno bisogno dalla comunità ebraica? Perché non portano semplicemente avanti il loro programma socialista e non cercano di legare con la grande famiglia umana come tutti? Qual’è l’origine della loro affinità con il tribalismo? Ce ne sono tanti in tutto il mondo che non credono in Dio, milioni di occidentali abbandonano la loro fede e non si impuntano affatto sull’essere considerati cattolici, indù, protestanti, ebrei o musulmani. Lasciano semplicemente da parte il loro credo ed entrano a far parte di una nuova società multiculturale e multireligiosa.

Julia crede alla multicultura, donde le sue risposte:

Volevo rimanere ebrea… Volevo dimostrare che esiste un modo per essere ebrei che non comporti necessariamente recitare preghiere ad un Dio a cui non si crede“.

All’apparenza, Julia, come tanti altri ebrei emancipati, è alla ricerca di un’identità autentica. È alla ricerca di un’identità individualista laica che mantenga nel contempo i suoi legami con il patrimonio secolare ebraico. Ancora una volta, questo non è un crimine: ma mi chiedo per quale motivo Julia non riesce a considerarsi un’ebrea e foss’anche un’ebrea laica senza fare appello all’approvazione da parte della comunità ebraica. Per esempio, io mi considero un “ebreo che parla il palestinese“, e non chiedo l’approvazione di nessuno per questo mio modo di essere. E mi considero anche come un ‘ebreo che si autodisprezza‘ e pure in questo caso, non ho bisogno dell’approvazione di nessuno. Julia, per canto suo, ha bisogno dell’approvazione. Julia si aspetta che la comunità ebraica l’accetti nonostante il fatto che rinneghi chiaramente l’esistenza di Dio e la fede nell’ebraismo. Mi chiedo se per caso si aspetta che la comunità marxista la accoglierebbe anche se gettasse merda su Marx?

Julia propone una risposta, e dice: “Io vedo la mia identità ebraica come l’espressione di un’identità…

Forse cominciamo a vederci chiaro… La parola magica, ‘identità‘, ha fatto capolino nel discorso.. e certo, qualcuno potrebbe chiedersi cosa intende dire, Julia, quando parla di ‘identità etnica‘. Si tratta per caso della famosa zuppa di pollo kosher [chikhirtma] o della Gefilte Fish [carpa stufata aromatizzata alle mandorle], questa volta? Senz’altro nessuno impedirà a Julia, o a David o a chiunque di andare a mangiarsi la zuppa di pollo con i lokshen [spaghetti] da Blooms, nel nord-ovest di Londra. Allora possiamo considerare l’ “identità ebraica etnica” come una forma di appartenenza alla storia e al patrimonio ebraico? Anche qui, sono abbastanza certo che nessuno potrà impedire a Julia e a David di incoraggiarsi a vicenda mentre leggono i capitoli della storia ebraica, ovvero una catena ininterrotta di catastrofi. Infatti nessuno mai impedirà a Julia e a David di celebrare qualunque dei loro sintomi. Rimane il fatto che Julia e David vogliono un po’ di più che una semplice celebrazione: è chiaro che vogliono sentirsi riconosciuti e integrati.

Di nuovo mi ritrovo ad essere perplesso. Essere ammessi all’interno di una comunità è un obiettivo che si può raggiungere, ma non lo si può di certo pretendere. Tra i miei vari peccati, io compongo musica Jazz e suono il sassofono. Solamente io so quanto mi piacerebbe essere riconosciuto come sassofonista incontrastato tra tutti i sassofonisti, però non mi ritroverei mai a fare pressione ad una rivista di Jazz per essere considerato o perché venisse riconosciuto il mio contributo. La mia ‘accettazione’ in qualità di artista Jazz è ovviamente soggetta ai miei risultati e al contributo che offro a questa forma d’arte. Ma Julia insiste per essere riconosciuta come ebrea, senza però specificare in dettaglio o fornire spunti sui meriti che avrebbe acquisito contribuendo alla causa ebrea.

A quanto pare ciò che interessa al Jewish Chronicle e a Julia Bard non sono tanto dei ragionamenti approfonditi quanto la questione dell’identità ebraica. Ma è chiaro che Julia è proclive a credere che la propria identità coincida con la propria autenticità. Ma Julia Bard si sbaglia. Infatti è proprio l’opposto. L’identità in sé da una parte e l’identità politica dall’altra ci alienano dalla realtà effettiva, per non parlare dell’autenticità. Come avevo esposto in alcuni dei miei precedenti articoli, quella che viene definita come identità multiculturale non è di fatto altro che Identificazione. La ricerca dell’Identità non è esattamente una sincera ricerca del significato del proprio Sé. Il comunitarismo identitario cerca di stabilire un valore quantitativo all’Identità, tenta di creare delle categorie di appartenenza, rivendica un riconoscimento ufficiale e si oppone a qualunque forma di autenticità o di vera identità. Preferisce raccogliere e riunire più che meditare su se stesso. Tant’è vero che coloro che sono dotati di una consapevolezza genuina del loro io chiedono di essere accolti in nessuna comunità, né ebraica né di alcun altro tipo. Le persone dotate di una vera identità si possono riconoscere per ciò che realmente sono piuttosto che accettate per ciò che rivendicano essere.

È piuttosto evidente che la Bard è interessata a diffondere il modello della comunità ebraica così da sentirsi più parte integrante. Di sicuro, leggere i testi della Bard chiarisce oltre ogni dubbio che lei si vede come parte della ‘comunità ebraica‘. Sebbene il suo complesso di identità/identificazione sia piuttosto dialettico, Julia si vede come parte integrale dell’identità collettiva tribale ebraica londinese. In altri termini, si identifica con la lotta per il riconoscimento della comunità ebraica.

Considerandosi un’ebrea progressista, la Bard crede che “il futuro ebraico risieda in una comunità che sia inclusiva anziché esclusiva“[1]. Facendo parte di un collettivo etnico, Julia è seriamente coinvolta con i problemi dell’assimilazione e della preservazione del popolo ebraico. Allo stesso tempo, a differenza delle istituzioni rabbiniche, lei accoglie l’ibridazione della collettività ebraica a discapito di una rigida uniformità razziale. “Quelli che blaterano lamentandosi del fatto che la comunità ebraica si sta rimpicciolendo poggiano i loro argomenti su falsi presupposti – ovvero che il giudaismo è monolitico e che non puoi essere un ebreo se non sei anche religioso“[2].

Esiste un’ulteriore questione che assilla particolarmente la Bard. A quanto sembra, un ebreo liberato è infastidito dal fatto che la comunità ebraica ‘rimpicciolisca’. Ci si potrebbe domandare perché mai un essere liberato nonché ‘socialista’ sia così tanto preoccupato per l’assimilazione e lo smembramento di una comunità tribale che si sta riducendo. Forse, indagare sul significato del socialismo ebraico può fornirci la risposta. Il socialismo ebraico, come il giudaismo, è una forma esoterica unica di conoscenza che si dedica innanzitutto alla preservazione della comunità ebraica e dell’ebraismo in generale. Questo è quello che ho trovato sulla pagina ‘Who We Are‘ del Jewish Socialist’s Group: “Noi [il Gruppo Socialista Ebreo] ci confrontiamo su temi che riteniamo cruciali per il futuro della comunità ebraica“. E così parrebbe che Julia Bard e i suoi compagni ebrei facciano parte di una comunità ebraica e che i temi che li toccano così da vicini siano legati al futuro del tribalismo ebraico.

Suppongo che a questo punto il tipico Marxista potrebbe chiedersi, ma come mai Julia Bard, David Rosenberg e i loro amici replicano così pacchianamente la stessa linea di pensiero espressa dall’ultrasionista Golda Meir nelle sue arringhe anni ’70: “Per me“, dice Golda, “essere ebrea significa e ha sempre significato essere fiera di far parte di un popolo che ha incessantemente mantenuto la sua identità separata per più di 2000 anni, con tutta la sofferenza e il tormento che ci è stato inflitto” (Golda Meir, My Life – La Mia Vita). Come la Bard, Golda Meir si sente molto coinvolta sulla questione del comunitarismo identitario. Come la Bard, anche la Meir è membro di un club. Come la Bard, Golda Meir si sente molto coinvolta sulla questione dell’assimilazione, che lei considerava come la più grave minaccia al futuro ebraico.

La mia risposta è piuttosto semplice. Julia Bard e Golda Meir rappresentano rispettivamente le due facce della medaglia sionista. Eppure, una differenza è piuttosto evidente. Mentre la Meir era un vero e proprio falco, parlava tribale e pensava tribale, la Bard e i suoi amici parlano un linguaggio universale ma la loro forma mentis è tribale.

IL SIONISMO, UN REVISIONISMO FILOSOFICO

Alcune settimane fa, Michael Rosen, una celebrità nell’ambiente socialista ebraico della Gran Bretagna nonché poeta molto affermato e attivo nella blogsfera ebraica sotto il nome di Isakofsky, ha espresso chiaramente il suo timore in merito all’assimilazione. Ecco le parole di Rosen/Isakofsky :

… Se dici che accogli l’assimilazione, di fatto stai dicendo che accogli la scomparsa dell’ebraismo. Non è proprio il massimo come posizione da adottare, direi. E se l’assimilazione è l’unico modo per poter sopravvivere al razzismo/genocidio ecc., allora è pure esistenzialmente scorretta. Va a braccetto con il silenzio e l’invisibilità. C’è anche un problema di fondo legato all’assimilazione in sé. Presume anche che muoversi verso la cultura dominante sia da auspicare. Naturalmente è quello che parecchi ebrei hanno fatto…

Molto similmente a Julia Bard, David Rosenberg e a Golda Meir, Rosen è piuttosto preoccupato per la ‘scomparsa dell’ebraismo‘. Sembra che Rosen sia ancora più radicale della Bard. Come la Meir, rifiuta ogni ragionamento ideologico che possa giustificare l’assimilazione. Mi permetto di suggerire che a questo punto né la Bard, né Rosenberg, né Rosen né la Meir sono granché innovativi. Infatti tutti e quattro seguono il percorso originale dell’istinto fondamentale sionista. Il sionismo si era formato come una pratica politica che aveva lo scopo di resistere all’assimilazione e alla disgregazione dell’identità ebraica. Già nel 1897 Max Nordau e Herzl avevano sollevato le stesse preoccupazioni che esprimeva la Meir e che esprimono ora la Bard e Rosen.

Se compiamo i passi necessari per ridefinire il sionismo come una moderna forma di attivismo ebraico che punta a bloccare l’assimilazione, possiamo allora rivalutare l’intera attività tribale ebraica come un dibattito interno nell’ambito di un movimento politico sionista diversificato. Dovremmo allora guardare alla colonizzazione della Palestina come a niente più che un singolo aspetto del sionismo. Infatti, il socialismo ebraico si sposa perfettamente con il progetto sionista. Essendo parte integrante della rete sionista, si preoccupa del futuro della tribù laica ebraica e si mobilita per raccogliere le anime perdute tra gli ebrei di sinistra per riportarli al ristorante kosher nel nord-ovest di Londra, da Blooms.

Il tentativo fatto per presentare il sionismo sotto una nuova luce ci induce a guardare al sionismo stesso come a un movimento attivista politico tribale ebraico. La lobby israeliana, i Dershowitz del mondo, gli Harry’s Places [blog politico inglese] della rete, i David Hirshe dei college Goldsmith [college dell’Università di Londra], sono lì per diffondere globalmente la voce di Israele, l’impresa coloniale. La terza categoria di socialisti, dall’altro lato, è lì per bloccare quegli ebrei che si autodisprezzano con orgoglio e che vengono considerati come traditori. Gli ebrei socialisti sono lì per impedirvi di leggere quello che sto scrivendo.

All’apparenza, i socialisti ebrei protestano contro lo stato ebraico. Denunciano a voce alta l’occupazione israeliana e la pulizia etnica del popolo palestinese. Che Dio li benedica… ma allo stesso tempo, proprio come lo stato ebraico, si impegnano in un attivismo ebraico tribale che punta a bloccare l’assimilazione e a propagandare un pensiero collettivo monolitico. In più, la Bard, Rosenberg e compagni potrebbero anche credere a una ‘Palestina Unica‘. E che Dio li benedica pure per quello… Succede però che questa ‘Palestina Unica’ la vogliano per forza ‘laica e democratica‘. Certo che non sono contro la democrazia o lo stato laico, ma ci sarebbe da tenere da conto della volontà dei palestinesi che vivono nei territori occupati, e che magari hanno qualcos’altro in testa: hanno votato Hamas, che non fa esattamente parte di un movimento molto laico (benché eletto democraticamente). A quanto pare, il Gruppo Socialista Ebreo non vede la necessità di fornire una spiegazione ideologica. E sembra che non prendano molto sul serio il voto palestinese; se li porti sull’argomento, insistono che i palestinesi in realtà non hanno votato Hamas.. era semplicemente un voto di protesta contro l’OLP.

A questo punto credo che si renda davvero necessario processare un po’ le loro intenzioni. Si rendono per caso conto, la Bard, Rosen e compagni, del ruolo che il sionismo ricopre? Agiscono in modo consapevole per conto di una rete tribale astratta – il sionismo – oppure no? In tutta onestà, non credo. Francamente, non credo che siano consapevoli del grande progetto tribale che stanno servendo con così grande entusiasmo. E nemmeno gli israeliani, compresi i soldati dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane] ai blocchi stradali nei territori occupati e pure i piloti che lanciano le bombe su aree densamente popolate nei pressi di Gaza, si rendono pienamente conto dell’ampia portata del progetto sionista che stanno inconsapevolmente servendo. Ecco perché il sionismo, un progetto ben riuscito, un mostro globale senza testa ma con molto corpo, è un programma politico vittorioso. Imposta la cornice moderna del tribalismo ebraico definitivo incorporando tutti gli elementi all’interno di un potere magnetico. E riesce a trasformare i suoi oppositori in una forza produttiva. Decisamente, il sionismo non è così facile da combattere.

IL CASO DI ISRAELE

Michael Rosen aveva una madre che gli diceva di non fare kvetch [piagnistei] o greps [ruttare] a tavola, o di fare chup [sorseggiare rumorosamente] con la minestra. Suo padre gli diceva che era meshugge [demente]. Sua madre gli diceva di non essere shlump [trasandato]. Suo fratello gli diceva, “non schiaffeggiarmi il tikhes [sedere] con lo shmatte [stracci] !”. Michael emerse fuori da tutto questo con un sorriso sulla faccia.
(Estratto da un trafiletto pubblicitario per una conferenza alla Jewish Book Week 2007 – lett. Settimana del Libro Ebraico, edizione 2007)

Piuttosto inaspettatamente, Ariel Sharon, un uomo che ha passato la maggior parte della sua vita a uccidere i nemici di Israele, un uomo che ha fatto dell’essere guerrafondai un’arte, un uomo che non perderebbe mai l’occasione di punire i vicini d’Israele, ha cambiato spot. Nei suoi ultimi giorni, Sharon è diventato un amante dello shalom, insomma una colomba sionista, così per dire. Il maestro ebraico delle politiche sanguinarie, che tutto ad un tratto introduce un’iniziativa di pace conosciuta come ‘ritiro unilaterale‘.

In passato avevo già parlato del fatto che lo shalom israeliano non si traduce necessariamente in pace. Shalom, nel suo significato moderno, si riferisce semplicemente alle condizioni necessarie che servono per garantire la sicurezza del popolo ebraico in Israele e in tutto il resto del mondo. Sharon, il vecchio e stanco soldato guerrafondaio, si era reso conto che la strategia migliore per assicurare un futuro tranquillo ad uno Stato Unico Ebraico consisteva nel ritirare il numero relativamente scarso di coloni ebrei che risiedevano in una zona popolata principalmente da palestinesi, e sostenere nel contempo una versione moderata dell’espansionismo nazionale ebraico.

Come ci si poteva aspettare, l’iniziativa di Sharon venne completamente respinta dai falchi del suo partito conservatore [il Likud]. Sharon non aveva perso tempo, aveva lasciato quella che era la sua casa politica per più di tre decenni formando Kadima, un nuovo partito politico che appose la firma per un’evacuazione unilaterale immediata di una parte dei territori occupati. Gli israeliani reagirono immediatamente, a distanza di poche ore dall’inaugurazione del nuovo partito, e tutti i sondaggi fatti in Israele concordavano sul fatto che la vecchia volpe se ne era uscita con una mossa politica geniale. La vasta maggioranza degli israeliani salutò il vecchio generale a pieno sostegno. I suoi rivali scomparvero, letteralmente.

La democrazia liberale ottempera alla promessa, una volta che la volontà dell’elettore si riflette negli affari politici dello stato. In Israele questo è successo. L’ultimo Sharon era riuscito a far vibrare la corda giusta. Aveva dato agli israeliani ciò che volevano, era riuscito a invocare la brama nostalgica per il ghetto. Aveva promesso di erigere una barriera monumentale che avrebbe lasciato i Goyim (i palestinesi) fuori.

A quanto pare Sharon aveva ben compreso l’autentica visione sionista di Max Nordaus meglio di qualunque altro leader ebraico contemporaneo. Diversamente da Peres, che aveva diffuso l’immagine di un ‘Nuovo Medio Oriente‘ in cui si credeva che gli israeliani si sarebbero mescolati con i loro vicini arabi in nome del capitalismo occidentale. Diversamente da Netanyahu, che crede ancora nella Grande Israele e nella filosofia aggressiva del Muro di Ferro. E diversamente da Bennie Alon, il colono messianico che crede che gli ebrei dovrebbero rivendicare i propri diritti biblici sull’intera terra di Palestina e oltre. Sharon, come Max Nordau, comprese che il vero compito del sionismo è quello di far rivivere la solitudine ebraica, di reinventare degli shtetl metafisici [piccoli villaggi o quartieri ebraici pre-olocausto che erano situati nell’Europa dell’Est]. Per lui il sionismo dovrebbe essere inteso come la rilettura di una narrativa affascinante e positiva del ghetto. “Il ghetto“, dice Nordau, “era per gli ebrei del passato non una prigione, ma un rifugio… Nel ghetto, l’ebreo aveva il proprio mondo; per lui rappresentava il rifugio sicuro, che simboleggiava il valore spirituale e morale di una casa paterna“.

Sharon non potrebbe essere più d’accordo. È riuscito a capire qual’è il “grande desiderio ebraico“, alla fine: anelare alla condizione parentale tribale della casa ebraica. È riuscito a fare proprio il messaggio di Nordau: il sionismo è l’abolizione dell’ “altro“, è la ricostruzione di una condizione in cui gli ebrei possono magnificare i loro sintomi, dove possono amarsi per quello che sono. O per lo meno per ciò che pensano di essere.

Sharon aveva fatto la promessa di erigere una barriera tra gli ebrei (israeliani) e i Goyim (il mare di arabi) e così facendo, interpretò perfettamente il più sentito volere degli israeliani. In questo modo, tuttavia, si formò un grande divario dialettico. Se da una parte il sionismo si propone risolutamente di sostituire la mescolanza/assimilazione con una moderna struttura di distacco e di isolamento, dall’altra promette di creare degli ebrei umanisti illuminati, che sono completamente diversi dai loro fratelli della diaspora. Se da una parte l’ebreo sionista chiede di essere protetto con i muri e di tenere a distanza i loro vicini grazie ad un massiccio arsenale nucleare, dall’altra chiede anche di essere un ‘cittadino del mondo‘. Vuole essere uguale agli altri, essere un uomo come qualunque altro uomo, ed essere cittadino di una nazione uguale a qualunque altra nazione. L’israeliano vuole andare in aereo spendendo poco con Ryanair, vuole mangiare hummus [salsa a base di pasta di ceci e pasta di semi di sesamo] ad Amman ed atterrare a Londra abbastanza presto il giorno di Santo Stefano per non perdersi i saldi post-natalizi in Oxford Street. Insomma, l’israeliano vuole l’impossibile. Non male per un’identità nazionale così giovane!

Il sionismo come movimento è una lotta dialettica tra la prassi tribale che cerca l’isolamento e la promessa universale di apertura.. Il sionismo è un dibattito continuo tra Gerusalemme e Atene. Le promette entrambe, ma è destinato a fallire perché il tribalismo e l’universalismo sono antitetici. Parimenti, quegli ebrei che sono stati soggetti alla schizofrenica ideologia sionista si ritroveranno ad essere sballottati tra queste due promesse contrastanti. Per quanto insistano nell’amarsi per ciò che pensano di essere, si ritrovano ad odiarsi per ciò che sono realmente. Qualcuno potrebbe considerare questa condizione come la tragedia suprema; l’apoteosi del limbo metafisico. Ma può anche essere una posizione potente nella quale ritrovarsi: l’emergere di una totalità innovativa di creazione e ricreazione.

Si dà il caso che Sharon non riuscì a partecipare all’ultima campagna elettorale. Divenne un vegetale subito dopo avere lanciato il suo nuovo partito. Ehud Olmer prese il suo posto. Poche settimane più tardi, Olmert vinse le elezioni, certo non con risultati clamorosi come quelli che ci sarebbero stati con Sharon. Formò un governo di unità nazionale centrista con il Partito Laburista. Creò l’atmosfera politica necessaria per dare seguito al programma unilaterale di Sharon. Ma poi accadde l’inevitabile. Quando ebbe luogo un incidente relativamente di lieve portata verso il confine israeliano settentrionale, Olmert, con il sostegno del suo ‘governo di unità centrista‘ cerca-shalom, scatenò le forze militari israeliane per radere al suolo l’intera infrastruttura libanese. A questo punto è essenziale ricordare che l’aggressione di Olmert contro il Libano non è che la naturale continuazione dell’iniziativa di shalom unilaterale. La guerra del Libano è l’incarnazione della filosofia del ghetto ebraico di Sharon. Infatti, la nuova concezione emergente del ghetto ebraico è decisamente quella di una fortezza ostile, con abbastanza potenza nucleare da ridurre il nostro pianeta in cenere.

Una volta cominciata l’ostilità, gli israeliani, un popolo che solo pochi mesi prima benediceva l’iniziativa per la ‘pace‘ di Sharon, ora soccombevano al solito spirito eroico di fiamme e morte. Appena la guerra ebbe inizio, gli israeliani si riunirono tutti in massa a sostegno del loro governo e questo, naturalmente, compreso la ‘sinistra intellettuale israeliana‘.

Uri Avnery di Gush Shalom scrive ( http://www.counterpunch.org/avnery09082006.html ):

… un impressionante schieramento di scrittori la sostenne (la guerra). Amos Oz, A.B. Yehoshua e David Grossman, che regolarmente compaiono in pubblico come trio politico, erano di nuovo uniti in sostegno del governo, facendo uso considerevole della loro dialettica raffinata per giustificare la guerra. E questo non gli bastava ancora: alcuni giorni dopo l’inizio della guerra, i tre pubblicarono un articolo congiunto in cui esprimevano il loro appoggio entusiasta.

Come tutti sappiamo, la campagna israeliana in Libano fu ben lungi dall’avere successo, a dirla tutta fu un disastro totale. L’esercito israeliano ne uscì sconfitto. Il nord di Israele venne ricoperto da una pioggia di razzi Hezbollah. Le città israeliane a nord di Hadera si trasformarono in città fantasma. Non ci volle molto tempo prima che Oz, Yehoshua e Grossman cambiassero idea.

… alcuni giorni dopo la fine della guerra“, dice Avnery, punzecchiando, “fecero pubblicare (le icone della letteratura in lingua ebraica) un secondo articolo congiunto, questa volta domandando la cessazione delle ostilità. Allo stesso tempo, pure il Meretz-Yachad [partito socialdemocratico di sinistra israeliano] e Peace Now cambiarono rotta. Ma nessuno di loro porse le sue scuse o mostrò rimorso per avere in un primo momento appoggiato la devastazione e l’uccisione di migliaia di persone. La loro nuova posizione era: la guerra non era sbagliata, ma era arrivato il momento di interromperla.

Non solo la sinistra israeliana aveva cambiato rotta, ma tutto il popolo israeliano si rivoltò contro i propri leader. La popolarità di Olmert crollò visibilmente. La carriera politica di Peretz divenne solamente più oggetto di argomento per gli storici. I generali dell’IDF vennero derisi dai media. Il cambio di umore piuttosto frequente negli israeliani è ancora una volta il risultato della nevrosi collettiva sionista. I sionisti si amano per ciò che credono di essere, ma si ritrovano ad odiarsi per ciò che in realtà sono.

Quello che i sionisti pensano di se stessi non è molto interessante. Molto più interessante è invece l’abisso che c’è tra ‘ciò che pensano di essere‘ e ‘ciò che sono realmente‘. È la dualità tra l’ ‘immagine di sé’ e l’ ‘immagine pubblica’, il divario tra la coscienza (ciò che si pensa di essere) e l’inconscio (ciò che si è realmente). Vorrei qui richiamare l’attenzione su Jacques Lacan, il rivoluzionario psicanalista francese. L’inconscio, dice Lacan, è il ‘discorso dell’altro‘. Il discorso dell’altro è molto simile alla paura che l’uomo ha dell’impotenza. Più che la paura di essere scoperti, è la minaccia terrificante che il fiasco potrebbe diventare una notizia di pubblico dominio.

Nei giorni della guerra in Libano, il ‘discorso dell’altro‘ israeliano non era altro che: CNN, Sky, BBC 24, George Galloway e l’occidente in genere. È il discorso dell’universalità. Cominciava a somigliare ad un risentimento sempre più crescente da parte di quelli che non sono più disposti ad accettare la brutalità israeliana. La barbarie israeliana è diventata di pubblico dominio. E in effetti, il divario tra l’immagine dell’israeliano sicuro di sé e il disprezzo totale dell’altro è esattamente dove la nevrosi di Yehoshua, Oz, Grossman e la vasta maggioranza degli israeliani entrava in gioco.

Sono portato a credere che l’improvviso cambio di umore collettivo israeliano che tutti hanno rilevato non è altro che il risultato inevitabile della tendenza naturale dell’israeliano a cercare di risolvere le manie schizofreniche intimamente connesse al sionismo. È il risultato dello sfogo di un conflitto tra il tribale e l’universale e che raggiunge una condizione di colossale e completa fobia. Oz, Yehoshua e Grossman erano praticamente sballottati tra il tribale e l’universale, tra l’ ‘isolamento’ di Gerusalemme e l’ ‘apertura’ di Atene, tra lo shtetl e la grande città. A quanto pare, nell’universo sionista l’intimità dell’isolamento tribale è ostile all’impeto verso l’umanità, e viceversa.

Il quadro è piuttosto chiaro:

Più ci sono israeliani che vogliono mettersi al riparo rifugiandosi nell’isolamento, più spargeranno morte intorno a sé.

Però poi, quello che succede è che più morte spargono, più proveranno un senso di diversità dal resto dell’umanità.

Meno somiglianza avvertiranno con il resto del genere umano, più odieranno i loro capi che li hanno trascinati in una situazione così caotica.

Israele è una democrazia, anzi di più: è una fiera democrazia liberale occidentale, l’unica in Medio Oriente, qualcuno dice. In effetti è una specie particolare di democrazia, una democrazia che vota per la morte e la pulizia etnica. È evidente che la rappresaglia di Olmert contro il Libano rifletteva i desideri della maggioranza degli israeliani, per lo meno all’inizio del conflitto. Quindi la conclusione è chiara. Lo scontento sempre crescente degli israeliani verso Olmert, Peretz e verso l’IDF porta alla luce un grave conflitto all’interno della psiche collettiva israeliana. Gli israeliani odiano Olmert perché in realtà sono se stessi che non sopportano più. Gli israeliani odiano se stessi e odiano la situazione dannata in cui si trovano. Odiano il fatto che potrebbero avere perso il loro ghetto per sempre e che allo stesso tempo non sono riusciti a diventare parte della comunità delle nazioni. Non sono mai diventati uguali agli altri. Più insistono ad amarsi per ciò che pensano di essere, più si odieranno per ciò che sono diventati.

Ma poi, forse che il caso degli ebrei tribali antisionisti Bard e Rosen è tanto diverso? Non stanno anche loro cadendo nelle stessa trappola? Si amano per il fatto di essere dei socialisti illuminati che nel contempo stanno sprofondando nella nevrosi, dopo essersi resi conto che essere degli ebrei tribali piccolo-borghesi gli ha sempre impedito di unirsi alla vera famiglia umana, cioé alla classe operaia.

La madre di Rosen “gli diceva di non ruttare [greps] a tavola… Suo fratello, ‘Non schiaffeggiarmi il sedere [tikhes] con lo straccio [shmatte]!’.. Michael emerse fuori da tutto questo con un sorriso sulla faccia“, dice la brochure della Jewish Book Review. Forse Rosen potrà anche decantare il suo umorismo ebraico nel suo piccolo cantuccio di famiglia alla Jewish Book Review. Sarà sicuramente circondato dagli autori più razzisti, guerrafondai e destristi attualmente in circolazione. Nondimeno, potrebbe trovarsi leggermente imbarazzato quando i suoi vecchi compagni di classe ad Oxford dovessero venire a sapere che genere di umorismo familiare utilizza il famoso poeta per bambini. Questo è Rosen, intrappolato in un angolo tra Atene e Gerusalemme.

EPILOGO

Sembra che siano rimaste tre vie di fuga per il sionista, e questo interessa ogni forma di tribalismo politico ebraico. La prima comporta la segregazione totale: trasformare il ghetto sionista in una monade senza finestre. Questa forma di sionismo elimina qualunque concetto dell’altro. Una soluzione simile è rappresentata chiaramente nel disimpegno di Sharon così come nell’approccio anti-assimilazione di Rosen. La seconda opzione è naturalmente quella di ritornare all’ortodossia. Il numero di israeliani che si ritrovano a lasciarsi alle spalle la cultura laica ebraica e riabbracciare l’ortodossia giudaica rivela che una soluzione simile è una pratica abbastanza comune più che una remota possibilità filosofica. La terza opzione è chiaramente rappresentata dalla fuga dall’ebraicità, dal giudaismo e da qualunque altra forma di tribalismo giudaico. Significherebbe lasciarsi alle spalle l’idea di essere il popolo eletto. Questa è probabilmente l’unica forma valida di resistenza al sionismo.

Nordau, senz’altro un uomo sveglio, riusciva ad identificare i nuovi marrani – coloro che tagliavano i legami con il giudaismo con convinzione – come la minaccia più grave per il futuro tribale ebraico. Come altri anti-assimilazionisti, il ‘socialista‘ Michael Rosen e la guerrafondaia Golda Meir, Nordau era molto chiaro in proposito: “Molti cercano di salvarsi abbandonando il giudaismo“, dice Nordau con uno sdegno che assomiglia all’insoddisfazione di Michael Rosen per l’assimilazione. “C’è anche un problema di fondo legato all’assimilazione in sé. Presume anche che muoversi verso la cultura dominante sia da auspicare. Naturalmente è quello che parecchi ebrei hanno fatto (conosco i discendenti di un barone ebreo austriaco, che è diventato un aristocratico, probabilmente per il fatto che ha progettato Vienna! e tutti noi sappiamo di Rothschild…)“. Nordau continua: “Ma l’antisemitismo razziale nega la possibilità di cambiare attraverso il battesimo, e questa via di salvezza non sembra offrire grandi prospettive… In questo modo sorge un nuovo marrano, che è peggiore del precedente. I primi avevano un orientamento idealista – un desiderio segreto per la verità o uno straziante conflitto di coscienza, e molte volte cercavano perdono e purificazione attraverso il martirio.” (Max Nordau, Discorso al Primo Congresso Sionista, 29 agosto 1897).

Ebbene sì, Nordau aveva già capito nel 1897 che i nuovi marrani ‘idealisti’, quelli che erano alla ricerca sincera della verità e che riuscivano pure a trovarla al di fuori dello shtetl ebraico rappresentavano la minaccia più grande. Tuttavia, Nordau si confrontava con un mondo che all’epoca era infiammato dal darwinismo e dal determinismo biologico. Nel mondo di Nordau, aveva un senso dire, “tu, Yidd, che non ti passi neppure per la testa di scappare dal tuo ‘destino’, perché i Goyim ti scopriranno, riescono a sentire l’odore del tuo sangue“. Ma come Julia Bard conferma, ora viviamo in una società multiculturale. Il periodo del determinismo biologico è passato. La gente è libera di sfuggire al suo cosiddetto ‘destino‘. Di questi tempi, difficilmente qualcuno penserà in termini di categorie di sangue; eccetto naturalmente i sionisti, gli israeliani, gli ebrei socialisti e pure la progressista Bard, che è felice di potere introdurre i matrimoni misti all’interno della comunità tribale.

Essere sionisti significa bloccare sul nascere ogni possibilità di assimilazione, essere sionisti significa impegnarsi con qualche forma di tribalismo politico ebraico. Il sionismo colonizza davvero la Palestina, ma le sue braccia sono lunghe e hanno mire ben più estese. Non è certo un movimento locale sostenuto da qualche entusiastica lobby nel mondo. Il sionismo è una rete globale. È un apparato politico basato sul clan che mette a rischio sistematicamente il nostro pianeta a beneficio di un gruppo etnico sparuto. Questo stesso gruppo poi non è nemmeno costituito da ebrei in quanto tali, ma dalla tribù politica ebraica. Il sionismo è lì per modellare e rimodellare il concetto di ghetto, per formare e riformare la dialettica del ‘popolo eletto‘, per bilanciare la tensione emergente tra l’isolamento e l’apertura e tuttavia includere la maggior parte degli ebrei. Il sionismo è una rete globale senza testa, è uno spirito, e uno spirito non può essere sconfitto. Però lo si può rivelare e la supremazia spirituale deve essere denunciata.

Gilad Atzmon è nato in Israele e ha fatto servizio nell’esercito israeliano. È autore di due racconti: A Guide to the Perplexed (Una Guida per il Perplesso) e più recentemente My One and Only Love (Il Mio Solo e Unico Amore). Atzmon è anche uno tra i sassofonisti più affermati in Europa. Il suo ultimo lavoro, Exile, è stato nominato come migliore CD di musica jazz dell’anno dalla BBC. Ora vive a Londra, e lo si può raggiungere su: [email protected]

Note:

[1] “Women Against Fundamentalism and the Jewish community”, Journal no. 4 1992/1993. pp.3-5

[2] Comunque, per quanto riguarda il giudaismo, Julia non è molto preparata: al contrario del cristianesimo e dell’islam, il giudaismo è una religione non riformista. Nel giudaismo non c’è spazio per un singolo cambiamento o anche per una piccola modifica. Il giudaismo è una lista sigillata di 613 comandamenti (Mitzvas) che devono essere seguiti rigorosamente. Da un punto di vista giudaico (cioé religioso), allontanarsi dal giudaismo significa in pratica fondare una nuova chiesa. Se Julia fosse un po’ più ferrata in materia di giudaismo, formulerebbe il suo discorso in maniera più professionale, dicendo: “Anche se il giudaismo rimane invariato, potete comunque rimanere ebrei senza essere un ebreo religioso”. Il giudaismo e l’ebraicità sono due categorie diverse. Mentre il giudaismo è un monolito religioso inalterabile, l’ebraicità è una categoria dinamica in un flusso continuo. È decisamente il caso del sionismo. Il sionismo è ebraico, è una continuazione dinamica dell’ebraicità: è razzista, esclusivista, suprematista e accentratore, ma non è giudaico. Ha ben poco a che fare con il giudaismo. Potrebbe essere messianico, in senso territoriale, ma manca della divinità giudaica. Di fatto, il sionismo si oppone al giudaismo.

Gilad Atzmon
Fonte: http://www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/atzmon01202007.html
20-21.01.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RUGGERO ORLANDI

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