DI GIULIETTO CHIESA
La seconda guerra cecena cominciò cinque anni fa, esattamente l’8 agosto 1999, quando – tra lo stupore generale – Shamil Bassaev scatenò l’offensiva della mosca contro l’elefante attaccando la Russia in Daghestan. Quel giorno, con straordinaria coincidenza, Vladimir Putin venne nominato a capo del governo russo da un Boris Eltsin ormai palesemente sulla via del tramonto. Che infatti avvenne quattro mesi dopo. Dopo cinque anni e due trionfi elettorali, Putin non è ancora riuscito ad archiviare la Cecenia. Non ha perduto la guerra – al contrario di Eltsin che perdette la prima – ma non l’ha nemmeno vinta. Il che rende la sua situazione più simile a quella di uno sconfitto che non a quella di un vincitore. Con la morte di Aslan Maskhadov, «successo» davvero disastroso, Putin è rimasto privo dell’unico interlocutore che gli restava per un eventuale negoziato, o tregua. Adesso, nemmeno se volesse (e pare che non lo voglia), potrebbe trovare qualcuno con cui trattare. Un attacco terroristico, in un qualunque posto fuori dalla Cecenia, non è scongiurabile. L’interrogativo non è il «se», ma il «quando». E concerne il numero dei morti.
Come Beslan ha dimostrato, la Russia attuale non è in grado di difendersi. La Cecenia è interamente occupata dalle forze militari russe, ma si trova in uno stato che non è né di guerra, né di pace. L’intera zona del Caucaso del Nord è percorsa da scricchiolii inquietanti. Grozny è in mano ai ceceni amici del Cremlino, ma che non hanno né la capacità, né i mezzi per portare la repubblica alla normalità. In altri termini il conflitto, in permanenza latente, si è «cecenizzato» e, al tempo stesso, è tracimato fuori dai confini ceceni. I russi rimangono. Non meno di trentamila uomini svolgono funzioni essenziali di pattugliamento e di repressione, spesso oggetto di sanguinosi attacchi di guerriglia, o di attentati dinamitardi. I ceceni non possono andare oltre questa azione di piccolo e mortifero sabotaggio, ma i russi non possono pacificare il paese.
Negli ultimi due anni, in parallelo e malgrado il tentativo di Putin di normalizzare a suo modo la Cecenia, promuovendo elezioni troppo truccate per essere credibili, si è moltiplicata la presenza di formazioni militari locali, ciascuna delle quali agisce «per conto proprio». Il quadro militare ha assunto una fisionomia imprevedibile. Alle bande di guerriglieri e di terroristi «indipendentisti», che spesso sono ormai delle vere e proprie organizzazioni banditesche e criminali si sono aggiunte altre bande, alleate ambiguamente con le autorità cecene installate da Mosca.
Il gruppo più importante di questi ultimi è quello dei kadyrovzy, così chiamati perchè guidati da Ramsan Kadyrov, figlio di Ahmad-Khadzhi Kadyrov, penultimo presidente ceceno, saltato in aria l’hanno scorso. I kadyrovzy sono formalmente il servizio di sicurezza del presidente Ruslan Alkhanov. Ma ci sono anche gli jamadaevzy, il cui capo banda è Sulim Jamadaev. Si tratta del cosiddetto battaglione Vostok (est). Qualche centinaio di armati, come i baisarovzy, di Movladi Baisarov (un gruppo – altrimenti denominato «battaglione petrolifero» – che si è staccato dal Servizio di sicurezza presidenziale). Chiudono questo elenco parziale i kakievzy, banda comandata da Said-Magomed Kakiev, ex battaglione Zapad (Occidente) del servizio di intelligence dell’esecito ceceno. Tutti questi gruppi agiscono autonomamente, hanno propri luoghi di residenza nei dintorni di Grozny, hanno le proprie prigioni, dove nessuno ha accesso, tanto meno la polizia, gli organi giudiziari e inquirenti. Alla doppia serie di formazioni armate, guerriglia e potere, si devono aggiungere altri gruppi – di qualche decina di unità – composti da militari ed ex militari delle diverse forze armate russe: esercito, milizia, FSB (servizio federale di sicurezza, la polizia politica).
Le bande operano anch’esse sul frastagliato e incerto crinale tra legalità e illegalità. Un arresto, ordinato non si sa da chi, può trasformarsi in sequestro di persona. Una perquisizione scolora in rapina. Un inseguimento in un assassinio. Nessuno è chiamato a risponderne, nessuno può distinguere un’operazione segreta da un’azione criminale. La pratica più diffusa, in cui tutte le bande sono impegnate, è quella dei sequestri di persona, dei rapimenti a scopo di lucro, per ottenere riscatti, assassinii mirati per eliminare i sospetti di terrorismo, ma anche gli avversari politici, i concorrenti. In media quattro o cinque «sparizioni» ogni giorno. I «russi», spesso mescolati ad altri, agiscono in concorrenza con i «ceceni»; tra gli uni e gli altri c’è un ramificato commercio di armi e munizioni, contrabbando, droga.
Un quadro impressionante d’illegalità su cui l’autorità del governo ceceno è quasi nulla. I tentativi di normalizzare la situazione sono vanificati da questo difetto di origine. La corruzione dei pubblici ufficiali, russi e ceceni, è senza limiti e remore. Perfino gli stanziamenti di Mosca per la ricostruzione non riescono ad arrivare ai destinatari. Tutti coloro che hanno perduto la loro casa (e sono decine di migliaia) devono pagare tangenti fino al 30 per cento e oltre a intermediari di vario genere, tutti armati fino ai denti. Non esiste attività economica che non sia sopraffatta dal racket. Un qualunque magistrato che volesse fare giustizia dovrebbe effettuare il più spericolato degli slalom tra piccoli eserciti di lanzichenecchi pronti a tutto. Nessuno stupore se nessuno ci prova. Una vera e propria piaga, che dilata i suoi miasmi verso le regioni vicine della Russia e del Caucaso. Non è solo la pace ad essere lontana, lo è la più elementare vita civile.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.lastampa.it
14.06.05