DI MARCO TRAVAGLIO
Da quando la giustizia è diventata come il calcio – se ne occupano tutti, preferibilmente gli incompetenti – si sentono e si leggono cose sempre pù avvincenti. Quel gran genio di Giuliano Ferrara, sempre molto intelligente ma esentato dalla fatica di dimostrarlo, scrive sul Foglio che il gup di Milano Clementina Forleo ha torto marcio mentre il suo collega di Brescia Roberto Spanò ha ragione da vendere. Poi spiega come fare per evitare il ripetersi di sentenze come quella della Forleo, viziate dal virus della «giustizia politica». La ricetta è semplice: «una netta separazione tra la funzione inquirente e quella giudicante». Strano: Ferrara e altri colossi del pensiero ci avevano sempre spiegato che bisogna separare le carriere perché i giudici tendono a dar sempre ragione ai loro colleghi pm.Naturalmente è falso, come dimostra la sentenza della Forleo, che ha assolto tre magrebini mentre la Procura chiedeva di condannarli per terrorismo internazionale. Ma il Platinette Barbuto è come un disco rotto e suona sempre la marcia funebre, alle esequie come ai matrimoni. Il giudice dà ragione al pm? Separare le carriere. Il giudice dà torto al pm? Separare le carriere. Piove? Separare le carriere. C’è il sole? Separare le carriere. Non per nulla Ferrara è molto intelligente.
Sergio Romano, se possibile, è ancor più intelligente di Ferrara.
Sull’ultimo numero di Panorama, dedicato tanto per cambiare a sputtanare la magistratura, scrive che in Italia i giudici ritengono che «il falso in bilancio e la corruzione giustifichino lunghe detenzioni preventive e severe sentenze», mentre reati ben più terribili come «il vandalismo urbano», le scritte dei «graffitari», «il consumo di droghe», le «forme violente di lotta sindacale» e gli «espropri proletari» sono trattati con indulgenza. Colpa della nostra «cultura comunista, socialista e cattolica», che inquina «parte della magistratura» e la porta a ritenere «molto più gravi i reati del capitalismo (occultamento dei fondi, aste truccate, corruzione e concussione)». Una vera maledizione, questa «cultura giuridica tuttora influenzata dal marxismo e dal cattolicesimo sociale». Ma certo, come no. Resta da spiegare come mai negli Stati Uniti protestanti, dove non si vede un comunista da qualche secolo, per incastrare Al Capone sia bastata una frode fiscale, con annessa condanna a 20 anni. In Italia, per molto peggio, si diventa presidenti del Consiglio. Resta pure da capire quel che sta accadendo nel processo a Bernie Ebbers, capo della Worldcom, la multinazionale telefonica Usa tracollata grazie ai bilanci falsificati dai suoi amministratori: accusato di associazione per delinquere, frode azionaria e false comunicazioni alla Sec (la Consob americana), Ebbers rischia 85 anni di reclusione grazie alla legge Sarbanes-Oxley voluta da Bush per punire più severamente i reati societari. Intanto l’Italia dell’amico Silvio li depenalizzava. Strano che un ambasciatore come Sergio Romano non ci abbia fatto caso. Si potrebbe capire un eremita, ma un ambasciatore no.
Nell’Italia cattocomunista che odia i capitalisti, chi ruba miliardi dalle casse della sua azienda commette appropriazione indebita, non può essere arrestato e rischia una pena massima di 4 anni. Chi ruba alla collettività intascando mazzette rischia fino a 8 anni. Chi invece ruba tre biciclette rischia fino a 30 anni. Nell’Italia cattocomunista che odia i capitalisti, su 55 mila detenuti, non c’è un solo capitalista: tutti extracomunitari, tossici e poveracci.
A metà del secolo scorso, il grande criminologo americano Sutherland, studioso della devianza dei colletti bianchi, si domandava: «Sarebbe ragionevole attendersi dai giovani di un’area metropolitana condotte più oneste, morali e decenti di quelle che essi riscontrano negli uomini che li governano?». Purtroppo per lui, Sutherland non conosceva l’ambasciatore Romano. Ma è come se ce l’avesse in casa.