DI MASSIMO FINI
Martedì sera ho assistito su Rai Uno, l’ammiraglia della Tv pubblica, al processo parallelo e mediatico che l’onorevole Bruno Vespa ha messo in piedi nel suo «Porta a porta» sulla vicenda di Cogne e l’assassinio del piccolo Samuele.
Se i processi si fanno in Tribunale una qualche ragione c’è. Perché in Tribunale c’è un giudice a ciò adibito e preparato, una Pubblica accusa, la difesa e una serie di procedure per garantire la regolarità del processo. Nel Tribunale mediatico di «Porta a porta» c’erano l’imputata, Annamaria Franzoni, già condannata in primo grado a trent’anni perché ritenuta l’assassina di suo figlio, il marito di lei, l’avvocato difensore, Carlo Taormina, Bruno Vespa e una serie di personaggi, la giornalista Barbara Palombelli, lo psicologo Crepet, il criminologo Bruno che nella vicenda di Cogne non hanno alcuna parte. Ne è venuto fuori un caravanserraglio indecoroso dove la signora Franzoni non si è limitata a proclamare la propria innocenza (cosa già in sé stravagante, non perché un imputato non abbia il diritto di dichiararsi innocente, ma perché la sede propria in cui farlo valere è il Tribunale, dove per ora non è stata creduta, e non la Tv, senza contraddittorio), ma da presunta assassina, si è trasformata in giudice dei propri giudici.Questi sono stati accusati, insieme ai Pubblici ministeri e ai carabinieri, di aver occultato volontariamente la verità. La Franzoni ha concluso la sua arringa così: «Dico a tutti gli italiani che in Italia la giustizia non esiste».
Ma questo non è stato nemmeno il peggio del caravanserraglio. Mentre si sorvolava disinvoltamente sul fatto che Annamaria Franzoni è stata condannata, sia pure in primo grado, per l’omicidio di suo figlio, si dava grande peso e credito ai sospetti che costei, il marito e l’avvocato Taormina spargevano a piene mani su un abitante di Cogne, che non è indagato, che non è inquisito, che la magistratura piemontese ha ritenuto del tutto estraneo al delitto, ma che l’altra sera è stato sottoposto, senza alcuna ragione giuridica al ludibrio pubblico. La logica che si trae dal caravanserraglio è questa: una condanna della magistratura italiana; avvenuta seguendo tutte le procedure e le garanzie previste, non ha alcun credito mentre ce l’hanno i sospetti, mai passati al vaglio dei magistrati o da essi respinti, del condannato.
C’è infine un ultimo risvolto, altrettanto grave. Durante l’intervista alla Franzoni e al marito i vari Crepet, Bruno, Palombelli e, con tutta probabilità, quelli che seguivano la trasmissione da casa, spiavano il volto, le espressioni, i gesti della donna per cogliere da essi i segni della sua innocenza o della sua colpevolezza. Ma, dico, siamo diventati matti? I «reality show» ci hanno fatto uscire totalmente di senno? Una povera donna – sia essa l’assassina di suo figlio o la vittima di un mostruoso equivoco – ha diritto di non essere esposta a questi screening abusivi, a questa curiosità morbosa e indecente. E deve essere difesa in questo suo diritto anche contro la sua volontà. Non siamo noi, spettatori o Palombelli o Crepeti o Bruni o Vespi, autorizzati a giudicare della colpevolezza o dell’innocenza di una persona a seconda delle facce che fa, se dimostra o no dolore, se è ben truccata o invece sfatta. Il giudizio, e su ben altri elementi, spetta solo ai Tribunali.
E in una cosa, forse, la Franzoni ha ragione. Quando dice che «in Italia la giustizia non esiste». Non esiste più davvero, se il paragiudiziario televisivo diventa, per l’impatto che ha sull’opinione pubblica, più importante e decisivo del lavoro della Magistratura.
Massimo Fini
Fontew:www.ilgazzettino.it
10.11.04