A CURA DI MISTERI D’ITALIA
La sequenza fotografica pubblicata sul Corriere della Sera all’indomani delle giornate del G8 di Genova del luglio 2001 è impressionante. E a pochi sarà sfuggita. Vi si vede un giovane a terra preso a calci da poliziotti in divisa che lo circondano e da altri in borghese, ma riconoscibili come appartenenti alle forse dell’ordine perché indossano il casco ed impugnano il manganello.
Per solerzia, ferocia e determinazione tra tutti si distingue però un uomo in borghese: jeans, camicia bianca e scarpe di camoscio. Sulle prime sembra essere un altro poliziotto in borghese, ma il suo ruolo nella polizia è molto più elevato: all’epoca era il numero due della Digos genovese. Il suo nome? Alessandro Perugini. E’ lui nella sequenza che sembra prendere addirittura la rincorsa per assestare i calci più violenti. Ad un manifestante – è bene ricordarlo – che è a terra, ormai inerme e preda della violenza dei suoi aggressori e che oltretutto non è un energumeno, ma un minorenne, un ragazzo di appena 16 anni.
Alessandro Perugini – che per i fatti di Genova è imputato anche per il lager di Bolzaneto (era il massimo responsabile della Polizia nella caserma delle sevizie) – per quel pestaggio, assieme ai quattro suoi sottoposti, è sotto processo a Genova con le accuse di lesioni personali aggravate, falso ideologico, calunnia, abuso d’ufficio, minacce e danneggiamenti, roba da dieci anni di reclusione. Nell’udienza del processo in cui è stato interrogato, con sommo sprezzo del ridicolo, ha avuto però il coraggio di negare ogni addebito, sostenendo di non aver colpito il giovane. Nonostante questo suo comportamento – che in entrambe le vicende, pestaggio e testimonianza al processo, non fa onore alla Polizia – Alessandro Perugini già da tempo è stato promosso vice-questore.
E’ questo tema delle promozioni ciò che nel dopo Genova 2001 più solleva indignazione. Innanzitutto perché ribadisce che il nostro è il Paese dell’impunità: a sette anni da quei fatti l’unica condanna riguarda i no global. In secondo luogo perché quelle promozioni sanciscono il diritto alla violenza e al sopruso di quelle che dovrebbero essere le forze dell’ordine.
Grazie al prezioso lavoro di Enrica Bartesaghi, del Comitato Verità e Giustizia per Genova, ora abbiamo la ricostruzione completa delle brillanti carriere dei poliziotti inquisiti per Genova. La semplice lettura dell’elenco è un colpo allo stomaco.
Fabio Ciccimarra è l’ultimo dei poliziotti imputati a Genova ad essere stato promosso. Di lui sembravano essersi dimenticati. E così il 30 dicembre dello scorso anno da vice questore aggiunto (già commissario a Napoli), Ciccimarra è diventato capo della squadra mobile di Cosenza. Eppure per i fatti di Genova, in particolare per la spedizione punitiva alla Diaz, risulta tra gli imputati, mentre a Napoli, per le violenze nella caserma Raniero (marzo 2001) deve rispondere di reati gravissimi come sequestro di persona, violenza e lesioni.
Ma nel proporvi questo elenco di promossi è bene cominciare dall’inizio, cioè da lui, Gianni De Gennaro, il capo della polizia buono per tutte le stagioni, gradito al centro-sinistra come al centro-destra, il quale – nonostante sia indagato a Genova per induzione alla false testimonianza in un procedimento correlato all’assalto dei suoi uomini alla Diaz – è diventato prima Capo di Gabinetto del ministro Amato all’Interno e poi supercommissario per le immondizie a Napoli. Se uscirà indenne dai rifiuti napoletani, De Gennaro può tranquillamente aspirare a diventare il capo del servizio segreto civile.
Ha fatto un doppio salto di carriera anche Gilberto Caldarozzi, un altro dei 29 imputati per la Diaz, che da numero due dello Sco, il servizio centrale operativo, prima ne ha assunto la direzione e poi è diventato dirigente superiore “per meriti straordinari” per aver partecipato alla cattura del boss Bernardo Provenzano.
Bella carriera (doppia) anche per Francesco Gratteri, anche lui tra gli accusati per i pestaggi alla Diaz: era direttore dello Sco è diventato prima questore di Bari ed ora è responsabile della Direzione anticrimine centrale, il Dac.
E che dire di Giovanni Luperi: il trampolino di lancio del sangue versato alla Diaz lo ha lanciato da vice direttore dell’Ucigos ad un prestigioso incarico europeo per poi farlo atterrare in un settore molto delicato: il Dipartimento analisi del nuovo servizio segreto civile.
Dalla graticola del processo per la Diaz (era il capo della Digos genovese) a vice questore vicario a Torino: anche a Spartaco Mortola non è andata affatto male.
Salto di qualità anche per Filippo Ferri, anche lui implicato per i fatti della Diaz, che dalla guida della squadra mobile di La Spezia e passato a quella, certamente più importante, di Firenze.
Accusato di concorso in lesioni, falso e calunnia per la Diaz, Vincenzo Canterini, comandante del VII Nucleo sperimentale antisommossa del primo Reparto Mobile di Roma. A Genova è imputato anche in un altro processo con le accuse di lesioni personali aggravate e violenza privata per aver lanciato una bomboletta spray di gas urticante (assolutamente illegale) contro tre dimostranti. Per le sue gesta, Canterini è stato ampiamente ricompensato. Addirittura due volte: prima è diventato questore e ora presta servizio a Bucarest, in Romania, in un organismo internazionale: il SECI (South East Cooperation and Investigation).
Ma, ovviamente, non hanno fatto carriera solo i poliziotti. Anche per gli agenti della polizia penitenziaria (ex agenti di custodia, secondini insomma) i premi per il lavoro svolto a Bolzaneto non sono mancati. Figurano tra i gratificati il colonnello Oronzo Doria, diventato generale, ed i capitani Ernesto Cimino e Bruno Pelliccia, entrambi promossi di grado a maggiori.
Ora si attendono le promozioni degli altri imputati delle forze dell’ordine nei processi di Genova.
CARRIERE DI STATO: GUIDÒ IL MASSACRO A NAPOLI ADESSO È NUMERO 2 DELLA POLIZIA
Di Anubi D’Avossa Lussurgiu
Ci sono notizie che, in Italia, non sono notizie. Il 22 scorso è stato il giorno di una di queste: la nomina del nuovo vice direttore generale della Pubblica Sicurezza con funzioni vicarie. Il nuovo numero 2 della polizia di Stato. Una nomina decisa e firmata dal ministro competente, il titolare del dicastero dell’Interno del governo Prodi dimissionario, Giuliano Amato. La nomina è avvenuta, come di prammatica, su indicazione del capo della Polizia in carica, Antonio Manganelli. Ed è avvenuta giocoforza, perché sino a quel giorno l’incarico di vicecapo vicario era stato svolto dal prefetto Luigi De Sena: nel frattempo pensionatosi, per candidarsi capolista in Calabria per il Pd alle prossime elezioni politiche. Il successore così nominato è Nicola Izzo: cinquantottenne, già capo della segreteria generale del Dipartimento di Pubblica Sicurezza dall’agosto del 2007, ossia poco dopo la nomina di Manganelli come successore (da questi suggerito e già suo vice) di Gianni De Gennaro.
Dunque, Nicola Izzo: chiamato poco meno di sei anni fa a alla carica di direttore interregionale per Lazio, Abruzzo e Sardegna, poi per Lombardia ed Emilia Romagna, quindi nel 2005 prefetto di Lodi. Ma prima? Prima del “salto” al grado prefettizio e prima ancora di quegli incarichi di “coordinamento”? Prima era stato questore, nel senso di titolare di Questure: quella di Verona, quella di Torino. Ma soprattutto e infine, sino al 2002, quella di Napoli. Lo era il 17 marzo del 2001: il giorno della prova generale della repressione del luglio successivo, al G8 di Genova .
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Sarà un caso, certo. Sarà di sicuro una distrazione di tutti i media, con gli occhi comprensibilmente rivolti alla campagna elettorale. Sarà come si vuole, venerdì scorso la notizia della nomina di Nicola Izzo a nuovo vicecapo della Polizia è stata, per tutti, la tipica non notizia. Cui non dedicare un solo titolo visibile nelle pagine nazionali dei quotidiani.
Eppure, è strano. Perché di Nicola Izzo si parlò moltissimo, sei anni fa: prima che fosse trasferito dall’incarico di Questore di Napoli. Come lui stesso aveva pubblicamente invocato quale suo «maggiore desiderio». Non fu trasferito, in realtà: fu promosso, a quel vago incarico di “direzione interregionale”, dall’allora governo Berlusconi. Dall’allora – e sino all’anno passato, dopo il primo anno di governo Prodi – capo della polizia: Antonio De Gennaro. Lui, Izzo, per la verità “sognava” Milano, per ricongiungersi alla famiglia: almeno questa era stata la motivazione che aveva dato pubblicamente. Nelle settimane di aprile e maggio, le più dure per lui: quando cioè la Procura di Napoli aveva indagato cento fra dirigenti e poliziotti, persino arrestandone otto. Tra i quali, appunto, due dirigenti: uno era il famoso Ciccimarra, inquisito poi anche a Genova per i fatti della scuola Diaz, la «macelleria messicana» – parola del vicecapo dei “celerini” del primo reparto mobile, Michelangelo Fournier.
L’azione della Procura napoletana era stata lanciata con una serie impressionante di reati contestati: fra i quali uno solo era il sequestro di persona, l’unico poi derubricato nelle vicissitudini dell’indagine. Gli altri, gravi reati erano l’anticipazione di quanto, precisamente, anche a Genova sarebbe stato contestato ad altri poliziotti e ben altri dirigenti: per l’irruzione-massacro della notte del 21 luglio 2001. E per le sevizie di Bolzaneto.
L’indagine napoletana era, invece, per qualcosa che aveva preceduto l’insanguinato G8 genovese. (…) Quel giorno, il 17 marzo, nell’occasione di un appuntamento “minore”, al termine d’una manifestazione relativamente “piccola”, la repressione si abbatté su Piazza Municipio, in un crescendo di violenza rapidissimo, appena la “testa” del variopinto corteo NoGlobal, fornita di improvvisate “autoprotezioni”, inscenò un’altrettanto improvvisata “sfida”, un contatto fisico, con lo schieramento di forze dell’ordine in assetto antisommossa che presidiava un’invenzione inedita: la zona proibita a “difesa” del Forum ufficiale, la “zona rossa”.
Ci furono incidenti, una manciata di secondi di baruffa. Poi, fu nient’altro che una serie ininterrotta di cariche senza distinzione di manifestanti e passanti, senza risparmio di gas lagrimogeni, manganellate, costizione di “sacche” di contestatori e non massacrati sui marciapiedi, sui recinti dei cantieri intorno al Castello Angioino e poi, via via, per ore, in tutto il centro storico di Napoli. Il peggio, però, doveva ancora venire: arrivò a sera, di notte e dove nessuno avrebbe potuto crederlo possibile.
Il peggio di una repressione che annunciava quella ancora peggiore nella quale a Genova ci sarebbe anche “scappato il morto”, Carlo Giuliani ucciso in Piazza Alimonda da un proiettile di Stato (deviato da un sasso metafisico, come da sentenza d’archiviazione per quell’omicidio senza giustizia), a Napoli il 17 marzo arrivò nelle sale di pronto soccorso degli ospedali. Dov’erano ricoverati tanti dei feriti nella caccia all’uomo della giornata. Erano stati 200, i feriti. E decine, un centinaio anzi, la stessa polizia andò a prenderli nei letti, nelle brandine delle corsie ospedaliere. Per tradurli nel designato «centro di raccolta» dei «fermati» perché «individuati tra i violenti» cui l’autorità pubblica addossò, sul momento, la responsabilità degli scontri. Quel centro era la caserma Raniero.
(…) Ebbene, quanto avvenuto dentro Bolzaneto e che anche i pm genovesi hanno nei giorni appena scorsi ripercorso con la loro requisitoria (altrettanto relegata a non notizia, o quasi: ben diversamente dalla “salomonica” condanna nei confronti dei manifestanti anti-G8, l’unica finora emessa), avvenne già a Napoli, in quel marzo di sette anni fa. Nella caserma Raniero fu sperimentato per intero tutto il repertorio di abusi innominabili che poi colpì l’opinione pubblica internazionale con Bolzaneto, dove vittime furono anche tante e tanti manifestanti non italiani. Nella caserma Raniero la gente “fermata” fu pestata ulteriormente, minacciata di morte, umiliata fisicamente e psicologicamente, costretta a subire intimidazioni sessuali, obbligata ad assistere a inneggiamenti al fascismo o persino ad inscenarle forzosamente. Tutto questo avvenne, nella caserma Raniero. E lo fece la forza pubblica.
Il problema è che la Questura stessa mise agli atti, in quella primavera del 2002, che operare i fermi negli ospedali e tradurre i fermati alla Raniero fu un’operazione frutto d’un ordine. D’una disposizione della Questura stessa. Sulla quale, d’altra parte, non si è mai ottenuto l’indicazione d’un responsabile ultimo. Tanto meno in sede giudiziaria. Resta, al di là anzi al di qua dell’ambito penale – e d’ogni formalità – che la Questura c’era.
E il questore era, fu Nicola Izzo. Che sei anni fa fu difeso a spada tratta, anche con l’appoggio a incredibili presidi della Questura da parte dei poliziotti “in rivolta”, anche fra minacce pubbliche di morte ai pm dell’inchiesta, dalla destra: da Alleanza Nazionale. E peraltro lui stesso, Izzo, affiliato al sindacato Sap, aveva pubblicamente evidenziato la sua professione politica «di destra».
Adesso Izzo è il numero 2 della Polizia di Stato. Appunto, non è questione formale.
La domanda è un’altra: qual è l’opportunità politica d’una simile nomina? Sono forse iniziate al Viminale le prove della Grande Coalizione che tutti negano? Comunque, è una non notizia.
Fonte: Liberazione, 28 febbraio 2008
Fonte: www.misteriditalia.com
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Anno 9 – Numero 120 – 7 marzo 2008