DI MAURIZIO PALLANTE
Decrescita Felice
Caro Totò,
non so se è arrivata anche alla tua Teresa la cartolina che il Partito Democratico ha usato come esca per sollecitare il voto delle donne. In una vignetta, che sembra risalire alle suffragette inglesi di fine ottocento, si vede l’interno di una cucina dove un uomo col grembiule legato alla vita è seduto su una seggiola e tiene in braccio due lattanti in fasce che urlano, mentre una donna in piedi, con l’ombrello sull’avambraccio e il giornale stretto sotto l’ascella si sta infilando i guanti per uscire di casa. Sotto, la scritta Election Day!
Te la saresti aspettata la riproduzione di una vignetta di oltre un secolo fa da un partito che identifica l’innovazione col miglioramento, si proclama il nuovo che avanza e fa del cambiamento una bandiera da sventolare a ogni occasione? Io no, ma le contraddizioni fanno parte della vita, e anche noi, che siamo conservatori, non ne siamo immuni. Tant’è che a volte giudichiamo negativamente alcune idee vecchie come quelle espresse dalla vignetta usata dagli innovatori per conquistare il voto delle donne.
In apparenza il messaggio di quella cartolina rientra nella categoria delle rivendicazioni femminili per la parità dei diritti e delle opportunità con gli uomini. Un principio incontestabile, ma vergognosamente disatteso anche nelle società che lo proclamano con più forza. Perché una donna intelligente, preparata e colta deve essere discriminata rispetto a un uomo meno intelligente, preparato e colto di lei? Questa non è soltanto un’ingiustizia nei confronti delle donne, ma un danno per tutta la società, che si priva di un contributo da cui trarrebbe benefici non altrimenti ottenibili. Ma è questo il messaggio che comunica quella cartolina?
Se lo leggiamo più attentamente, questo ineccepibile aspetto esteriore nasconde un cavallo di Troia che ne contiene un altro molto preoccupante. In quella vignetta i lattanti sono rappresentati come un peso e un fattore limitante che impedisce alle donne di accedere ai lavori remunerati con denaro, relegandole in casa in un ruolo di inferiorità rispetto agli uomini. I quali sono in una posizione di superiorità perché, scaricando sulle donne la custodia dei figli, possono accedere a quei lavori. Pertanto, la rivendicazione della parità di diritti presuppone che si possano invertire i ruoli.
A me pare che solo una cultura necrofila possa basarsi su questi presupposti. Io non riesco nemmeno a immaginare come si possano considerare i figli una disgrazia. Ma se qualcuno la pensa così, basta che non li faccia. Se nell’ottocento questa scelta non era possibile senza rinunciare alla sessualità, oggi una tale limitazione non esiste più. Per quale motivo si potrebbe decidere di farli, se non per amore? Si può provare un amore più puro e disinteressato di quando sono così piccoli che la loro sopravvivenza e la loro felicità dipende in tutto e per tutto dai genitori, dal tempo che passano con loro, dalle attenzioni che riservano alle loro esigenze? Si può provare una gioia più grande di quella di vederli sorridere? Si può provare una disperazione più grande di quella di vederli soffrire e non capire come poterli aiutare? Si possono considerare mostriciattoli che ci rubano il tempo impedendoci di dedicarlo a qualcosa di più importante di loro: il lavoro salariato?
E qui viene il secondo elemento di necrofilia. Il lavoro salariato è un fattore di emancipazione? A parte le professioni con un contenuto di creatività, il lavoro salariato, il lavoro non finalizzato alla produzione dei beni di cui si ha bisogno per soddisfare le necessità vitali della propria famiglia, ma alla produzione di merci in cambio del denaro necessario ad acquistare le merci sostitutive dei beni che non si ha più il tempo e non si è più capaci di produrre, è una forma di lavoro che invece di emancipare le persone le rende dipendenti in tutto e per tutto dal mercato. Chi produce i beni di cui ha bisogno, sa e sa fare. Conosce l’ambiente in cui vive e le risorse che offre. Sa come utilizzarle senza esaurirle e senza guastarle. Il fine del suo lavoro è migliorare il contesto in cui vive per poterci vivere sempre meglio. Il suo fare è connotato qualitativamente. È un fare bene. Chi produce merci in cambio di denaro è inserito in un meccanismo finalizzato a produrne sempre di più, che non ha legami col territorio in cui si svolge, e non sa fare nulla oltre ciò per cui viene pagato. Non deve saper fare nient’altro, perché col denaro che riceve può comprare tutto ciò che gli serve, e perché se non sa fare nient’altro non gli resta altra scelta che comprare tutto. Quindi non può fare a meno di continuare a produrre merci in cambio di denaro. È sottomesso a un fare privo di qualità che ha come scopo la mercificazione totale della vita umana.
Un’economia basata sulla crescita della produzione di merci non può non accrescere in continuazione il numero dei produttori e consumatori di merci. Con la forza e con un uso finalizzato della legislazione, come è accaduto in Inghilterra tra le fine del settecento e l’inizio dell’ottocento con i contadini poveri e i luddisti, ma anche con l’uso di mezzi di persuasione di massa, che condizionano la mentalità delle persone pur lasciandole formalmente libere di scegliere. Un’economia fondata sulla crescita della produzione di merci non può non trasformare in produttori e consumatori di merci le donne, che sono più della metà della popolazione. Quale modo più efficace per ottenere questo risultato se non la strumentalizzazione di un diritto incontestabile come l’uguaglianza degli esseri umani indipendentemente dal genere a cui appartengono? Basta far passare il principio che lo scopo dell’economia è la crescita della produzione di merci e che la felicità si misura con la quantità di merci che si possono acquistare, per far dedurre che:
1. chi non svolge un lavoro in cambio di denaro si trova in una condizione di inferiorità;
2. il tempo dedicato all’amore dei figli impedisce di svolgere un lavoro in cambio di denaro, quindi i figli sono un fattore limitante e non una gioia;
3. la rivendicazione della parità di diritti delle donne passa attraverso il loro inserimento nei lavori che si svolgono in cambio di denaro;
4. è più importante produrre merci e avere in cambio il reddito necessario a comprarle che dedicare il proprio tempo ai propri figli;
5. per la realizzazione umana sono più importanti le cose che gli affetti.
Non è necrofila una cultura che si basa su questi principi? Da tempo io penso che sia indispensabile rovesciare questa concezione e costruire una cultura alternativa che abbia al centro gli esseri umani e non le cose. Abbiamo bisogno di un nuovo Rinascimento. Ma non basta proclamare questa necessità a parole. Occorre costruirla con le nostre scelte di vita quotidiane. Come sai, mio marito ed io abbiamo deciso di vivere in campagna, di dedicare gran parte del nostro tempo a noi stessi e ai nostri figli, di autoprodurci la maggior quantità possibile di beni, di suddividerci equamente il lavoro che svolgiamo in cambio di denaro per avere la possibilità di comprare il resto. Che abbiamo ridotto al minimo, perché pensiamo di essere più importanti noi delle cose.
Oggi sono stata un po’ lunga e pesante, ma, come dicono a Roma, quanno ce vo’ ce vo’.
Un abbraccio dalla tua
Delfina
Maurizio Pallante
Fonte: www.decrescitafelice.it/
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8.08.08