CAPITALISMO CONTRO FELICITA'

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DI GRAHAN PEEBLES

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La felicità, o almeno il fatto di ricercarla, è un diritto. Perlomeno per quanto riguarda l’ America, paese segnato fin dalla nascita dall’opera dei padri fondatori e dalla loro Dichiarazione di Indipendenza in cui viene affermato, senza mezzi termini, che “la vita, la libertà ed il perseguimento della felicità sono diritti inalienabili, conferiti dal creatore stesso, e come tali vanno salvaguardati dai governi”.

Questo documento illuminato prosegue enunciando che se un governo “si rivela un’ inferenza distruttiva di tali fini, la gente ha il diritto di cambiarlo o addirittura di sostituirlo con uno nuovo che sia in grado di difendere il diritto alla salute ed alla felicità”. Recentemente un’inchiesta sulla salute mentale condotta in Gran Bretagna ha dimostrato la necessità del fatto che “la ricerca della felicità diventi un obiettivo dichiarato e misurabile del governo”.

Secondo la logica del buonsenso ogni governo dovrebbe avere come primo scopo il perseguimento della felicità. Il che, tuttavia, cozza apertamente con quelli che poi sono di fatto i fini e – secondo qualcuno – le intenzioni reali delle corporazioni democratiche, le quali, in piena contraddizione con la retorica liberale che vanno promulgando, altro non fanno che creare le condizioni da cui dipendono l’ansia e l’insicurezza che affligge ben il 99% della popolazione. Come se non bastasse il malcontento viene continuamente fomentato attraverso la creazione di falsi bisogni di comfort, di piacere, di fuga. Un’infinità di corporations non fa altro che fornire alla gente tutta una gamma di alternative volte ad assecondare la sua estemporanea assuefazione a prodotti effimeri e tuttavia in grado di creare dipendenza. Prime fra tutte i colossi farmaceutici che, stando a quanto afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, raccolgono ogni anno qualcosa come 100 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Non è facile essere felici o avere l’energia mentale per ricercare la felicità quando si è prigionieri della paura. Le condizioni di base per potersi dichiarare felici sono state oramai individuate: anzitutto – e il che non stupisce nessuno – il fatto di avere di cui cibarsi, una casa, delle amicizie, la sensazione di fare parte di qualcosa (una famiglia, una comunità, etc.) e di essere presi in considerazione. O addirittura di essere amati. Nel momento in cui queste condizioni esterne vengono in qualche maniera minacciate anche il nostro flebile senso di benessere e di felicità viene messo a repentaglio, e l’ansia prende il posto della dipendenza.

Piacere o felicità?

Che sia stato o meno universalmente riconosciuto come diritto umano, la felicità è uno stato a cui ciascuno di noi aspira. È insito nella nostra natura. Uno dei grandi saggi del ventesimo secolo, Ramana Maharshi, ha affermato che “la felicità è la nostra natura. Non c’è nulla di male nel desiderarla. Ciò che è sbagliato è cercarla al di fuori di ciò che sta dentro di noi”. Il modello economico attuale ci spinge esattamente in questa direzione: predica una felicità interamente basata sul consumismo e sul materialismo. Gli adepti di questa dottrina, che ha generato un sistema controverso, oramai giunto al degrado e sicuramente individuabile come radice di una serie infinita di problemi, utilizzano dei metodi di persuasione efficaci a livello universale, in grado di trarre le masse in inganno e di il loro consenso. La pubblicità e le pubbliche relazioni, opportunamente coadiuvate dai media, rappresentano la base ideale per la messa in opera della truffa.

Spesso la felicità viene confusa con il piacere. Ecco come Krishnamurti esemplifica il concetto di piacere come mero soddisfacimento del desiderio: “Vuoi una macchina, riesci a comprarla e sei felice (…). Voglio essere il più grande tra i politici, se ce la faccio sono felice. Se non riesco ad ottenere ciò che voglio sono infelice. Detto in altre parole ciò che voi chiamate felicità altro non è che l’arrivare a possedere ciò che desiderate”. E, per contro, “Se non riuscite ad ottenere ciò che volete siete infelici”. La felicità che deriva dal “possedere tutto ciò che si vuole” non dura e, soprattutto, ci rende schiavi della dialettica gioia-tristezza. Il brivido di avere finalmente ottenuto ciò che vogliamo – la macchina nuova, l’iPad, un lavoro, un vestito – finisce subito e, di conseguenza, ci ritroviamo catapultati in quella che era la nostra condizione di partenza, felicità o frustrazione a seconda dei casi (la Routine Edonistica di cui parla lo psicologo inglese Michael Eyenseck). Il vuoto che abbiamo cercato disperatamente di colmare si ripristina di continuo.

Siamo indotti a credere che “le esperienze piacevoli che ci rendono felici” siano, di fatto, la fonte stessa della felicità. E così le rincorriamo, passando da un momento di godimento all’altro, nella speranza che il successivo sia ancora più intenso e più appagante di quello che si è appena concluso. Noi viviamo per questi momenti salienti: essi scandiscono il ritmo delle nostre esistenze con – ovviamente, verrebbe da dire – grande dispendio di tempo e di energie nel tentativo di massimizzare il piacere, di perseguire la felicità e di evitare il suo contrario, ovvero il dolore e le sofferenze ad esso connesse. E nel frattempo il tempo passa. Siamo intrappolati in questa dialettica che, il più delle volte, ci rende ansiosi ed infelici.

In genere il piacere è qualcosa di legato ai sensi, spesso edonistico, sempre effimero. Va in tandem con il desiderio. Insaziabili e legati a doppio filo, impossibile stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina. Molto tempo fa il Buddha ha individuato nel desiderio e nella paura le cause di tutte le sofferenze. Come aneddoto contro il dolore egli ha promulgato la Terza Verità Nobile (le Verità sono quattro), secondo la quale “chi vuole essere libero dal dolore deve abolire qualsiasi forma di desiderio e di ambizione personale”. Già prima che l’Illuminato divulgasse la sua saggezza gli antichi veggenti indiani avevano affermato in maniera molto chiara la necessità di svincolarsi dal desiderio. Uno su tutti il Brihadaranyaka Upanishad, con la sua rivendicazione del fatto che la vera natura del Sé (o l’anima, potremmo dire) è libera dalla paura e dal desiderio che rappresentano i maggiori ostacoli alla felicità, alla libertà e alla pace. La brama è come un prurito continuo, fa aumentare l’insoddisfazione ed aggrava la sofferenza. Tiene schiave le menti ed è il requisito di base per la perpetuazione del sistema economico neo liberale, che pone al suo centro il consumatore e lo spinge ad assumere degli atteggiamenti (l’ambizione e la competizione, ad esempio) che non fanno altro che esasperare i desideri individuali e portano ad un conseguente aumento della disparità tra le classi sociali.

False promesse

Il modello neo liberale,che è frutto del compiacimento capitalista e che tanto piace ai politici inglesi, promette felicità ma non produce altro che malcontento, dipendenza dai beni materiali, disparità sociale e divisione: nessun ideale in grado di durare nel tempo. Incoraggia l’identificazione con la materialità, rinforza un sistema di valori che premia tutto ciò che è acquisizione, consumo e desiderio. Ideali vuoti e che non vedranno mai una realizzazione, che
spaccano il tessuto sociale e ne aumentano la frammentazione, causando infelicità e addirittura malattie. Qualsiasi governo, a nord e a sud, ad est e ad ovest, che creda di essere stato eletto con lo scopo di promuovere la crescita economica e di essere competitivo sulla scena mondiale, in realtà altro non è che un torbido catalizzatore, un beneficiario connivente con le multinazionali che creano il caos. Il capitalismo rampante – il “fondamentalismo dei mercati”, come lo definisce l’acclamato scrittore indiano P. Sainath – prospera sul consumismo, sostiene il fatto che tutti dovrebbero vivere nell’agio e non in uno stato di indipendenza economica sufficiente a soddisfare i bisogni di base: riempitevi di desideri fino all’orlo, perché “voi ve lo meritate”. Ti urlano questo ed altro, e urlano, urlano… E’ proprio qui, nel pianeta omogeneizzato dello shopping globale, la Shangri-la dell’ avidità, dove ogni visitatore munito di carta di credito è il benvenuto, che la felicità trova il suo posto ideale: nei caffè di polistirolo, avvolti in un involucro di finta pelle con la scritta dorata “l’avarizia è Dio”.

Invece di agevolare la nascita di una civiltà basata sui principi eterni della bontà, della libertà, della giustizia sociale, dell’unità e della cooperazione, questi pupazzi in doppiopetto hanno promosso – o, per meglio dire, incoraggiato – la cultura della mediocrità, della bruttezza, della competizione e dell’avidità. Hanno permesso che le divisioni e la rovina si diffondessero come piaghe nel nostro splendido universo. Tutto è merce, dalle foreste ai bambini, dai fiumi ai panorami; tutto va comprato (come si dice, “tutto ha un prezzo”), utilizzato e venduto, svuotato del proprio valore intrinseco e poi gettato via. Ciò che si richiede è l’omologazione e la brama va costantemente alimentata. Non importa quanto c’è da rosicare, gli agenti del materialismo sanno che non c’è fine, non c’è pace: la felicità è dietro al prossimo sacchetto della spesa, alla prossima vacanza, alla giacca nuova e all’ultimo cellulare. Questo è il dogma inculcato ogni giorno, e le tecniche sono sottili ma grezze al tempo stesso: ansia, malcontento e di conseguenza una pletora di malattie mentali. In America ad esempio, dove “la ricerca della felicità” è un dovere costituzionale del governo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilevato che il 21% della popolazione (ovvero 64 milioni di persone) soffre di depressione. A livello mondiale si tratta di una vera e propria epidemia, dal momento che 350 milioni di persone ne sono affette: proprio il ritratto di una società felice. E figuriamoci se la stessa inchiesta venisse condotta sugli 800 milioni di individui che in India vivono in uno stato di povertà opprimente, o su coloro che nell’Africa sud sahariana o nella Cina rurale campano con meno di due dollari al giorno. Ebbene no, non sono “poveri ma felici”: sono poveri e basta, alcuni in maniera intollerabile.

La felicità intesa come condizione permanente significa essere appagati e liberi da ogni desiderio, con tutta l’agitazione e l’instabilità che ciò comporta. Se è vero che non spetta ai governi il compito di rendere le persone felici, è vero anche che è loro preciso dovere eliminare le metodologie ed i sistemi che ostacolano il raggiungimento di tale scopo. Gli stati dovrebbero promuovere la creazione di una società fondata su valori eterni, molti dei quali rappresentano il cuore stesso della democrazia: partecipazione, cooperazione, condivisione e unità. Qualità che, in modo naturale, permettono alla felicità di essere.

Graham Peebles

Fonte: www.nationofchange.org

Link: http://www.nationofchange.org/corporate-capitalism-versus-human-happiness-1408597518

20.08.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.orga cura di DONAC78

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