A CURA DI FARE VERDE
Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista.
Kenneth Boulding
Il 23 aprile, nel corso dell’Assemblea Nazionale di Fare Verde, si è tenuto a Norcia un interessante dibattito sul tema della decrescita, dal titolo “Cambiare il mondo con un vasetto di yogurt”.
Relatori: Giannozzo Pucci, curatore de L’ecologist italiano; Maurizio Pallante, scrittore, autore tra gli altri de “Ricchezza Ecologica”, “Un futuro senza luce” e del più recente “La decrescita felice”; Michele Boato, dell’’Eco Istituto del Veneto e direttore della rivista Gaia, Eduardo Zarelli, saggista ed editore dell’Arianna Editrice, Giancarlo Terzano, della nostra redazione di Fare Verde. Moderatore è stato il giornalista Alessandro Bedini.
Ne riportiamo gli interventi in questo dossier speciale (inserto alla rivista Fare Verde, agosto 2006).
A seguito, “Il pensiero della decrescita – Intervista ad Alain de Benoist” ( www.opifice.it);
FABRIZIO VINCENTI: Organizzando questo dibattito, ci siamo prefissi di andare ad affrontare una tematica molto ricca di contenuti per chi ha a cuore le sorti ambientali. Troppo spesso, direi quasi sempre, sentiamo parlare di ambiente in termini di sviluppo sostenibile; Fare Verde sin dalla sua nascita, venti anni fa, sin dai primi documenti, dal documento intitolato “Ecologia, una questione di civiltà”, ha sempre portato le questioni ambientali non solo sul piano tecnologico, ovvero sulla capacità della tecnologia di riuscire a risolvere i problemi che via via si andava no profilando in questo modello di sviluppo, ma sempre, sin dall’inizio, ha cercato di mettere in discussione le coordinate che stanno alla base del modello di sviluppo e lo sviluppo in sé per sé.
Queste tematiche ovviamente non sono patrimonio nostro, tutt’altro, fortunatamente sono patrimonio di moltissime persone, anche se tutto sommato si tratta, anche nel panorama ambientalista, di una componente minoritaria rispetto al trend generale di quello che è il panorama ambientalista italiano, più orientato verso lo sviluppo sostenibile: due termini che sono tra sé contraddittori, ma su questo argomento ci sarà modo di entrare meglio nel dettaglio da parte dei relatori
Il dibattito di oggi oltre ad essere particolarmente importante per la presenza degli ospiti che abbiamo, è anche importante all’interno dell’associazione, perché abbiamo redatto un documento che fa un po’ il punto della situazione sugli orientamenti dell’associazione in termini di visione dell’ambientalismo, dell’economia, dei modelli di sviluppo, …. di quello che sostanzialmente ogni giorno è occasione di dibattito nella nostra vita quotidiana – ad es. il problema energetico, o i rifiuti e via dicendo.
Cioè a tutte quelle contraddizioni che stanno emergendo in un modello di sviluppo, che pare non essere di fatto messo in discussione, almeno dalle grandi entità. Siamo reduci dalle elezioni politiche e credo non ci sia stato nessun candidato – a prescindere davvero dalle appartenenze politiche e partitiche – che abbia messo in discussione, ad esempio, l’importanza del prodotto interno lordo. C’e una sorta di appiattimento sul modello di sviluppo che deve magari essere corretto, deve essere leggermente sterzato ma che non si mette in discussione su quelli che sono i principi fondamentali. Alcuni autori parlano di un treno che va in una certa direzione, segnata, tutt’al più si può discutere se la velocità deve essere aumentata o diminuita o se c’è da fare qualche fermata in più, ma l’intenzione di marcia è unica.
Noi, nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di non sostenere questa visione dello sviluppo, e oggi è un momento importante per fare il focus di quelli che sono i principi cardine che ispirano la nostra associazione ambientalista.
ALESSANDRO BEDINI:
Qui siamo a Norcia dove è nato San Benedetto, e partirei appunto da un episodio che riguarda Norcia e San Benedetto. Benedetto, che è nato alla fine del V secolo, ad un certo punto se va a Roma a studiare e dopo un po’ di tempo scappa da Roma, perché corrotta e degradata sia dal punto di vista spirituale sia dal punto di vista culturale ed economico. Non voglio fare il parallelo con Roma in questo senso, però quando Benedetto si ritira a Subiaco non si ritira per disimpegnarsi ma per impegnarsi in un altro modo a riflettere e incidere sulla realtà che aveva rifiutato quando era a Roma
Se un parallelismo mi è lecito farlo, credo che puntare a una radicale inversione di tendenza e quindi ad una decrescita sia un po’ rapportabile a quello che fece, tanti secoli fa, San Benedetto.
Tornando alle questioni vere e proprie, Serge Latouche, che come sappiamo è un po’ il nume tutelare di questa idea originale della decrescita, delinea quali sono gli indirizzi ma nello stesso tempo anche i limiti di questa idea. Lo leggo testualmente, Latouche: “intendiamoci bene: la decrescita è una necessità non un ideale in sé, e non può certo essere l’unico obiettivo di una società del dopo sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù e di concepire la decrescita per le società del nord come un fine che ha i suoi vantaggi mentre questo obiettivo non è all’ordine del giorno per le società del sud perché pur essendo influenzate dall’ide ologia della crescita non sono società della crescita in senso proprio”.
In questo passaggio, Latouche dice cose fondamentali, non può essere l’unico obiettivo nelle società dello sviluppo e non può esaurire quello che è un altro mondo possibile. È un punto di partenza, è un fare di necessità virtù, e precisa anche un’altra cosa: non c’è peggior cosa di una società della crescita senza crescita. Vuol dire che se di fronte a una società della crescita si cerca di diminuire semplicemente i “fattori di crescita” questo comporta un disastro. Latouche fa degli esempi e dice che questo non permetterebbe più di finanziare i servizi sociali, gli ospedali, la scuola, … creerebbe un grossissimo danno.
La questione è diversa: occorre invece cambiare prospettiva, invertire il senso di marcia e cominciare a ragionare in altri termini partendo, per esempio, dalla questione di come i cittadini partecipano realisticamente, attraverso forme democratiche, alla cosa pubblica, quindi alle scelte della cosa pubblica. Qui si introduce il tema della democrazia, che tipo di democrazia è più adatta in un sistema di decrescita e soprattutto in una società della sobrietà in cui si riducono determinati standard di consumo, si riducono determinati bisogni indotti e provocati.
Alcuni studiosi pongono delle differenziazioni. Democrazia organica versus democrazia liberale e rappresentativa. Non è una questione di lana caprina, ricordo che negli anni ’80 questo dibattito si era sviluppato in maniera molto interessante, questa distinzione era partita da alcuni intellettuali “di sinistra”, come Massimo Cacciari, Marramao, che indicavano la democrazia liberale come una democrazia procedurale o apparente in quando non in grado di porre al centro della questione istituzionale la possibilità di creare più partecipazione alla cosa pubblica. La democrazia liberale porta a una sorta di afatia che viene risvegliata bruscamente, come abbiamo visto anche di recente, nell e tornate elettorali, ma è una democrazia che non valorizza le comunità, mentre invece una società della decrescita si pone la valorizzazione delle diversità quindi delle comunità prima ancora della società. In un convegno recente Latouche dice che la grandezza ideale di una città non deve superare i 100.000 abitanti, perché una dimensione di 100.000 abitanti in qualche modo permetterebbe di partecipare in maniera più diretta alle questioni pubbliche.
Quindi comunità versus società, e utilitarismo posto come unico punto di riferimento delle società progressiste e in via di crescita. Teoria utilitarista che – questo è un altro dei punti che vorrei mettere all’attenzione dei nostri ospiti -, è trasversale, perché riguarda tanto la cosiddetta destra quanto la cosiddetta sinistra. Io premetto che non credo a queste due categorie, ma qui il discorso sarebbe lungo, però sta di fatto che l’utilitarismo e il consumismo sono trasversali. Se noi abbiamo ascoltato i politici durante la campagna elettorale abbiamo notato che si è concentrato tutto sul PIL, sulla riduzione del cuneo fiscale, tasse, e così via. Nessuno ha parlato della necessità di un recupero della sovranità e noi non siamo in una condizione di sovranità nel nostro paese, per varie ragioni, di carattere internazionale e anche di carattere interno. Se la comunità paese e le comunità che la compongono non si riappropria della sovranità io credo che non si vada da nessuna parte.
Ora passerei la parola ai relatori, per declinare, ciascuno secondo le proprie sensibilità, il tema decrescita
MAURIZIO PALLANTE: Mi è piaciuto il riferimento a San Benedetto perché in uno dei miei libri precedenti, “Ricchezza ecologica”, l’ultimo capitolo si intitola “I monasteri del Terzo Millennio” e cerca di recuperare il discorso benedettino dell’ora et labora e di economie il più possibile autosufficienti e con le filiere corte, dove cercavo di esplorarne le potenzialità di futuro rispetto alla situazione attuale.
Questo riferimento ai monasteri del Terzo millennio mi consente di fare una precisazione sulla parola comunità, che è stata utilizzata adesso, perché la differenza tra comunità e società non è una questione di dimensioni ma una questione di qualità. Intendo dire: la società è un gruppo persone che sono legate tra di loro da scambi di carattere commerciale e che hanno definito un sistema di regole e di leggi con cui codificano questi rapporti fondamentalmente commerciali.
Il termine comunità è una parola con un significato più profondo (noi non siamo più abituati a capire il significato profondo). E’ composta da due parti in latino, cum e numus, Cum significa con, naturalmente, e numus significa dono. La comunità è quindi un gruppo di persone che sono legate tra loro da scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità.
Gli scambi non mercantili, il dono e la reciprocità assolutamente non hanno niente a che fare con il dono e il regalo della società consumista mercantile ma sono delle forme di scambio non mediate dal denaro, che hanno costituito la forza di tutte le società pre-industriali, perché hanno consentito di sopperire alle esigenze materiali ma anche spirituali delle persone, prescindendo dal fatto che tutto si vende e tutto si compra.
La cosa importante, riallacciandomi a Latouche e agli studiosi del MAUSS, del Movimento Antiutilitarista delle Scienze Sociali, è che a partire dagli studi di Marcell Mauss si è visto come in tutte le epoche storiche, in tutte le zone del mondo, le economie non mercantili che hanno sostanziato la vita di molti gruppi umani hanno rispettato dappertutto delle regole che non sono scritte da nessuna parte ma che da tutte le parti si ritrovano definite. E queste regole sono: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, e l’obbligo di restituire più di quello che si è ricevuto. In questa maniera lo scambio diventa fattore di coesione sociale, mentre l’economia mercantile distrugge questo tipo di coesione sociale; con l’economia me rcantile c’è questo passaggio dalla comunità alla società.
Detto questo, e dimostrando la mia deferenza massima verso Latouche, mi permetto di dissentire su alcune frasi che sono state dette, tipo: “La decrescita è una necessità di questa società, non un ideale in sé”. Per me è un ideale in sé, non una triste necessità, ed anche per i popoli del Terzo Mondo, l’obbiettivo della decrescita è l’unica strada possibile per uscire dalla povertà.
Cosa voglio dire? Ho la sensazione che quando si parla di decrescita, noi ancora non abbiamo le idee molto chiare, inevitabilmente visto che il modello della crescita è il modello che governa la società industriale da tre secoli a questa parte. Quindi ha formato un paradigma culturale e quello che stiamo facendo o tentando di fare, con piccoli tentativi, è cambiare questo paradigma culturale, che è un’operazione molto difficile.
Anche il discorso destra e sinistra, credo vada superato, ma io vorrei capire in che modo possa essere superato. Ho la sensazione che la destra e la sinistra, in tutte le loro varianti, in tutte le loro sfumature, siano due varianti dello stesso modello industrialista, entrambe perseguono la crescita come obiettivo. La differenza è sull’uso dei frutti di questa crescita, sul modo di distribuire. Questo vale per il capitalismo ed il socialismo, in tutte le forme e sfumature. Per entrambi l’obbiettivo è far crescere la torta il più possibile, perché se la torta è grande ce n’è di più per tutti. Lo scontro è su come si dividono le fette della torta. L’ideologia liberale, in tutte le sue varianti, ritiene che la divisione delle fette della torta debba privilegi are coloro che detengono i mezzi di produzione, perché in questo modo le risorse vengono allocate nel modo migliore possibile dal punto di vista della crescita stessa. Cioè di tutta la torta, se la distribuzione delle fette rimane nelle mani di chi gestisce i mezzi di distribuzione, una parte sostanziale andrà al reinvestimento e una parte minore andrà ai consumi. Se la parte maggiore va agli investimenti, la torta crescerà di più.
In tutte le varianti dell’ideologia socialista si dice: no, le parti della torta vanno fatte in maniera più equa, e se sono fatte in maniera più equa ce ne è di più per i consumi e di meno per gli investimenti. Per cui viene fuori che l’economia più giusta è l’economia che cresce di meno, e l’economia che cresce di più è più ingiusta.
La storia ha dimostrato che l’economia che perseguiva almeno formalmente gli ideali di maggiore eguaglianza è stata sconfitta dall’economia liberale capitalista, perché ha avuto la capacità di accumulare capitale in una maniera maggiore per far crescere di più la torta, per cui anche le fette più piccole della torta più grande erano più grandi delle fette più eque ma più piccole del modello socialista.
Questo secondo me è quello su cui dovremmo riflettere. Nel momento in cui entrambi i modelli ritengono che la crescita sia l’obbiettivo in sé, dire invece che questo non è l’obbiettivo significa porre un ideale, non ripiegare.
L’elemento su cui occorre riflettere è capire bene cosa è la decrescita e secondo me questo non si è capito bene. Perché si pensa che la crescita, e questa è l’ideologia di tre secoli, sia la crescita dei beni che un sistema economico produttivo mette a disposizione della popolazione. Non è così: la crescita, il PIL non misura i beni, misura le merci, cioè quegli oggetti e quei servizi che vengono scambiati per denaro, mentre oggetti e servizi che non vengono scambiati per denaro non fanno crescere il Prodotto Interno Lordo.
Il concetto di merce è un concetto completamente diverso dal concetto di bene. Se mi faccio i pomodori nel mio orto famigliare, questo è un bene, ma faccio diminuire il PIL, perché non li vado a comprare e perciò non fanno merce. Da questo punto di vista per me è un ideale coltivare i pomodori piuttosto che comperarli. L’obiettivo non è dare i soldi alle persone perché possano comprare i pomodori; l’obiettivo è che le persone possano mettere i pomodori in tavola, è il bene, non la merce; la mia produzione non fa crescere il PIL, lo fa diminuire, ma per me è un ideale. Non è una triste necessità, non è un ripiego.
Viceversa ci sono una serie di merci che non sono dei beni, l’esempio che faccio sempre è che se faccio un percorso in automobile consumo una certa quantità di benzina, cioè faccio crescere il PIL, se per fare lo stesso percorso trovo delle code o degli intasamenti, consumo più merce-benzina, faccio crescere ancor di più il PIL,… allora perché vi incazzate quando siete in coda? State facendo il vostro benessere, ed anche il mio, che vivo in un paesino isolato sulle montagne!
Se diminuisce il consumo della merce, per me quindi è un ideale, non è un ripiego.
Ciò che dobbiamo perseguire è un’economia che da una parte si fonda sulla sobrietà, e la sobrietà è un valore. Se invece si pensa che sia un ripiego vuol dire che lo spreco è un valore, e la sobrietà una rinuncia. Io non ho la tv, ma non dico che ho rinunciato alla televisione, io ho fatto una scelta diversa. La sobrietà a mio vedere è un valore, che vuol dire trattare con rispetto le risorse del mondo. Significa avere un’impronta ecologica più bassa possibile, significa riscoprire le virtù che avevano i nostri nonni, con cui andavano avanti. Invece la società della crescita ha trasformato la sobrietà in taccagneria, in qualcosa da disprezzare. Da questo punto di vista, se io penso cha la sobrietà sia taccagneria è chiaro che la decrescita non sia un ideale ma un ripiego, se invece penso che la sobrietà sia una virtù io sto facendo una scelta in positivo.
Il secondo elemento è quello dell’autoproduzione dei beni, Più beni io autoproduco, meno merci devo comprare, più beni autoproduco più ho dei prodotti e dei servizi di qualità.
Dicono che se non cresce l’economia dobbiamo avere meno servizi sociali. Bene, io sono contento se abbiamo meno servizi sociali. Sembrano cose paradossali, ma penso bisogna rifletterci con molta franchezza. Porto l’esempio della morte dei miei nonni e dei miei genitori. La morte dei miei nonni è avvenuta all’interno di un’economia conviviale, con il dono del tempo e della disponibilità di tutta la famiglia, ed è stata una morte dolce, ed è costata niente, non ha fatto crescere il PIL.
La morte dei miei genitori, che è avvenuta in ospedale, è costata molto, non è stata gestita in maniera conviviale. Mia madre è stata strappata dalla sua camera, dal suo letto, dal panorama che vedeva dalla finestra di casa. Mio padre peggio ancora, ed ha fatto crescere di più il PIL, perché ha passato il suo ultimo mese di vita in ospedale, in una camera sterile. Noi lo vedevamo attraverso un vetro, aveva decine di monitor e lucette intorno, e non potevamo prendergli la mano per fargli sentire il calore del nostro corpo. Io questi servizi non li voglio, e se dovremmo lavorare di meno e avere meno ricchezza, meno denaro, non importa. Questo ci consentirà di riscoprire l’importanza di tutte le cose che possiamo fare in virtù del dono.
Due concetti ancora, e chiudo. Come si misura la ricchezza? Noi siamo abituati a pensare, anche nelle associazioni ambientaliste e di volontariato, che la ricchezza si misuri con il denaro. Si dice che uno è povero se ha un reddito inferiore a 2 dollari al giorno. Ora, se io ho un reddito di 2 dollari al giorno e vivo a Milano sono povero, ma se vivo in campagna dove mi produco molto di quello di cui ho bisogno e scambio sulla base della reciprocità e per quello che non riesco a fare con le altre persone, i due dollari mi servono per entrare nel mondo mercantile, per comprare quello che mi resta da comprare oltre ciò che non riesco a produrre.
Questa non è la misura della ricchezza, la misura della ricchezza sulla base del denaro è una cosa che rientra perfettamente nella logica della società della crescita. I popoli poveri non sono poveri perché hanno un tot reddito al giorno, ma perché per seguire il modello della crescita vanno a distruggere un’economia di autoproduzione, una ricchezza biologica per fare un solo prodotto e venderlo sul mercato per avere i soldi per comperare le cose che mancano. L’uscita dalla povertà per i popoli poveri è nel meccanismo della decrescita; se entrano nel meccanismo della crescita diventeranno sempre più poveri.
Ultimo concetto è il discorso, che si riallaccia al discorso destra-sinistra, di progresso-conservazione. Io ho una storia di persona di sinistra, non la rinnego, la vanto e credo che l’esigenza di equità che c’era nella scelta di sinistra che io ho fatto sia molto importante. Però sono conservatore e reazionario, non sono progressista e rifiuto di esserlo.
Perché il concetto di progresso è quello che sta sfasciando il mondo. Il concetto di progresso si ricollega al concetto di innovazione e all’idea che tutto quello che è nuovo è meglio di ciò che è vecchio. Per cui vecchio è diventata un’accusa, da cui il giovanilismo, la novità, il valore dell’innovazione
Ma il valore dell’innovazione è quello che riempie le discariche, è quello che fa i rifiuti. Perché il nuovo ha due aspetti: l’innovazione del processo e l’innovazione del prodotto. La prima rinnova le tecnologie per produrre sempre più in tempi sempre più brevi, la seconda è quella che costringe le persone a cambiare continuamente le cose perché sono vecchie, perché c’è già qualcosa di più nuovo che le ha superate. Personalmente ritengo che tutte le cose vecchie, che hanno una storia e che hanno vissuto con gli uomini abbiano un valore molto importante. Non cambierei il centro storico di Norcia con il centro storico di Torino, da nessun punto di vista.
Uno degli argomenti di cui mi occupo è, ad esempio, quello dell’energia. Vi porto solo un esempio, ho fatto venire nel paesino dove abito il direttore dell’Istituto case passive, case con tecnologie avanzate che non hanno bisogno di impianto di riscaldamento e che con 20 gradi sotto zero all’esterno hanno una temperatura interna di venti gradi. Gli abbiamo chiesto come si fanno le case passive e nella sua stessa relazione, al termine della relazione, c’era una nota su come si realizzava l’edilizia tradizionale nel Monferrato. Erano la stessa cosa, le case passive si limitano ad implementare, a dare numeri matematici, a quello che i nostri vecchi facevano istintivamente. Un esempio: io abito in una cascina, la facciata a Sud ha finestre molto grandi e numerose, la facciata a N ord ha finestre piccole e poche, servono solo a far passare la luce.
Le case passive ci dicono che la facciata Sud deve avere aperture dal 40 al 60 percento, quella a nord del 10%. I vecchi non avevano questi numeri, ma facevano le stesse cose.
Allora, io dico che c’è più potenzialità di futuro in questa sapienza del passato che abbiamo disprezzato in nome della modernità, del progresso e dell’innovazione, e impossibilità di futuro nell’edilizia che c’è stata e che oggi ci porta ad avere consumi energetici mostruosi.
Una società della decrescita deve riflettere anche sul concetto di innovazione/progresso e conservazione, per capire quale delle due ha più possibilità di futuro.
MICHELE BOATO: Non ho preparato un intervento organico, ho riportato soltanto delle impressioni …
In questi mesi abbiamo assistito allo scontro, abbiano passato ore per vedere chi era più bravo tra Prodi e Berlusconi; in realtà facevamo fatica a distinguere, vedevamo che uno era più a modo, l’altro meno, ma, almeno secondo me e gli amici con cui ho parlato, nessuno di questi due ha detto nulla di particolare.
Il messaggio forte di Prodi era “dobbiamo rimettere in moto l’economia” e su questo cercava di incalzare dicendo “voi avete fermato l’economia, siete a zero” ecc ecc
L’altro messaggio era “dobbiamo rivedere i conti”. Questo messaggio forse diceva di più, perché nel consumismo, nel produttivismo, c’è anche questa tendenza di dire “sprechiamo, consumiamo, tanto chi se ne frega”; e qui c’è qualche elemento che faceva pensare ancora di più al nostro vivere quotidiano e al fatto che non eravamo proprio soddisfatti di quella pubblicità che ci dice “grazie, grazie, grazie, stai consumando, grazie”. Non era questa la cosa che ci piaceva di più.
Poi, però, alla fine, sappiamo qual è la proposta che Prodi faceva per rimettere a posto l’economia, perché è venuto a Venezia e ha detto “il Mose si deve fare”, a Torino la Tav bisogna farla, solo il ponte di Messina, poverini i siciliani, solo loro non devono averlo…. alla fine era tutto chiarissimo.
Anche per quanto riguarda il Mose, è venuto a Padova, e ha detto “il Mose si deve completare”. Anzi, era arrabbiatissimo con Berlusconi e con il nostro Galian, perché il passante non si era ancora fatto. Era proprio un pensiero unico, sembrava di essere nel racconto di Orwell 1984, non si capiva più da che parte stare.
E anche se sembra un pettegolezzo pseudo-politico, in realtà poi la gente parla moltissimo di questo, almeno a casa mia, a Venezia, Mestre. Si vedeva che il sentire quotidiano, quel qualunquismo buttato a mare come una bestemmia, il giorno dopo era unanime, tutti dicevano le stesse cose: “tanto non cambia nulla” oppure “vabbè, abbiamo capito, c’è meno interesse privato” (anche lì, poi, l’interesse privato non sono solo le televisioni, ci sono interessi anche nelle opere pubbliche. Noi, ad esempio, a Venezia abbiamo un Assessore che ci deve difendere dalle antenne della telefonia mobile e abbiamo scoperto appena dopo le elezioni che era stato dirigente per 5 anni di Omnitel e Vodafon e e abbiamo capito perché non ci stava difendendo dall’antenna selvaggia e allora abbiamo detto vai via).
E quindi ci siamo trovati di fronte a questo dipinto mostruoso dai cui cerchiamo di uscirne con escamotage nel senso che noi abbiamo un dirigente dei DS amico di Fassino e sta convincendo Fassino che il Mose non è il caso di farlo, poi abbiamo un sindaco, Cacciari, amico di Rutelli e sta convincendo Rutelli che il Mose è il caso di non farlo, e forse assieme convinceranno Prodi.
Tutto questo è fatto all’interno di una disperazione politica, è con la disperazione che ci si muove, non con i progetti, con le utopie con i sogni o con la partecipazione comunitaria.
Quando venne Prodi a Vicenza a fare la Fabbrica del Programma, qualche mese fa, era permesso a 27 persone di dire la loro. Io, non so per grazia di chi, ero uno di questi 27, e dei 27 soltanto io ho parlato del Mose, che è il problema principale; neanche gli altri rappresentanti dei verdi ufficiali, Casson, il Preside di Architettura, l’intellighenzia progressista e ambientalista di Venezia hanno avuto il coraggio di nominarlo il Mose, perché si sapeva che era una bestemmia. Hai voglia a cambiare le cose, se non si vede neanche l’elemento più sfacciato!
Passiamo invece alla nostra vita quotidiana. Io ho conosciuto Paolo Colli nell’87 quando ero appena stato eletto deputato e arriva questo e mi dice “facciamo un dibattito sui rifiuti a Roma con Fare Verde?” io ho detto certo che lo facciamo.
“Ma sai chi è Fare Verde?” mi pare di si, è un gruppo ambientalista di destra, per me va bene, ma qual è l’ipotesi? “L’ipotesi è la raccolta differenziata” e l’abbiamo fatto. Per poco non mi sbattevano fuori dal gruppo parlamentare. Il giorno dopo il mio collega che mi ospitava a casa sua mi ha detto “guarda ti lascio passare questa, ma se fai la seconda non vieni più a dormire a casa mia”. E ho capito da li che c’era una strada da fare enorme nel mondo dell’ambientalismo perché si poteva parlare di qualsiasi cosa ma non mettere in discussione lo sviluppo sostenibile e perciò il progressismo …
La seconda bestemmia, l’abbiamo fatta quando Giannozzo mi ha chiesto di fare un dibattito che si chiamava “Sviluppo basta. A tutto c’è un limite”. “Sviluppo basta? Ma siete impazziti?” è stata la reazione. Abbiamo fatto un numero speciale del nostro giornale, ma li è stata tutta un’altra cosa, lì c’è stata l’eresia di Alex Langer, è venuto anche Wolfgang Sachs e altri, ma l’establishment ambientalista ha detto “questi sono fuori di testa”
E invece ora si vede che quella è la strada da seguire, però la strada è veramente in salita, aldilà che sia felice o non felice, comunque è faticosa. Adesso la bestemmia è dire decrescita. Dire decrescita in una discussione che non sia tra pochi intimi, fra adepti di una setta quasi clandestina, è dire una bestemmia. Tu non puoi andare in un dibattito pubblico, che sia Casa della Libertà o Ulivo e dire: “il nostro programma è la decrescita”. “Ma che sei scemo? La decrescita? E tutti i disoccupati che ci sono?”
E quindi io penso che sia un lavoro che o va alle radici delle motivazioni, cioè fa il cammino che ha fatto adesso Maurizio Pallante, con l’esempio del pomodoro, oppure poi c’è il corto circuito, quando la questione diventa economia, filosofia, politica, religione (forse la religione ha qualche problema in più, … ma neanche tanto, perché conosco un sacco di preti e quei pochi che parlano di queste cose non ne parlano nelle prediche ma se le tengono per i seminari avanzati).
E quindi ho la sensazione che ci sia una strada difficilissima da fare, chiunque di voi abbia a che fare con ragazzi di 15 anni sa benissimo che è un tema dove non ti ascoltano. Mettere in discussione le marche, per esempio, per loro sono le prediche della zia vecchia che hanno lasciato su in montagna, e che non vanno neppure più a salutare
Poi, se fai in un altro modo, magari gli fai fare la strada in bicicletta oppure fai la gita scolastica nei conventi anziché negli alberghi, allora lì succede il miracolo, gli piace … Ma è un miracolo, devi costruire le cose, farle toccare con mano, far vedere quanto è assolutamente più soddisfacente fare una cosa a minor impatto ambientale piuttosto che un’altra
Porto questi esempi di vita quotidiana con il massimo dell’ottimismo ma anche con il massimo del pessimismo. L’ottimismo, come diceva Gramsci, è quello della volontà, il pessimismo è quello della ragione.
Anche se voglio segnalare alcuni messaggi positivi che ci sono.
Il più grande è il popolo dei ciclisti, nelle città del Nord. Io vedo che Mestre, una delle città più orrende d’Italia, cambia faccia proprio grazie al popolo dei ciclisti, che obbliga le amministrazioni a pedonalizzare, a mettere più verde, a fare piste ciclabili, a cambiare la faccia delle città dal basso, e in questo vedo elementi di democrazia sostanziale. Anche se questi non hanno il partito dei ciclisti, non votano, però è il popolo che dice la sua, la dice con forza: polemiche sui giornali, persino facendo il critical mass senza sapere di farlo, mettendosi lì in mezzo alla strada e bloccando le auto
L’altra cosa che dal basso sta succedendo nella mia regione riguarda i rifiuti, dove i comuni, almeno dalle mie parti, fanno contentissimi la raccolta differenziata porta a porta e arrivano a fare la gara tra di loro a chi arriva all’80 per cento. E questa è una soddisfazione per uno come me, che proponeva questa strada già nel ’93, di fronte all’emergenza rifiuti e al fatto che volevano fare 10 inceneritori (sono poi riusciti a farne 3, di cui uno è fermo). Ora c’è la gara tra i consorzi, sono al 60-70 percento, e vogliono arriva all’80, e questo è il momento di ottimismo, siccome i rifiuti sono stati al centro della mia attività ecologista, la soddisfazione è tantissima.
E si fa decrescita, perché questo è decrescita. Tu metti la tariffa e la gente fa meno rifiuti per pagare meno, perché con la tariffa paga solo sui rifiuti che non vanno a raccolta differenziata, questo è decrescita … e poi il compostaggio domestico, con cui vai fuori del mercato, anche del mercato del riciclo, ti fai il compost in casa, è decrescita completa. Sono due esempi che, mettendo insieme l’etica personale e l’etica politica, cioè senza contraddizione con le cose che si dicono e che si cerca di fare personalmente, mostrano che forse ce la facciamo
Ahimé , non vado molto più in là, perché sul solare mi fermo subito, per il solare è un disastro
Eppure il mio ottimismo mi dice che in Italia, nel giro di due anni, i pannelli solari termici e la bioedilizia esploderanno. Invito chiunque faccia e vuol fare ambientalismo a puntare tutto su questo terreno perché è un terreno che sta emergendo perché il petrolio va alle stelle e perché la bolletta del gas è la maledizione di tutte le famiglie.
Il mio ottimismo mi dice di puntare su questo, poi essendo un ruspante mi metto a fare i corsi per idraulici, per i pannelli solari, perché so che questi limiti bloccano anche le migliori intenzioni
Poi, vi invito a fare le feste del baratto, i mercatini dello scambio, e le banche del tempo, in cui hai un circuito di tante persone, uno ti accompagna senza dover prendere il taxi, l’altro accompagna il bambino a scuola, un terzo guarda le piante quando si va in vacanza, … tutte cose che sembrano banali invece sono fondamentali, per aumentare la socialità, e così via … questa è decrescita
EDUARDO ZARELLI – Prima di raggiungervi in sala, mi sono concesso una gratificante passeggiata mattutina per le avvolgenti stradine di Norcia. Forse inconsciamente, sui passi del misticicismo di San Benedetto, sicuramente con la corona dei monti Sibillini come riferimento spaziale, direi geofilosofico, e tra i silenzi sonnacchiosi del borgo, mi è venuto spontaneo appuntarmi alcune “parole chiave” da elaborare durante il mio intervento: diversità, pluralità, ciclicità/stagionalità, territorialità/localismo. Mi sembrano quattro punti che si richiamano vicendevolmente e che possano fare da “pietra angolare”, dal punto di vista politico-sociale ed economico, della riflessione sulla “ decrescita”.
Maurizio Pallante è stato assai esplicito nel suo intervento, addirittura non ha nascosto il suo sentimento “reazionario” nei confronti del concetto stesso dello “sviluppo”. Nel suo ultimo libro La decrescita felice, emerge chiaramente l’invito a invertire la rotta, intraprendere il “percorso del salmone”, tornare a un equilibrio con sé stessi a costo dell’impopolarità e dell’anticonformismo, anche contro l’apparente evidenza storica e fattuale. Questo mi ha riportato alla memoria le parole sferzanti del relatore alla mia tesi di Laurea sulle ragioni del comunitarismo e del localismo, poi divenuto un libro intitolato Un mondo di differenze: «…Lei postula utopie-retroattive!». Io non mi vergognai in quel la sede di ciò che avevo scritto, io avevo effettuato solo una comparazione col passato, ma il mio interesse era e rimane realistico, attuale, legato alla bontà antropologica della dimensione comunitaria del vivente e quindi della cultura umana. In tal senso, ai miei occhi, la tematica della “decrescita” non si pone in termini di “reazione” o “progresso” ma di rivoluzione conservatrice. Un ossimoro ardito quanto le idee capaci di smuovere le convinzioni e i pregiudizi profondamente radicati e diffusi sul destino della nostra società del “benessere”.
Dal latino revolvere, rivoluzione significa nel suo etimo latino “ritorno al principio”, a imitare la dinamica eclittica, ciclica e reversibile di ogni manifestazione naturale. Nell’attuale società economicistica della crescita illimitata, dell’utilitarismo individualistico, c’è ben poco da conservare. Ecco allora che bisogna cambiare, “rivoluzionare”, ma per tornare agli equilibri dinamici profondi del vivente, “conservativi”, ricomponendo la dolorosa scissione tra cultura e natura divaricata dal prometeismo industriale. Ogni individuo ed ogni popolo, hanno scoperto il mondo circostante a poco a poco. Questo significa che il modo di comportarsi, individua le e collettivo nei confronti degli “altri” e del mondo procede antropologicamente per cerchi concentrici. Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt’uno suddiviso in parti) è un prodotto della modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può dire che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, dato che lega l’uomo alla natura, al territorio, e non ad una sua visione “costruita”, pensata, virtuale, artificiale. Il legame con un territorio dato rende uomini e popoli consapevoli del concetto di limite.
I termini della discussione intorno alla globalizzazione agiscono sul perno del superamento della stessa modernità. La mondializzazione, fenomeno eminentemente tecnologico e finanziario, rende insufficienti gli Stati. Per dirla con Alain de Benoist (in Oltre il moderno), troppo piccoli per il respiro internazionale dei tempi, troppo grandi per i problemi reali della gente. Se le ideologie della modernità avevano spiegato e p iegato universalisticamente il locale, all’oggi, in controtendenza, si torna a guardare l’universale da prospettive locali, minimalistiche, ma a misura d’uomo e quindi di natura. D’altronde l’insicurezza cresce con l’incertezza del progresso, la sua protervia ripropone il “limite” come argine alla “volontà di potenza” industriale, che con la cibernetica e le biotecnologie arriva a manipolare le stesse interazioni, che sono all’origine della coerenza olistica del vivente.
Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali dipendiamo e, contemporaneamente, incidiamo sui processi ciclici della natura. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Cadendo il velario delle pseudoconcretezze utilitaristiche e sensistiche, indispensabili allo sviluppo materiale, si rende possibile un’etica comunitaria cosmogonica, laica (qualità della vita) e religiosa (sacralità dell’esistenza) ad un tempo, che ri-anima il mondo.
Pallante cita direttamente nel titolo del suo libro sulla decrescita la “felicità”. È importante in effetti approfondire la riflessione sulla felicità perché è un perno psicologico fondante della società dei consumi, che ha una grande presa su tutti, anche per noi che la stiamo criticando, nei nostri stili di vita. Inoltre è importante parlare di felicità perché la tematica della decrescita viene facilmente associata ad un pauperismo regressivo e punitivo, moralistico. In realtà, anche in questo caso, c’è un voluto fraintendimento operato dalla cultura sensistica dominante in merito al concetto di felicità, che altera i termini della discussione sulla critica allo sviluppo industriale.
Ebbene, chiunque abbia praticato le pagine della filosofia in età adolescenziale sa bene che la forza di Platone consiste nella capacità di trasmettere concetti teoretici complessi, con immagini mitico-simboliche di grande efficacia. La posizione platonica soppianta il “sensismo” relativista di un Aristippo, distinguendo i “veri” dai “falsi” piaceri. Platone, da un punto di vista generale, opera una specie di riforma della nozione del piacere, che, con altri risvolti, è oggi richiamata dallo psicologo junghiano James Hillman evocando il “bello” scomparso. La sua riforma implica il fatto che la nozione di piace re risiede comunque nella socializzazione; il bello costituisce qualcosa di oggettivo, connaturato al vero e al bene, e allora è proprio stabilendo una stretta connessione, che esiste tra il piacere e il bello, che Platone riesce ad uscire in qualche modo da quella prigione edonistica, che Aristippo aveva teorizzato.
Tutto il discorso platonico si articola sulla base della distinzione tra piaceri veri e piaceri falsi: i piaceri veri sono quelli connessi con la vista e con l’udito, e sono stabili: secondo Platone, infatti, i piaceri sensibili non presentano, al contrario, questa stabilità, soprattutto se sono connessi al bisogno e al desiderio. Platone critica l’intendere la vita unicamente come un continuo fluire, come dimensione del movimento, implicita – secondo Aristippo – nella nozione di piacere e, a questo proposito, adopera una metafora, affermando che una vita pensata in questo modo è appunto simile alla vita del caradrio, uccello mitologico cui si attribuiva la caratteristica di mangiare e di evacuare continuamente; una vita di piaceri sensibili, quindi, per Platone è una vita in cui tutto si dissolve nel continuo fluire, in cui non c’è niente di stabile, mentre il piacere vero deve essere stabile in sé.
È a questo punto, solitamente, che lo studente comprende come la filosofia sia nel suo fondamento una scuola di saggezza, come l’esistenza quotidiana nella nostra società sia così simile ad un’imponente voliera di caradri e come l’unica possibilità di uscire, vivi o morti, da questa “cattività” edonistica stia nella libertà interiore, ovvero nel governo di sé. In effetti, altro carattere fondamentale, che rende il piacere vero, è la misura. Naturalmente, Platone fa molti esempi di piaceri veri: una vita piacevole è in qualche modo una vita, che richiede una conoscenza contemplativa, quindi non connessa a un’inabilitante sete di sapere , che implica in qualche modo uno stato di bisogno. L’uomo libero contribuisce alla manifestazione dell’essere nelle forme e nelle pratiche sociali in connessione con l’esperienza filosofica del bello.
La “voliera dei caradri” è quel mito utopico progressista, che catalizza la società dei consumi, di cui il recente libro di Carlo Gambescia – Il migliore dei mondi possibili – smonta i meccanismi sociali, economici e psicologici, più reconditi. Oggi la società dei consumi è ritenuta dai più un modello di libertà e di felicità, cioè portatrice dello “sviluppo”: la si vorrebbe ovunque e chiunque vi si oppone va redento alla verità secolarizzata del “paradiso” in terra. In realtà, sappiamo bene che è una ridotta percentuale dell’umanità a vivere di consumismo, ma la minoranza occidentale che lo pratica, nell’irresponsabilità più devastante per gli equilibri naturali e di giustizia sociale, detiene la potenza tecnologic a, scientifica e militare per imporre alla maggioranza i propri interessi particolari, giustificandoli come “missione” della storia universale.
Il compito primo di una cultura della decrescita consiste nello sposare la sobrietà degli stili di vita ad una felicità cercata nella virtù, nella misura, nella civiltà in controtendenza alla dissoluzione della cultura nell’egoismo dell’individualismo, che fa della felicità una diritto a discapito dei doveri dell’uomo nei confronti della natura di cui è parte.
Ogni forma di mentalità rinvia a una struttura socioculturale dei bisogni e dei desideri umani; il modo, quindi, di intendere la “felicità” è di particolare rilevanza, per comprendere come produrre e soddisfare fini e bisogni. Semplificando e riprendendo le due forme di felicità richiamate in precedenza, ci ritroviamo con la dicotomia tra felicità-virtù e felicità-piacere. La prima è propria delle società ideazionali, con valori trascendenti e spirito di servizio sovrapersonale, mentre la seconda è caratteristica delle società sensistiche, informate da modelli materialistici o da valori individualistici e utilitaristici. Si intuisce come una società ispirata eudemonisticamente ad una felicità-virtù ridurrà i bisogni materiali, la complessità organizzativa e quindi la tensione psicologica, decisionale del singolo; all’opposto, una società edonistica, sposando una felicità-piacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza
Fare Verde
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Agosto 2006