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La Redazione

 

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BUSH, L'IDEALISTA DEL PETROLIO

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A cura di Davide
Il 24 Gennaio 2005
39 Views

DI MAURIZIO BLONDET

Nell’era orwelliana in cui siamo entrati i media hanno appreso a definire il presidente Bush e il suo programma come “idealista”. Sarà utile vedere come questo “idealismo” è inteso negli ambienti finanziari che contano. Bill Ridley, un guru della speculazione che diffonde per internet una newsletter di Borsa (Online Investors News), così spiega e giustifica l’avventurismo militare dell’Amministrazione.

“Le forze armate americane vengono impegnate per prevenire il disastro economico, assicurando il fabbisogno petrolifero per gli Usa e il libero flusso di greggio nel mondo. Il successo delle loro missioni significherà che l’ascesa dei prezzi di petrolio ed oro sarà graduata in modo più o meno controllato. La loro sconfitta provocherà la crescita astronomica dei prezzi, che condurrà inevitabilmente a una crisi economica mondiale.”
Nei nostri tempi, la domanda di greggio cresce a ritmi mai visti, mentre la produzione globale di petrolio declina. Oggi, per ogni sei barili consumati, solo un barile viene scoperto. I giorni del ragionevole prezzo a 35 dollari al barile sono finiti. Nel 2005 e nei prossimi anni gli Usa dovranno usare sempre più la loro forza militare per mantenere il flusso dei rifornimenti.
Gli Stati Uniti hanno il 5% della popolazione mondiale e consumano il 25% delle forniture globali di greggio. Solo 50 anni fa l’America produceva il 50 per cento del petrolio consumato nel mondo; oggi non riusciamo a produrre la metà del nostro fabbisogno. Gli Usa dipendono ormai dall’estero per il 60 per cento delle loro necessità. E nel frattempo altre nazioni competono per le stesse calanti forniture. Il secondo consumatore mondiale di greggio, la Cina, l’anno scorso ha accresciuto i suoi consumi del 40%. Perciò nel prossimo futuro rappresenta uno dei maggiori ostacoli per la sicurezza Usa, essendo sul punto di divenire una superpotenza economica che non teme di esercitare la forza militare.
Per questo il ministro dell’Energia Spencer Abraham ha sottolineato come petrolio e potenza siano tutt’uno: “la sicurezza energetica è una componente fondamentale della sicurezza nazionale. La forza militare sarà un fattore sempre più essenziale per assicurare il flusso di greggio estero”.

Nel 1945 il presidente Roosevelt incontrò il re dell’Arabia Saudita, Abdul Aziz ibn Saud, e mise in atto la politica americana di “protezione in cambio di greggio”: era un passo necessario per avere un qualche controllo sul 25% delle riserve mondiali. Gli Usa ricevono greggio e i sovrani sauditi vivono nell’opulenza. La salvaguardia dei principi sauditi dai nemici esterni e interni è stato il lavoro della Cia in tutti questi anni. L’Arabia Saudita è il candidato maturo per una rivoluzione, una bomba ad orologeria che aspetta solo di esplodere. E’ prevedibile lo scoppio di una guerra civile, con lotte di potere interne alla classe dominante che potranno coinvolgere cellule terroristiche appoggiate da membri della famiglia reale. E’ in gioco il 25% delle riserve mondiali, che le forze armate Usa hanno il compito di non perdere.
Dagli anni 70 la necessità di usare la forza per assicurare il flusso non ha fatto che rafforzarsi; la rivoluzione iraniana nel 1978, e l’aggressione sovietica dell’Afghanistan ci hanno creato nuovi problemi. Per questo nel 1980 il Presidente Carter enunciò la dottrina secondo cui qualunque tentativo da parte di una potenza esterna di prendere il controllo del Golfo Persico sarebbe stato considerato un attentato agli interessi vitali americani, e sarebbe stato respinto con ogni mezzo. E’ in base a questa dottrina che abbiamo fatto la guerra a Saddam Hussein nel 1990, quando occupò il Kuwait.
E’ la stessa dottrina che ha consigliato l’attuale invasione dell’Irak e il suo obbiettivo primario: assicurare i giacimenti iracheni…”Le forze Usa occuperanno l’Irak per molti anni avvenire. Le nostre forze armate hanno la missione di proteggere i giacimenti e gli oleodotti iracheni”.

L’Amministrazione Bush non si fa alcuna illusione sul problema dell’economia petrolifera globale. Pochi giorni dopo l’insediamento di Bush alla Casa Bianca l’acuta coscienza dell’Amministrazione dell’assottigliarsi del flusso petrolifero fu chiarita da Dick Cheney con queste parole: “la nostra dipendenza da fonti estere di greggio è altissima, ed è destinata a crescere. L’economia Usa e del mondo restano vulnerabili a fronte di qualche grave interruzione delle forniture di greggio. Perciò il Golfo sarà il centro primario della politica energetica internazionale degli Usa”.
Vero è che mai Bush ha menzionato il petrolio fra i motivi per l’invasione dell’Irak. Ma la necessità strategica di appropriarci dei campi petroliferi iracheni è ben chiara agli addetti ai lavori. Così Fadel Gheit, analista petrolifero di Wall Street per la Oppenheimer & Co., ha chiarito che cosa è l’Irak per il business del greggio: “niente permafrost, né trivellazioni negli abissi, ma enormi laghi di petrolio appena sotto la superficie del suolo. Non solo l’Irak ha accertate vastità di greggio facilmente accessibile, ma i suoi giacimenti sono praticamente ancora vergini”. Per abbondanza di greggio in riserve non ancora sfruttate, l’Irak è pari alla Russia, ma con una differenza: “non possiamo andare in Russia ad occupare i loro giacimenti, perché loro hanno l’atomica, è tutt’altro gioco’.
L’Irak invece era disarmato, non aveva armi di distruzione di massa. E la sua posizione geografica, fra l’Arabia e l’Iran, ne fa il posto ideale per stabilirvi una presenza militare permanente: una base militare con enormi laghi di greggio sotto, si può sognare qualcosa di meglio?

Maurizio Blondet
Fonte:www.effedieffe.com
22.01.05

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