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SAMARRA, L’IRAN, MOQTADA AL SADR E I SOLITI NOTI

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DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane fuorilinea

Salvo Stefano Chiarini su “il manifesto” (26/2/06), non c’è commentatore italiano che ci faccia capire cosa succede in questi giorni in Iraq. In particolare quale sia il ruolo, sempre più appariscente, del clerico scita dallo sguardo torvo Moqtada al Sadr, uomo per tutte le stagioni, dalle mille giravolte purchè favorevoli alla sua personale ascesa ad arbitro degli eventi, agente doppio, un po’dell’Europa avida di rientro in Iraq, un po’ dell’Iran proteso all’espansione verso Golfo e Penisola, dotato per lo scopo di masse di manovra usate per tutto e per il contrario di tutto. Una specie di voltagabbana da far invidia ai peggiori Ferrara o Cicchitto. Ma forse la pietra di paragone è il campione dell’inciucismo nostrano, l’ometto beffardo con i baffetti, il campione tattico e la sega strategica. E se da noi, per il finto bifronte Bertinotti, sono presentabili Bonino, Mastella, il bombardiere Minniti, il sinistro-per-Israele Fassino ma, dioceneguardi, non Ferrando (che pur cede sulla discriminante “terrorismo”), figuriamoci se non è presentabile l’arlecchino ammiccante Al Sadr rispetto agli impresentabilissimi partigiani iracheni guidati (probabilmente) dal vicepresidente iracheno e dagli esecrati saddamisti. Insomma, sull’Iraq, dopo lo shock and awe bushiano, dopo i carabinieri dei ponti e i bersaglieri delle ambulanze, dopo la “spirale guerra-terrorismo” che ha avviluppato un po’ tutti, da Ciampi a Chomsky, da Padre Zanotelli a Bertinotti, ecco abbattersi, con le macerie d’oro della cupola di Samara, l’ennesimo gigantesco equivoco. Per i giornalisti istituzionali, la cosa si spiega con l’ormai noto mix di ignoranza e velinarismo. Per quelli di sinistra, o presunta tale, si tratta sempre di ignoranza, che in questo caso però si mescola, nell’inutile distinguo delle lacrime sulle nefandezze dell’occupazione, con la subalternità strutturale al verbo imperiale.

Tutti a fare una gran confusione, ad avallare, mescolando le varie componenti in campo come fossero un mazzo di carte intercambiabili, l’ineluttabilità della guerra civile tra quei trogloditi degli opposti fanatismi fondamentalisti. I giocatori dietro le quinte, quelli che poi le carte le distribuiscono, sono perlopiù bell’e ignorati. Nel calderone delle “esplosioni sanguinarie”, delle “mattanze”, delle “stragi terroristiche” finiscono anche e pour cause le operazioni della guerriglia. Tutto fa brodo, anzi, sangue, orrore, ripugnanza. Tanto che appare proprio inevitabile che qualche presenza di “civiltà”, ovviamente di “ricostruzione”, vi si mantenga (vedrete fra un po’ come il carrozzone dell’Unione, guidato dall’Omino di burro e con sul predellino Bertinotti, vi si adeguerà!), onde trattenere dal baratro quel popolo in preda a deliri autodistruttivi.

Sfiorano la realtà e alludono alla verità appena due commentatori. Il già citato Chiarini, sicuramente il più esperto, e un leggermente recuperato Giancarlo Lanutti di “Liberazione”, cui la propaganda sionista dell’infaticabile Guido Caldiron, vessillifero del kibbutz dentro “Liberazione”, deve aver finalmente fatto saltare i nervi. Entrambi alludono, più o meno direttamente, alla possibile/probabile matrice iraniano-sionista dell’attentato di Samarra che ha innescato il supercasino. Ci sono stato a Samarra, mi sono fatto abbacinare dalla cupola d’oro che non c’è più, dalle piastrelle di maiolica con quei morbidi ghirigori danzanti dell’alfabeto arabo (che differenza con quelli, a rocciosi plotoni inquadrati, dell’alfabeto ebraico. E’ antisemitismo anche fare un’osservazione estetica?). Sono salito sulla torre a spirale dove in cima resti sospeso e agitato da un vento incessante, forse eterno, forse l’ultimo refolo di quello che doveva imperversare intorno al modello: la vertiginosa Torre di Babele (non segno, biblico, della confusione e dispersione, ma simbolo mesopotamico della mescolanza, perenne tra i due fiumi, di genti, lingue e culture, sempre pronte a divellere le proprie radici inaridenti e a intrecciarle con altre, trasformandole così in frasche e fiori). E per esserci stato e ristato, in quel paese dalla grande storia e dalla grande missione, so perfettamente che non un iracheno, arabo o curdo o turcomanno, o scita o sunnita o cristiano, avrebbe mai manomesso anche solo il filo di malta tra una maiolica e l’altra, anche solo sfiorato con sguardo distratto la cupola d’oro.Genti che tanta gentilezza avevano, tanta saggezza le loro guide, tanti valori la loro millenaria e planetaria comunione di amicizia, tolleranza, ospitalità, da farti vedere precipitare, al confronto, nella più fetida delle latrine la maggior parte della ratzingheriana, ferrariana, fallaciana e perista (da Pera) “civiltà cristiana”.

Le cose stanno così. La Resistenza irachena, quella dei 400.000 (calcolati dal Comando USA) combattenti Baath, dell’esercito nazionale, delle milizie fedayin e di quelle successive islamiche, crescendo del 35% di anno in anno, fino alle attuali 120-130 operazioni al giorno contro occupanti, ascari, squadroni della morte a teleguida israelo-americano-iraniana, stava portando alla disfatta l’intero progetto imperialista. La guerra civile necessaria alla frammentazione del paese e al boccone meridionale per l’Iran, continuava a non scatenarsi, infrangendosi contro il patriottismo stramaggioritario degli iracheni allenati da mezzo secolo di antimperialismo, nonostante il pervicace accanirsi terroristico delle squadre speciali cosiddette Al Qa’ida (ricordarsi dei due agenti britannici scoperti travestiti da arabi mentre stavano per far esplodere un’autobomba, ovviamente battezzata Al Qa’ida, nel mercato di Basra). Oleodotti, giugulare dell’Occidente, che saltano ogni giorno fino a ridurre quasi a zero l’export necessario alla sopravvivenza della bancarottiera economia statunitense. Un saldo di vittime americane, tra morti e feriti, che ridicolizza i numeri ufficiali, dimostratamene falsi, e li avvicina ai 52.000 di dieci anni di guerra al Vietnam. Gli occupanti ristretti nei loro fortilizi e ridotti a sortite al fosforo per radere al suolo qualche città incontrollabile. Con il sovraprezzo della revulsione mondiale davanti all’incessante uragano di rivelazioni sulle barbarie delle torture e delle stragi di massa. L’ormai irreversibile prova, passata, tra i non lobotomizzati, dal sospetto alla certezza, della mano israelo-americana dietro agli attentati a mercati e moschee, finalizzati a quella obliterazione dell’Iraq che la guerra contro la Resistenza non riusciva a compiere. Il dissolversi nel ridicolo del miti di Al Qa’ida e del defunto Al Zarkawi quali protagonisti della violenza terroristica, ovviamente antiscita, nel mondo come in Iraq. Miti non per caso rilanciati, ad esonero dei compari angloamericani e dei fratelli negli squadroni della morte, dai vicari iraniani in Iraq, Al Sistani e Al Hakim. Tutto questo esigeva una svolta drastica, tipo quell’11 settembre che fece da trampolino alla guerra globale e al nuovo fascismo nell’impero e nelle sue marche. E lo sbriciolamento della cupola del quarto sito più sacro agli sciti, con un’operazione dinamitarda che, di traforo, si è saputa preparata nella moschea, durante ben dieci ore, da uomini in uniforme governativa, sotto gli occhi degli onnipresenti marines e dei loro gendarmi fantocci, dell’11 settembre condivide obiettivi, se non i mandanti.

La manovra di contenimento e graduale neutralizzazione di una Resistenza fin lì vittoriosa era iniziata l’anno scorso con la cosiddetta “Conferenza di Riconciliazione” al Cairo, inevitabilmente quanto sciaguratamente omaggiata dal pacifismo nostrano (sono gli stessi che inneggiavano al ludibrio disfattista di Ginevra sulla Palestina). Si trattava di sottrarre terreno e forza di riferimento politico alla lotta armata, sedurre e inglobare nel collaborazionismo qualche più o meno sostanziosa componente compradora sunnita (il Partito Islamico e altre frange partecipi delle elezioni-truffa), anche per arginare l’espansionismo egemonico della gerarchia scita legata a Tehran. Gerarchia che, pure, restava indispensabile per la programmata guerra civile a fini di spartizione, agevolata dagli squadroni della morte sciti e curdi addestrati e in parte pagati dall’Iran e inquadrati sotto il controllo del ministro degli interni Bayan Jabor. L’osceno sostegno, lungo la storica linea strategica persiana, dato da Tehran agli occupanti genocidi, con la radicalità nazionalista di Ahmadi-Nejad aveva incominciato a pretendere un prezzo eccessivamente alto, perlomeno per i settori più voraci del sionismo israelo-statunitense. Un intero governo e metà del paese sotto il ferreo controllo dei viceré iraniani Sistani e Al Hakim facevano preasagire, più che un Iraq spappolato in feudi al servizio del capitale USA, un Iran esteso fino ai confini delle servitù coloniali americane della Penisola arabica, soggetto imprevedibile e di portata strategica e geopolitica incalcolabile. Dunque nessuno nega, come certe schematizzazioni di queste analisi pretendono, la contraddizione di fondo tra un’Iran potenza regionale in espansione e un blocco israelo-occidentale che non tollera né correi né sbavature nel proprio controllo del Grande Medio Oriente. Ma da lì a fare dell’Iran un bastione antimperialista significa, alla luce del criminale ruolo svolto dagli ayatollah sul corpo straziato dell’Iraq, dargli una del tutto immeritata patente di compagno di strada nella lotta all’imperialismo. Sarebbe più opportuno prendere atto che l’Iran, autentico Fregoli dell’attuale stagione geopolitica, ha un giocatore su ognuno dei tavoli mediorientali dove ci si contendono ruoli ed egemonie: appoggio a Hamas in Palestina e a Hizbollah in Libano, politica di buon vicinato con gli autonomissimi signori della guerra sciti nell’Est dell’Afghanistan, azione biforcuta in Iraq con i secessionisti di Najaf, da un lato, e con lo pseudo-unitario Moqtada, occhieggiante verso l’Europa, dall’altro. Con i preti di Najaf si ricattano gli Usa, con Moqtada si vorrebbero condizionare gli europei. Un’autentica, ovviamente cinica, politica di potenza. Nulla più.

Fu di fronte al crescere degli ostacoli che gli occupanti si sono visti costretti ad aprire qualche botola alle componenti più domesticabili dell’opposizione civile sunnita e, in prospettiva, ad attrarre verso future compartecipazioni di repressione e di sfruttamento delle risorse il sottoimperialismo europeo. L’uomo per la bisogna pareva essere quel Moktada Al Sadr che, già mostratosi abile cerchiobottista tra ricorrenti piazzate antioccupanti e collaborazionista partecipazione alle elezioni “amerikane”, pur vantando strettissimi legami con Tehran, pareva interessato a ritagliarsi uno spazio eccellente nel futuro assetto compratore, in alleanza con quei settori “nazionalisti” sunniti – Partito Islamico, Alleanza dell’Accordo, alcuni ulema – che dal trionfo della Resistenza avevano nulla da attendersi e tutto da temere, anche alla luce di una sovranità e di un assetto sociale che nella prospettiva resistenziale (ispirata dal Baath) non avrebbe ammesso formule neocoloniali tipo Egitto o sceiccati. La mossa statunitense poneva, di conseguenza, a rischio la costruzione strategica elaborata dalla gerarchia politica e religiosa scita ai fini di un Iraq del Sud finalmente inglobato nell’Iran, dopo i tanti tentativi falliti sotto Saddam attraverso l’infiltrazione di terroristi iraniani. Gli attriti iniziarono a manifestarsi con attentati nel Sud dell’Iran attribuiti da Tehran a sabotatori britannici e assunsero forme più trasparenti con le critiche dell’ambasciatore statunitense Khalilzad al ministro degli interni iracheno, individuato come responsabile di migliaia di assassini di esponenti sunniti tramite le proprie squadracce, squadracce che, pur create e addestrate dagli americani, ora venivano addirittura bloccate e arrestate, seppure solo a scopo dimostrativo. Il tentativo finto-unitario, detto laicizzante, dell’ex-premier fantoccio Allawi, istigato dagli USA e che avrebbe dovuto rappresentare un’ipotesi governativa di coalizione “nazionale” sciti-sunniti a contenimento dei sudisti, fu messo in crisi dall’ostilità curda e integralista scita e affossato poi da una vera debacle elettorale. In quelle elezioni, manipolate dal primo all’ultimo voto (si ricordino le autocisterne zeppe di centinaia di migliaia di schede filo-scite in arrivo dall’Iran), gli USA si adoperarono per arginare il dilagare scita (reso possibile anche da una fortissima astensione di settori autenticamente nazionali), impedendo che la coalizione integralista SCIRI-DAWA raggiungesse l’ambita maggioranza assoluta.

E’ su questo scenario che qualcuno ha fatto saltare la cupola di Samarra e programmato di sparigliare il gioco attraverso una fase di caos che rendesse del tutto impraticabile il disegno paranazionale ora perseguito dagli americani con un manipolo di soci di minoranza un po’ meno squalificati degli aguzzini Chalabi e Al Jaafari. A questo punto è riemerso Moqtada Al Sadr, mandando i suoi descamisados di Saddam City (oggi Sadr City) prima ad assaltare e poi a proteggere le moschee sunnite, accuratamente mantenendosi in equilibrio su caos e inerente pogrom antisunnita, per non riaprire la strada al predominio dei parenti-serpenti di Najaf., pur a lui accomunati sotto l ‘ombrello degli sponsor iraniani. A smascherare la vera identità dell’anguillesco prelato sono anche le indicazioni finali date ai suoi seguaci di limitarsi a distruggere le moschee costruite sotto il precedente detestato regime laico, indicazioni che si affiancano sia alle ricorrenti manifestazioni sadriste per chiedere la decapitazione di Saddam e la definitiva debaathificazione nel sangue, sia al regime del terrore antilaico imposto nelle zone da Moqtada controllate.

Qui tutti giocano su più tavoli, ma un giocatore è presente su più tavoli degli altri e sembra avere in mano più carte. Si potrebbe concludere – ma tutto in Iraq è un azzardo – con il celebrato “Io so” di Pasolini a proposito di Piazza Fontana e tutto il resto. Chi aveva l’urgente interesse a contrastare una manovra occidentale che, includendo ceti compradori sunniti, moderati sciti, Moqtada e i loro simpatizzanti europei (che in Italia schiamazzano con il Campo Antimperialista-Iraq Libero), buttando tutto per aria, cupola d’oro degli ultimi imam compresa, sembrerebbe essere in prima linea l’Iran., certo accompagnato da qualche ghigno di soddisfazione in Israele. Quello che, nella piena solidarietà dei maestri di tortura statunitensi, si era incaricato di decimare la miglior parte della cittadinanza civile e intellettuale laica irachena. Quello che potrebbe essere stato il primo a trarre vantaggio dall’eliminazione di una troupe della televisione Al Arabiya, moderata sull’occupazione, ma fortemente araba e anti-persiana. Quello che forse anche stavolta si è avvalso della perizia tecnologica e logistica israeliana. Come quando, nella guerra all’Iraq degli anni ’80, ebbe il conforto, oltrechè dei finanziamenti del Congresso Usa, dei piloti, istruttori e armamenti israeliani. Ipotizzato questo, non resta che conservare analoga lucidità nei confronti dell’altro tentativo di mettere in un angolo la Resistenza, quello di Moqtada e dei vari sostenitori di accordi e riconciliazioni. Tra chi da Tehran accusa Cia e Mossad delle bombe di Samara – e ciò è di prammatica se si vuole restare credibili al l’interno, anche se l’alta direzione terroristica è davvero da attribuire a quei laboratori -, chi da Najaf le attribuisce al noto dipartimento israelo-americano Al Qa’ida e chi da Washington rinnova la facezia dei responsabili saddamisti, c’è solo da scommettere su chi abbia la coda di paglia più lunga. La Resistenza li ha rinnegati tutti. E così le grandi masse in piazza nel dopo-Samarra che in grande maggioranza, anche se non ve lo hanno raccontato, innalzavano bandiere nazionali irachene e indirizzavano il loro grido contro gli occupanti ameriqi. Que se vayan todos.

FULVIO GRIMALDI
Fonte:www.uruknet.info
Link: http://www.uruknet.info/.?p=s5537&hd=0&size=1&l=i
27.02.06

VEDI ANCHE: CHI HA ATTACCATO IL SANTUARIO A SAMARRA?

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