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DI CARLO BERTANI

Mi domando che madri avete avuto.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Pier Paolo Pasolini, Ballata delle madri

Ho cercato per tutta la sera un’immagine di Nicola Tommasoli, e non l’ho trovata; forse un comprensibile riserbo dei parenti: auto della Polizia, Carabinieri nella notte e poi le foto dei cinque “bravi ragazzi” che lo hanno ammazzato. Nient’altro.
Sì, perché tutti si sono sperticati ad urlarlo ai quattro venti: erano bravi ragazzi. Un po’ “fascisti”? Forse. “Nazisti”? Può darsi, ma bravi ragazzi comunque, nell’attesa d’essere interrogati per omicidio preterintenzionale.
Tutti cercano analisi e spiegazioni per capire: una sigaretta, non ce l’ho, t’ammazzo a calci.

Massimo Cacciari, dalle colonne del “Corriere della Sera”, compie un’iperbole. Che ha un senso, non è certo campata in aria, poiché Cacciari è lo scomodo enfant prodige cacciato: nei salon de la musique ou de la philosophie, ma cacciato. Troppa grazia, sant’Antonio, recitano dai loft del PD. Meglio lasciarlo dov’è.
Anche Cacciari, però, diventa un minimalista quando afferma che tutta la vicenda ha radici nella scomparsa della DC, la Balena Bianca che tutto riusciva a contenere ed a metabolizzare. Eh sì, perché la DC era solo un partito politico, mica la Madonna scesa in terra per mettere a posto tutto il sistemabile.
Se la DC, nel Veneto, poteva acquietare il troppo fermento anticomunista e le intemperanze di qualche fondamentalista, non si può far carico, alla scomparsa della Balena Bianca, chi ammazza con la scusa di una sigaretta. Bisogna andare oltre.

“Oltre”, significa guardare negli occhi quei cinque ragazzi e capire perché. La prima istanza, legittima, è quella di chi li considera “figli del sistema”, coerenti con le istanze pubblicitarie: ogni giorno, per scacciare i demoni di quello precedente, deve inventare un nuovo credo. Ad una Doretta Graneri che, oramai 30 anni fa, uccise i parenti per l’eredità hanno fatto seguito i Pietro Maso per la stessa ragione. Qui, però, non c’erano eredità e soldi, bensì una sola sigaretta. Il nuovo credo – o fatto, avvenimento, evento…quasi perversa saga – è mostrare l’inconcepibile agli occhi altrui, sbalordire, proprio come nella pubblicità, con qualcosa che – agli occhi del gruppo, clan…popolo – sia segno di grandezza, ancorché perversa, ma incoerente nel segno e nel volgere con qualsiasi pretesa di “normalità”. Uno spot assolutamente vincente, verrebbe quasi da dire.

Il Veneto, oggi, è nell’occhio del ciclone: le foto dei ricercati campeggiano su tutti i giornali ed i siti Web, Verona è nella polvere della sua arena. Non si cheta il primo colpo che, da Viterbo, ne giunge un secondo.
Qui, per fortuna, non c’è il morto ma c’è il video di un ragazzo al quale arrostiscono i capelli con l’accendino, in una scuola media. Si vede che va di moda: bisogna farne “una” sempre più eclatante rispetto a quella del giorno prima, come nella pubblicità. Altrimenti, nessuno ti nota.
Il colpevole, quattordicenne, è stato affidato ai “servizi sociali”. Lo immagino in un cascinale dell’Etruria che pascola caprette, al massimo che trasporta qualche carriola di letame: ai cavalli non lo lasciano avvicinare. Avesse mai conservato l’accendino, con quelle criniere e quelle code…

Mi chiedo, senza arrivare ad appendere la gente per i piedi, se non si potrebbe far di meglio: ma, veramente, qualcuno pensa che basti qualche colloquio (pur necessario) con lo psicologo per “rimettere in sesto” un quattordicenne che dà fuoco ai compagni?
Anzitutto, non sarebbe meglio fargli capire che c’è una relazione fra l’atto e le pena? Poniamo che, invece d’essere affidato ai servizi sociali, lo avessero precettato per qualche lavoretto da poco, qualcosa che non presenti pericoli, del tipo: vai a grattare, col raschietto, la colla che rimane nei tabelloni pubblicitari. Un mesetto, tutti i pomeriggi, sole o vento, gratta e taci: se a scuola trovavi il tempo per bruciare i capelli ai compagni, ne troverai dell’altro per studiare la sera. Poi, passa pure dallo psicologo – ne hai senz’altro bisogno – ma c’è un imprinting che resta: faccio il bullo? Gratto per un mese, fino ad avere i calli nelle mani. Non ti va di grattare? Bene: al carcere minorile c’è una branda che t’aspetta.

Invece, la cultura giuridica permissiva degli ultimi decenni (riflettiamo sul concetto pentito/sconto di pena, che ha scardinato l’ordinamento giuridico e annichilito i percorsi investigativi che non contemplano “pentiti”), ritiene il perdono prima panacea per ogni male. Al massimo, qualche pena pecuniaria (che rimpingua sempre le casse di qualche amministrazione) o amministrativa. Il carcere è riservato per lo più agli extracomunitari ed ai tossicodipendenti, e quindi non è il luogo più adatto per sanare chi ha queste pulsioni: mai sentito parlare di pene alternative?
Se ne sente parlare quasi come barzellette, trovate geniali di magistrati fantasiosi ed invece sono proprio quello di cui abbiamo bisogno: prima che si arrivi ad uccidere, a rubare, a terrorizzare. Ci sono moltissime possibilità d’applicare pene alternative, il problema è volerlo. La società permissiva non è solo figlia di una pessima sinistra: è alimentata anche da potenti soffi di destra, laddove si considerano “degni” del carcere soltanto i cittadini italiani di serie B e le serie inferiori, tossici, rumeni, marocchini, ecc. In fondo, anche se stuprano ed ammazzano, si continua ad affermare che “erano bravi ragazzi”. No, erano delinquenti mascherati della peggior risma, che da tempo erano conosciuti dalle Forze dell’Ordine, le quali non li avevano segnalati come avrebbero dovuto fare alla Magistratura, che sarebbe stata in grado (volendo) d’applicare una serie di pene alternative.

Dov’è il vulnus?
Sono più d’uno.
Il primo, come ricordavamo, è l’appellativo, desueto, che sono “bravi ragazzi”. Lo erano anche Izzo, Guido e gli altri mazzolatori del Circeo di trent’anni fa. Non basta appartenere alla classica “buona famiglia” per avere la licenza d’uccidere: ad oggi, il capo d’accusa per i mazzieri di Verona è omicidio preterintenzionale. Non volevano uccidere! Non lo desideravano! Ma, quando prendi a pugni e calci una persona anche a terra, non ti rendi conto che la puoi uccidere?
Il secondo vulnus è più sottile, tanto che non viene quasi menzionato.
Stiamo diventando una società dove la permissività è diventata un valore e l’autorità un disvalore: il pater è oramai dimenticato e considerato terribilmente demodè, solo il perdono collettivo – magari ritualizzato in un talk show – è la catarsi collettiva di salvezza. Fino al prossimo morto: oramai sono troppi i casi (vedi quello di Sanremo) di gente che ammazza dopo aver compiuto, indisturbata, un primo omicidio.
Ecco come si esprimevano i magistrati di Genova[1] nei confronti di Luca Delfino, prima che uccidesse la fidanzata Maria Antonietta Multari, quando era solo “sospettato” dell’uccisione di Luciana Biggi:

“Una personalità disturbata, un uomo socialmente pericoloso”: questa la definizione data di lui dagli investigatori genovesi. Al pm, Enrico Zucca, fu presentata “una marea di indizi” a carico di Delfino, come dice il capo della mobile, Claudio Sanfilippo, ma mai prove concrete di colpevolezza, “la pistola fumante”, come lui stesso la definisce. Anche se, insiste l’investigatore, “gli elementi per metterlo in carcere c’erano tutti”. L’indagato ha sempre ammesso di avere passato quella serata finita in tragedia insieme alla donna, ma ha ostinatamente negato di averla assassinata: “L’ho lasciata pochi minuti prima che venisse uccisa”.

Se questo è il Paese che non ha saputo trovare colpevoli per Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus e treni vari, la stazione di Bologna (una sentenza che non ha mai convinto nessuno), Ustica…fino al Moby Prince – ed avrò senz’altro dimenticato qualcosa e qualcuno – non possiamo credere che, nello spicciolo ed immediato incedere delle indagini per la gente comune, le cose vadano meglio.
Non starò a tediare il lettore con statistiche fuori luogo in questo momento, ma tutti sappiamo che gran parte dei delitti rimangono impuniti: uno sberleffo, per quel milione di persone che dovrebbero occuparsi della nostra sicurezza. Riflettiamo che la più lunga catena d’omicidi seriali, in Italia, ha avuto come protagonisti quelli della “Uno bianca”, il che è tutto dire. Si fa un gran parlare di “poliziotti di quartiere” e di “prevenzione”, ma li vediamo materializzarsi soltanto quando ci scappa il morto. Quando non sono loro a farlo.

La “sicurezza”, allora, viene abilmente triturata per essere somministrata – via ago e fleboclisi pubblicitario – nelle campagne elettorali: a nessuno importa un fico secco se domani ci saranno altri morti ammazzati, anzi. Meglio se la “tensione” rimane alta, perché la tensione alimenta l’attenzione, e l’attenzione ben diretta ed orchestrata finisce per scaricarsi come deve nella scheda elettorale.
Un romeno, ubriaco, uccide quattro ragazzi con l’auto impazzita, e tutti gridano alla forca per i romeni: poche settimane dopo, sono italiani ubriachi a far strage, ma in quel caso non si citano, nei TG, nemmeno i nomi dei colpevoli. L’antidoto all’insipienza non deve essere messo in commercio.

I tromboni di regime si sperticano, allora, nell’assegnare responsabilità, o peggio colpe, a destra ed a manca. La scuola: ecco dove non si fa abbastanza, ecco qualcuno che ha delle colpe. Chi sostiene tesi del genere, non comprende – perché non sa – come funziona l’oramai smarrita scuola italiana.
A Viterbo, com’è stato possibile dar fuoco ai capelli di un ragazzo in una scuola?

Anni fa, nell’Italia che era ancora un paesello di provincia, appena un insegnante telefonava per comunicare che era malato, partiva la telefonata al Provveditorato e, spesso, il supplente arrivava nella stessa mattina.
Poi, s’iniziò a considerare – per risparmiare – che potevano sostituirlo i colleghi nelle ore libere, le cosiddette “ore a disposizione”, che nascono dalla non coerenza fra l’orario di servizio (18 ore) con quello di cattedra (che può essere di 16 o 17, ad esempio). Detto fatto: risparmi ottenuti, ed il supplente viene chiamato solo dopo 14 giorni di malattia.
Arrivò la Moratti e – sempre per risparmiare – rimise “ordine” nelle cattedre: hai due ore libere? Vai ad insegnare Geografia in una prima: altri denari del contribuente risparmiati.
Va da sé che, se tutti hanno un orario di cattedra che coincide con l’orario di servizio, ore a disposizione non ne restano, o ben poche. Ma si risparmia.
Il “risparmio” – e questo è bene che i genitori lo sappiano – lo pagano i loro figli, che restano a scuola, talvolta, in situazioni sempre più precarie: “siamo usciti prima”, “non abbiamo fatto niente perché non c’era il prof”, “ci hanno messi in tre classi a guardare un film”.
E la sorveglianza? Sempre meno persone – docenti ed ATA – per sorvegliare i ragazzi durante l’intervallo: quando una persona deve sorvegliare un intero corridoio, come può prevenire qualcosa? Il più delle volte, arriva a cose fatte.

Anche a scuola, la sanzione è diventata un optional evanescente. Un tempo, dopo un’ammonizione sancita dal Preside, giungeva automatica la prima sospensione. Non ti bastava? Bene, “beccati” la seconda, così vai con tutte le materie a Settembre. Ci si pensava non due, bensì tre volte.
Oggi, complici la permissività dilagante (mai compresa, dalla sinistra, come disvalore e sempre cavalcata senza nessun provvedimento dalla destra), la mancanza di sanzioni e la ridicolizzazione del ruolo del pater, s’arriva a dar fuoco ai capelli del compagno. Il premio è la “passerella” su Youtube, che ti fa salire nell’Olimpo dei famosi per qualche ora: non sei più un signor nessuno, sei uno che ha dato fuoco ad un compagno a scuola.
Anche sul concetto di autorità, sarebbe meglio darsi una lavatina di capo e, a mente fredda, ripensarci un poco. Un conto è l’autoritarismo vuoto e bieco, quello di chi ti vessa soltanto perché ne ha il potere, un altro è quello di chi comprende che devi essere – in qualche modo – avvisato del tuo pessimo comportamento.

Purtroppo, nel Bel Paese, conosciamo molto il primo e quasi nulla il secondo. In gioventù, fui fermato dalla Polizia Stradale francese (insieme ad un amico facevo autostop) per un controllo: non ero certo, dopo giorni sulla strada, un damerino.
Scherzando, dissi al flic: “Adesso ci portate in prigione?” Il poliziotto rispose “Se avete combinato qualcosa, sì, altrimenti no” e parve sorpreso dalla mia domanda. Chiamò con la radio della moto (anno 1972…) una centrale, dove chiese conto dei nostri documenti. Poche parole, poi restituì i documenti: “Monsieur, bon voyage” e diede il classico “calcio” alla motocicletta. Mi tornarono alla mente le provocazioni dei poliziotti italiani in borghese, i quali – mentre eri tranquillamente seduto su una panchina dei giardini – ti appellavano: “Capelli lunghi, sei ricchione?”

Infine, non dobbiamo dimenticare che la “sciatteria” italiana in termini di giustizia (i tempi di Matusalemme per una sentenza…), di sicurezza (proprio stasera, a Brescia, hanno scarcerato quattro kosovari, colpevoli di rapine in ville, per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva) ed infine nell’educazione, sono funzionali ad una società autoritaria, non liberale.
La mano che ci consegna sudditi – e non cittadini – nelle mani di poliziotti incapaci d’indagare, e di giudici non sempre solleciti nel giudicare, è la stessa che nega diritti essenziali come la salute (con la chiusura degli ospedali, le riduzioni di personale, ecc) e che non vuole una scuola magistra vitae, bensì un’azienda che produce cervelli all’ammasso.
Di conseguenza, il povero Nicola – che immagino intento a disegnare pezzi meccanici con il CAD – è stato utile a tutti: della sua vita, a nessuno è fregato un accidente. Si potranno riempire i palinsesti televisivi, nell’attesa che sia nominato il governo e, finalmente, voltare pagina.
Nel silenzio che calerà, la sentenza di primo grado sarà forse “esemplare”, poi – siccome sono “bravi ragazzi”, e dunque ricchi – ci penseranno “buoni avvocati” a fare in modo che fra Appello, Cassazione e legge Gozzini, fra qualche anno siano nuovamente liberi. Come i massacratori del Circeo per i quali, dove non giunse la legge, arrivò la “fuga” dal carcere.

Rimani tu, Nicola, che credevi, quella sera, di passarla tranquilla a passeggio con gli amici, magari una ragazza: chissà…
Di te non è apparsa nemmeno una foto: ti hanno fatto a pezzi ed hanno pure donato gli organi. Non sia mai che si butta qualcosa.
Spero che al tuo funerale nessuno applauda – stupida catarsi per esorcizzare la morte – e che qualcuno pianga. Non i parenti, gli amici: che la gente pianga, per te e per noi, per come siamo ridotti, impotenti, di fronte a questa barbarie di Stato.
Che una canzone dolce t’accompagni, Nicola, nel tuo cammino fra le ombre: non voltarti per cercare dei perché. Almeno tu, guarda avanti.

Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2008/05/buonanotte-nicola.html
7.05.08

[1] Fonte: La Repubblica, 10 Agosto 2007

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