FONTE: ROSSLAND (BLOG)
La prima volta in cui ho sentito parlare della Festa della Donna avevo 8 anni: mia madre mi portò al cinema perché era “la festa della donna”.
Qualche anno più tardi, il giorno in cui le dissi che avevo trovato una casa e che sarei andata a vivere da sola lei, invece di ostacolarmi come mi aspettavo, mi regalò un plaid comprato apposta per me (e che ancora ho con me).
La sera in cui andai a salutarla prima di partire per Londra, dove avrei vissuto per qualche tempo, mi chiese di lasciarle le chiavi di casa: l’avrebbe tenuta pulita e avrebbe avuto un posto dove andare quando voleva starsene da sola, lontana per qualche ora da un’identità per altri che ne prevedeva mille, con mille regole fisse, negandole sempre la sua propria.
Teneva in piedi la faticosa famiglia senza smettere di sognare di poter essere solo una persona libera dal “dovere per altri”, con spazi propri in cui stare o piccoli angoli di mondo dove nessuno la cercava per se stessa (dove sono i calzini? mi compri…? mi porti a…?).
A 50 anni, per sentirsi qualcuno per se stessa, si trovò un lavoro: voleva dei soldi solo suoi.
Quando morì, scoprimmo che con i suoi guadagni comprava Buoni Postali Fruttiferi, forse era il suo modo di crearsi un’isola di indipendenza immaginaria che finì invece per essere ancora una cosa “fatta per altri”.
L’ho contestata sempre, perché fino a un certo momento della mia vita vedevo in lei tutto ciò che non volevo diventare.
Oggi mi accorgo che di me amo tutto ciò che le somiglia.
Ciò che quell’8 marzo dei miei 8 anni mi insegnava era che il ruolo che la società di allora imponeva alle donne per dirsi “normali”, non impediva loro di covare silenziose ribellioni, pensieri di indipendenza, isole di silenzio in mezzo alle cucine o ai chiacchiericci femminili impastando nutrimento e cucito per altri.
Dopo qualche anno di illusione, l’8 marzo di quest’anno mi pare invece la tomba di tutte le aspirazioni a essere soggetti con un valore per sé delle donne.
Ho la forte sensazione che siamo a quel giro di boa per cui il diritto a esistere per se stesse e in quanto tali, è vicino al capolinea, che gli orizzonti di valore propri siano sempre più confusi con i valori stabiliti da un listino prezzi.
Se esiste anche una sola donna il cui valore è stabilito da un utero ri-produttivo, è davvero finita.
L’utero per altri, per il solo fatto di essere una delle odierne possibilità del commercio, degrada tutte le donne a meri pezzi di carne (processo iniziato con le tette di Drive-In per cui fuori dalla cucina le donne si raccontavano libere sì, ma solo di darla al miglior offerente in cambio di moneta sonante).
Soggetti d’uso cui applicare strategie di marketing con le 4 P:
– product,
– placement,
– price,
– promotion.
Nessuna cosa può essere più tombale di questa: come può una donna accettare di finire in un catalogo con un prezzo stabilito in etichetta per l’uso del suo utero di carne, nervi, sangue, istinto?
Non alla parità in termini di valore economico, ho mai pensato: nessuna donna vuol essere un uomo o misurare la propria esistenza con i metri di valore che all’uomo di potere appartengono.
Il diritto a esistere di per sé, con un proprio nome e cognome che non dipenda da altri, con proprie specificità di ormoni e di pensieri, senza privilegi né doveri che non siano quelli che ognuno, uomo o donna che sia, desidera assumere per sé perché li sente suoi.
Mia madre forse i figli li desiderava, forse no, non lo so. Avendoli avuti, su tutto mise il dovere di averne cura, sempre, comunque, a qualunque personale costo.
E trovo che questo dovere abbia una nobiltà che nessun desiderio di un figlio potrà mai avere.
Mia madre non ha mai avuto una casa che potesse dire propria, un letto che potesse dire suo, dei desideri che potesse soddisfare senza chiedere soldi ad altri, come il suo lavoro quotidiano non valesse che il pane e il tetto.
Eppure, aveva in sé quel germe dell’aspirazione alla libertà che le faceva vedere in me la sua occasione.
Mi contestava, sia chiaro, e mi rampognava per mille cose.
Ma al dunque, sapeva che occupando io spazi di libertà per me, in qualche modo riscattavo il suo desiderio di averne di propri.
Ma essere donne libere dal giogo del bisogno non è darsi un prezzo, un tot a pezzo affittato.
Macelleria sociale.
E’ anche questo, sì.
La vergognosa Camusso, in piazza qualche giorno fa con le famiglie arcobaleno (è la nostra rivoluzione colorata?), ha osato dire:
“Questa è una piazza che chiede di proseguire sui diritti civili straordinariamente connessi a quelli sociali e a quelli del lavoro. Quando c’è discriminazione dal punto di vista del riconoscimento civile, la ritroviamo anche nei luoghi di lavoro. Poi mi piacerebbe vivere in un paese del riconoscimento e delle diversità”.
Lei, ha osato dire questo. Donna che ha svenduto ogni diritto sul lavoro di migliaia di persone minacciando sfracelli che ritrattava pranzando ai tavoli dei Forum di Confindustria.
Se il progresso è la schiavitù volontaria degli omosessuali che si sposano (per amore, beninteso, e col preteso figlio grazie all’utero comprato nella macelleria sociale di mercato), il tornare indietro, nel tempo dei figli e del pane in forno in cambio di un tetto, inizia a sembrarmi la sola rivoluzione possibile.
Non sventolate sciocche mimose e tenete le mani lontane dal corpo delle donne.
Di tutte.
Anche da quello delle donne che vedono solo i soldi che avranno affittando vagina o utero (per me pari sono) e non il danno che fanno a se stesse e al mondo.
Soprattutto giù le mani dalle donne costrette ogni giorno a decidere se darla per poter mangiare o se morire di fame.
Poi penso: ma cos’avranno mai insegnato loro sull’essere donna, le madri di quelle che vedo oggi in piazza con la Camusso a dirsi d’accordo nella mercificazione arcobaleno del corpo degli altri chiamandolo “amore”?
Era meglio l’amore di Liala.
Nemmeno Harmony faceva i danni che oggi fanno le narrazioni futuristiche degli arcobaleno Lgtb, i cui desideri vorrebbero farsi diritti correndo come tir sui corpi dell‘odierna feroce miseria.
Psichica o economica che sia.
Buon 8 Marzo.