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DI PEPE ESCOBAR

asiatimes.com

SULLE STRADE DELLA PROVENZA

Citando Lenin: Che fare? Tornare a Bruxelles e a Berlino? Un incontro ravvicinato con quei tremendi del NATOstan del Nord, consumati dalla loro paranoia anti-russa e schiavizzati da quei mercenari del Pentagono? O forse fare un salto in Siria nel Erdogastan guerrafondaio?

Non è stato difficile decidere. La joie de vivre ha vinto. E così l’Occhio Itinerante ha chiamato Nick, il Figlio Itinerante in Catalogna e a bordo de La Piccolina vintage di Nick, una Peugeot dei favolosi anni ’80 con motore Citroen – abbiamo raggiunto la Provenza, primo settore meridionale del NATOstan. Occasione anche per stappare ottime bottiglie e gustare deliziosi piatti locali.

Consideratela pure un’indagine sommersa e per nulla nostalgica o paternalistica sul malessere economico delle nazioni del Club Med, sull’impoverimento della classe media Europea, sull’ascesa dell’estrema destra e sulle oscure prospettive di una NATO economica. Tutto questo nella cornice di un simpatico incontro di famiglia di grande qualità, con entrambi i nostri laptop e cellulari spenti.

MA DIO LO BEVE IL BANDOL ?

Siamo stati fortunati a trovarci sul posto durante la settimana inaugurale della Fondazione Van Gogh ad Arles – con quel suo magnifico portale con le iscrizioni firmate dallo stesso artista; il suo giardino pensile di specchi colorati; e una mostra sull’evoluzione del colore vissuta dal maestro durante i frenetici quindici mesi vissuti ad Arles. Pochi minuti di contemplazione della Casa Gialla (1888) sono un invito all’immortalità, la rivelazione di cosa sia realmente l’eccezionalità.

Non sono mancate notevoli illuminazioni estetiche, dal Castello di Baux al tramonto sorseggiando una Perrier alla menta su una terrazza che dominava la campagna intorno alla collina di Gordes; a una notte stellata all’aperto al Colorado Provencal gustando lo Chévre de Banon, quell’eccezionale formaggio di capra avvolto in foglie di castagno.
E poi la traversata verso il Grand Canyon del Verdon – il più americano dei canyon europei, circondato da nord a sud, con un trekking lungo l’antico sentiero romano e l’incontro ravvicinato con la frastagliata, caotica, spettrale sagoma delle Cadiéres (le sedie, in provenzale) – la risposta del Verdon alle Torri Gemelle. Come se degli eccentrici provenzali scimmiottassero Osama e Al Zawahiri che fanno trekking sull’ Hindu Kush.

Mentre scendevamo dal Col de Leques, il proprietario di un caffè di montagna ci ha detto che aveva appena aperto per la stagione, che si protrae fino a metà settembre. Ma qui, all’inizio di aprile, il Verdon era ancora immerso in un solenne e glorioso silenzio, fatta eccezione per qualche occasionale biker spericolato.

Poi – come nel Pierrot il Pazzo di Godard – ci dirigiamo spediti verso il Mediterraneo. Prima tappa a Toulon, controllata dal Front National, così composta e ordinata, così timorosa persino degli skater locali, pur mettendo in bella mostra un’enorme nave da carico della NATO.

E’ impossibile avere un piatto di cozze al porto a metà pomeriggio, ma al ristorante cinese Ah-Ah ci sono vagonate di cibo del Verdon a ogni ora del giorno, dimostrazione lampante di come la spinta imprenditoriale asiatica abbia stracciato in ogni senso la povera Europa.

Poi un platonico pasto alla veneranda Auberge Du Port Bandol – con un’orgiastica bouillabaisse accompagnata dal miglior vino locale, il Bastide de la Ciselette e il Domaine de Terrebrune. Tra l’altro bisogna dire che nessuno di questi meravigliosi liquidi infedeli sia ancora stato toccato dalla globalizzazione.

Impossibile trovare un millimetro di spazio libero sulla costa intorno a Marsiglia, risultato di un ben noto dossier – la distruzione ambientale del sud del NATOstan. Siamo comunque riusciti a trovare un boschetto relativamente appartato adatto allo stato d’animo di Rimbaud (la mer, la mer, ricomincia sempre…).

Poi giunse il momento temuto arrivando a Sanary – sur – Mer, dove Huxley scrisse Brave New World nella sua Villa Huley e Thomas Mann tenne banco a Chemin de la Colline. Brecht, infatti, avrebbe ben potuto cantare canzoni anti-hitleriane sopra un tavolo al Le Nautique; così, dopo aver discusso con Nick sui meriti comparitivi delle barche a vela Beneteau, ho finalmente deciso di smettere con tutto quel brechtismo e mi sono diretto verso la vicina edicola per comprare i giornali, ordinare un cappuccino e accendere il cellulare.

Dire che non mi sono impressionato è un eufemismo. Una settimana via dalla rete ed eccola lì la solita sarabanda di paranoia frenetica e di eccezionalismo monocromatico. Eppure, eccola lì, come una perla in fondo turchese del Mediterraneo, sepolta nella info-valanga: la notizia più importante della settimana, forse dell’anno, forse del decennio. Il CEO di Gazprom, Alexey Miller, si era incontrato mercoledì a Pechino con Zhou Jiping, presidente della China National Petroleum Corporation. Si accingevano a firmare “al più presto” un contratto trentennale per la fornitura alla Cina del gas naturale siberiano. Probabilmente il 20 maggio, quando Putin va a Pechino.

Ora, questo è l’articolo con la “A” maiuscola: Pipelineistan incontra il partenariato strategico Russia-Cina, come consolidato nei BRICS e la Shanghai Cooperation Organization, con l’allettante prospettiva di prezzi e pagamenti tali da bypassare il petrodollaro, altrimenti nota come opzione “termonucleare”. L’Ucraina, rispetto a questo, non è che un evento secondario.

BENVENUTI ALLA CORSA DEI TOPI DI BRUXELLES

E’ stato sulla strada che dal Mediterraneo riporta ad Arles via Aix-en-Provence che la cosa mi ha colpito, come un drone di Obama. L’intero viaggio girava intorno proprio a quel sublime formaggio di capra avvolto in foglie di castagno di Banon, a quelle bottiglie di vino “petali di rose”; e a Bandol, dove produttori artigianali e gente di montagna non nascondevano le loro preoccupazioni riguardo ai loro prodotti nei mercati dei paesi e nei loro castelli per niente pretenziosi. Tutto girava intorno alla NATO economica.

L’accordo di libero scambio trans-atlantico è una priorità assoluta dell’amministrazione Obama. Le tariffe sono già un elemento trascurabile per la maggior parte dei prodotti tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Quindi, un accordo è essenzialmente una presa da parte dei Grandi Produttori Agroalimentari americani sui mercati del continente (con l’invasione di prodotti geneticamente modificati), così come per i colossi dell’informazione americani. Consideriamolo come una vera e propria APPENDICE al TPP (Trans-Pacific Partnership) – che in soldoni significa un insediamento americano nell’economia giapponese già fortemente protetta.

Il NATOstan del Sud non offre scorci di un paradiso post-storico europeo – un roseto kantiano protetto da un brutto mondo Hobbesiano da un “benevola” Europa (la nuova denominazione coniata da – chi se non altri? – un neo-conservatore del tipo Robert Kagan). Eppure l’emozione principale che avvolge il NATOstan meridionale, come ho potuto rilevare dall’inizio del 2014 e successivamente in Italia, Spagna e Francia, è la paura. Paura dell’altro – come per i poveri verso gli intrusi, siano essi neri o marroni; paura di una disoccupazione perenne; paura per la fine dei privilegi della classe media dati per scontato fino a poco fa; e la paura della NATO economica – poiché nessun cittadino europeo medio avrà mai fiducia in quelle orde di euroburocrati seduti a Bruxelles.

Per nove mesi, la Commissione europea ha negoziato un cosiddetto partenariato commerciale e di investimenti. La “trasparenza” che circonda quello che sarà il più grande accordo di libero scambio di tutti i tempi, comprendente più di 800 milioni di consumatori, farebbe vergognare Jong-Eun, re della Corea del Nord.

Tutti i colloqui segreti ruotano intorno agli eufemistici “ostacoli non-tariffari” – quella ragnatela di norme etiche, ambientali, giuridiche e sanitarie a tutela dei consumatori – e non alle grandi multinazionali. D’altro canto, ciò a cui ambiscono i colossi commerciali, è quel “gratis-per-tutti” molto redditizio che implica, ad esempio, l’uso indiscriminato di ractopamina, un booster per le carni di maiale che in Russia e in Cina è anche fuorilegge.

Allora, perché l’amministrazione Obama si è improvvisamente così innamorata di un accordo di libero scambio con l’Europa? Perché il Big Business Statunitense ha finalmente scoperto che il Sacro Graal del “pivoting” economico verso la Cina non sarà poi così sacro, dopo tutto; tutto accadrà secondo le condizioni dettate dalla Cina, come sta avvenendo per le grandi marche cinesi che progressivamente controllano una parte sempre più vasta dell’intero mercato cinese.
E quindi il PIANO B, un mercato transatlantico che copre il 40% del commercio internazionale secondo le solite regole del Big Business. Obama ha più volte sottolineato che l’accordo creerà “milioni di posti di lavoro americani ben retribuiti”. Questo è molto discutibile, per non dire altro. Ma non c’èdubbio sulle intenzioni americane: Obama si è impegnato personalmente.

Per quanto riguarda gli europei, è come un gruppo di topi che scorrazzano in un casinò segreto. Per quanto riguarda poi la National Security Agency, essa controlla ogni telefonata di Bruxelles e l’Europeo medio resta all’oscuro delle batoste che lo attendono nel futuro. Il dibattito pubblico sull’Accordo è a tutti gli effetti “verboten” per la società civile europea.
I negoziatori della Commissione europea s’incontrano solo con i lobbisti e con gli amministratori delegati delle grandi multinazionali. In caso di “volatilità dei prezzi”, a lungo andare, ne faranno le spese gli agricoltori europei e non quelli americani, ora coperti dal nuovo Farm Bill. Nessuna meraviglia che il messaggio diretto e indiretto che ho ricevuto praticamente da chiunque abbia incontrato nelle campagne della Provenza è che “Bruxelles ci sta svendendo”; alla fine della corsa, quella che scomparirà, a colpi di tagli e controtagli, sarà l’agricoltura di qualità, centinaia di agricoltori con alle spalle secoli di esperienza e perizia nel settore.

E quindi, lunga vita agli ormoni, agli antibiotici, alla clorina e agli OGM. E via con il taglio delle teste in agricoltura! Le minacce della NATO verso la Russia non sono che una tattica mirata a distogliere l’attenzione internazionale da questo.
Mentre “La Piccolina” lasciava le terre di Provenza, con a bordo il suo pregevole carico di sublimi prodotti locali, non potevo che condividere il pensiero della gente locale che guarda al futuro della NATO economica con così tanta apprensione Vangoghiana.

Pepe Escobar è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007), Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge (Nimble Books, 2007), e di Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). 

Lo si può raggiungere all’indirizzo: [email protected]

Fonte: www.atimes.com

Link: http://www.atimes.com/atimes/World/WOR-03-150414.html

16.05.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

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