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DI ALBERTO PRUNETTI
Carmilla on line

[Pubblico queste righe con un certo ritardo rispetto alla loro stesura. Il lettore, pensando ai pogrom in corso contro i rom, non potrà non rendersi conto che la realtà si deteriora con più velocità della critica che cerca di descriverla. Mentre scriviamo di razzismo mimetizzato e di lessico dell’esclusione, la gente si attacca ai microfoni dei telegiornali vantandosi di aver lanciato una molotov in un campo rom. Non oso pensare di peggio per paura che accada.]
A.P.

“Non sono razzista, ma…” Quanti discorsi balordi partono da questa premessa? Quanti pregiudizi, quanti stereotipi, quanta biliosa aggressività muove da questo assunto? Nient’altro che una strategia retorica? Rendere esplicito il pregiudizio per giocare d’anticipo su un’eventuale contestazione e poi sparare giù il carico di banalità, che è banale proprio nel senso che è condiviso dal senso comune, è amplificato dai media, è asserito da presunti esperti delle dinamiche sociali?
Ogni giorno il ritornello sale d’un ottava. “I rumeni vengono qui per delinquere”, “le ucraine sono brave a fare le badanti ma poi si fregano l’eredità”, “i colombiani fanno i corrieri della cocaina”… un carico di generalizzazioni che si affaccia da titoli di giornali, da lanci televisivi di prima serata, supportati da esperti in sondaggi che gabellano quattro domande preformulate come un’operazione di statistica.

A seguito, “Rom, romeni, immigrati “clandestini”: Berlusconi e la teoria del capro espiatorio” (Carlo Gambescia) e “Diceva di chiamarsi Maria…” (Kelebek)
La verità è che nessuno si dice razzista ma… Di fatto, argomenta Giuseppe Faso in un piccolo e brillante compendio del razzismo dissimulato (Lessico del razzismo democratico, Deriveapprodi, 2008), oggi si dice etnia o cultura, ma si intende razza. Si dice integrazione — parola terribile, di per sé — ma si pensa assimilazione. O, verrebbe da aggiungere, espulsione e annientamento.

Formalmente oggetto d’interdizione, il razzismo si insinua nel linguaggio, strutturando una grammatica dell’esclusione sociale che si basa su espedienti retorici estremamente diffusi. Faso illustra alcune di queste pratiche, come i neologismi (es.: badante), gli slittamenti semantici (es.: degrado), le denotazioni improprie (clandestino, alfabetizzazione, disperati), le connotazioni spregiative (vu comprà, marocchino, extracomunitario).

Pratiche più che lemmi, appunto, nel senso che le parole si fanno azioni e strutturano la realtà, la segmentano e circoscrivono le vite di chi quelle parole le usa o se le trova, suo malgrado, appiccicate addosso. Motore primo di tanta misera retorica è sicuramente il sistema dei mezzi di comunicazione.

Imbrogliando le carte, urlando continuamente al lupo, soffiando sul fuoco del rancore italiota, della paura tutta provinciale verso lo straniero, soffocando l’immagine di un paese composto da tante culture e costruendo una presunta identità nazionale assolutamente fittizia e sicuramente deplorevole, i media hanno innescato il detonatore del linciaggio. In buona compagnia. Alla chiamata alle armi non si sono presentati solo leghisti mannari e xenofobi ultradecorati. La sinistra non poteva rimanere indietro e Veltroni, dalle pagine di Repubblica, mostrava comprensione per un cittadino impaurito colto da sindrome razzista. Ultimi ma in corsa, come il cavallo avvantaggiato del palio, arrivarono i campioni del razzismo colto. Quello che costruisce il migrante in termini di alterità culturale. Quello che non si sente sicuro a uscire di casa. Quello che chiede la certezza della pena.

Quanto alle elezioni, non potevano che spingere l’acceleratore del conformismo più becero, alimentando il cortocircuito tra la chiacchiera da bar e i programmi televisivi del pomeriggio, con conseguenti esplosioni a catena di luoghi comuni riprodotti come profezie che si autorealizzzano. Così la balordaggine della casalinga di Voghera si vede giustificata dallo sproloquio dell’opinionista di turno, che a sua volta cita l’avvinazzato opinionista del bar sport all’angolo, sdoganando una bischerata come credenza di un campione rappresentativo. Quel che pensano gli italiani, insomma.

Il risultato di tutto questo, dai giorni successivi alla morte della signora Reggiani fino alle elezioni, è stata una situazione pesante e surreale, che produce migranti più impauriti e ricattabili e italioti sempre più spaventati e rancorosi, mentre le campane dei media tuonano a morto e le pratiche di libertà si restringono per tutti, in termini di mobilità, repressione, sanzioni. La scusa è sempre quella: l’emergenza. Un elemento, quello emergenziale, che sembra paradossalmente strutturale alla realtà italiana. Così l’emergenza migrazione si intreccia con quella della spazzatura, con quella degli stupri, del degrado, del bullismo, del terrorismo, delle stragi del sabato sera, dei lavavetri, dell’accattonaggio… e chi più ne ha più ne metta. L’importante è creare un polverone e sbrigarsi a buttar giù una legge. Quanto prima tanto meglio. Quanto peggio, in termini di politiche sociali, tanto meglio in termini di politiche repressive. Risultati che non possono che essere devastanti, e lo dimostra il caso delle migrazioni, in cui politiche bieche creano e alimentano quei fenomeni di clandestinità che pretenderebbero di combattere. Che importa se una pessima legge creerà problemi sociali? Tanto meglio. Sarà l’occasione per smuovere le acque, fare propaganda, accusare gli avversari politici di lassismo, per poi fare un’altra legge, peggiore della precedente. E via di questo passo, in un gioco vizioso che pretende di governare la realtà e che produce sempre più alienazione, paura e marginalità. Miseria per gli esclusi e paura per gli inclusi, insomma. O viceversa.

Fino a oggi. Il dado ormai è tratto e i veleni carichi di rancore in fermentazione non ci metteranno molto a incendiarsi, alimentando l’ennesima caccia allo straniero, al diverso, a quello che non appartiene alla tribù. Aspettando nuove leggi razziali e l’allungamento dei tempi di detenzione nei campi di concentramento dei migranti ci penseranno gli italiani, brava gente, a risolvere a modo loro le sfide del multiculturalismo. Almeno la pulizia etnica diventerà un dovere civico nel bel paese sommerso di spazzatura, con buona pace di sindaci e assessori che non potranno non complimentarsi con i cittadini, che in materia di lotta contro il degrado e tolleranza zero, sanno fare meglio e prima della polizia municipale.

Alberto Prunetti
Fonte: www.carmillaonline.com
Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002645.html#002645
15.05.08

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