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DI RICHARD HEINBERG

richardheinberg.com

Facciamo festa! Evviva! È ufficiale: noi umani siamo entrati in una nuova era geologica, l’Antropocene. Chi avrebbe mai detto che solo una specie tra i milioni esistenti avrebbe raggiunto un simile traguardo?

Ma aspettiamo prima di lasciarci prendere da facili entusiasmi. Dopotutto l’Antropocene potrebbe rappresentare una prospettiva assai negativa. Il motivo per cui la nostra epoca si è guadagnata questo appellativo è che i geologi del futuro saranno in grado di individuare una sostanziale discontinuità negli strati delle rocce che documentano quanto esigua sia, se paragonata al plurimiliardario cammino della Terra, la nostra permanenza in questo pianeta.

Questa discontinuità è attribuibile proprio alla presenza dell’uomo. Pensate ai cambiamenti climatici, all’acidificazione degli oceani e all’estinzione di massa.

Benvenuti nell’Antropocene: un mondo la cui vita degli oceani riesce a malapena ad identificarsi con organismi multicellulari che non siano delle meduse, i cui continenti potrebbero essere dominati da poche specie indifferenziate ed in grado di insediarsi in nicchie provvisorie mentre gli habitat naturali vanno degradando (viene da pensare ai topi, ai corvi e agli scarafaggi). Noi umani abbiamo inaugurato l’Antropocene dandogli un nome che si ispira alla nostra razza, ma l’ironia della sorte è che forse non vivremo abbastanza per vederlo. La catena di cause ed effetti che abbiamo innescato potrebbe andare avanti per milioni di anni, ma stabilire se ci saranno ancora antropologi in vita per spiegarla e monitorarla è un terno al lotto.

Per sicurezza alcuni celebrano l’Antropocene nell’assoluta convinzione che siamo solo all’inizio, che gli esseri umani lasceranno la loro impronta in questa epoca in maniera consapevole, intelligente e permanente. Mark Lynas, autore di “The God Species”, sostiene che l’Antropocene ci costringerà a pensare e ad agire diversamente rispetto a quanto abbiamo fatto finora, ma anche che la popolazione, il consumo e l’economia potrebbero continuare ad aumentare nonostante i cambiamenti del sistema Terra. Stewart Brand afferma che non potremo più scegliere se ricostruire o meno il mondo naturale ex novo; stando a ciò che dice, “l’unica opzione è di terraformare. Questo è l’unico progetto ecologico del secolo”. Nel loro libro “Love Your Monsters: Postenvironmental ism and the Anthropocene” Michael Schellengberger e Ted Nordhaus del Breakthrough Institute sostengono che sia possibile pensare ad un pianeta in cui 10 miliardi di esseri umani hanno uno standard di vita che permette loro di coltivare i propri sogni, a patto che tutti considerino sulla necessità di accogliere concetti come quello di crescita, modernizzazione ed innovazione tecnologica. Allo stesso modo Emma Marris (che ammette di non non avere quasi mai provato a vivere a contatto con la natura selvaggia) in “Rambunctious Garden: Saving Nature in a Post-Wild World” afferma che la nostra condizione primigenia è perduta per sempre, che dovremmo abituarci ad un’idea di ambiente come qualcosa di costruito dall’uomo.

E questa, potenzialmente, è una buona cosa. L’Antropocene rappresenta il culmine della follia umana o il raggiungimento della divinità? Sarà un’epoca svuotata, post apocalittica, o al contrario un’era ben orchestrata da sapienti tecnologi dell’ambiente? Al momento ferve il dibattito su quelli che dovrebbero essere i limiti dell’intervento umano. Il motivo per cui la discussione sta assumendo proporzioni piuttosto ampie è che…sta tutto a noi! La fattibilità della versione dell’Antropocene modello “siamo noi a comandare e ci piace” – quella che chiameremo il Tecno-Antropocene” – molto probabilmente è legata alla prospettiva del potere nucleare. Per mantenere il ritmo di crescita della civiltà industriale serve una fonte di energia concentrata, affidabile, e oramai sono tutti concordi sul fatto che (a prescindere dalla questione del picco del petrolio) i combustibili fossili non dureranno per sempre. L’energia solare e quella eolica rappresentano sicuramente fonti meno dannose, ma sono scarse e cicliche.

Tra le risorse non fossili attualmente utilizzabili solo il nucleare è sempre disponibile e, verosimilmente, suscettibile di crescita. Non a caso i maggiori esponenti della teoria del Tecno-Antropocene, come Mark Lynas, Stewart Brand e Michael Schellengberger, sono anche i più fervidi sostenitori del nucleare. Ma le prospettive legate al suo utilizzo non sono certo rosee. Le devastanti fusioni di Fukushima nel 2011 hanno terrorizzato i cittadini ed i governi di tutto il mondo. Il Giappone dovrà pagare le conseguenze delle radiazioni sulla salute per decenni, se non secoli, e la costa occidentale degli Stati Uniti si prepara a fronteggiare l’afflusso di masse d’acqua e di detriti radioattivi. Non c’è modo di arginare le scorie neanche quando i reattori lavorano in regime di efficienza. La costruzione di nuovi impianti è molto dispendiosa ed i budget vengono puntualmente sforati in maniera considerevole. La scorta di uranio è limitata ed è probabile che, anche se non sorgeranno nuove centrali, a metà del secolo secolo si andrà incontro ad una situazione di carestia. E inoltre gli impianti nucleari sono legati alla proliferazione delle armi nucleari.

Nel 2012 “The Economist” ha dedicato un numero speciale ad un dossier sull’energia nucleare, significativamente intitolato “Il nucleare: un sogno infranto”. La conclusione: l’industria nucleare potrebbe avere un’espansione solo in poche nazioni, in modo particolare la Cina. Per il resto non è che un aiuto alla sopravvivenza.

Ciò non intimorisce minimamente i sostenitori del Tecno-Antropocene, convinti che le nuove tecnologie permetteranno l’adempimento della promessa originaria del nucleare. Il pezzo forte è il reattore veloce integrale (IFR).

A differenza dei reattori ad acqua leggera (che costituiscono la maggior parte delle centrali nucleari attive oggi) gli IFR utilizzerebbero il sodio come refrigerante. La reazione degli IFR è caratterizzata dalla velocità dei neutroni e, soprattutto, dal fatto di consumare combustibile radioattivo, con una significativa riduzione degli sprechi. Gli IFR, infatti, potrebbero utilizzare le stesse scorie radioattive come carburante.

A quanto pare, inoltre, sarebbero molto più sicuri ed abolirebbero il rischio di una proliferazione di armi. Tutte queste argomentazioni sono state sottolineate con forza nel documentario “Pandora’s Promise”, prodotto e diretto da Robert Stone. Ciò che emerge è l’idea secondo cui gli IFR sono il migliore strumento di cui disponiamo per cercare di ridurre il riscaldamento globale prodotto dall’antropocene. Ma qualche burocrate mal consigliato ha cercato, in maniera neanche troppo velata, di sabotarne lo sviluppo. Secondo alcuni, infatti, la pellicola contiene delle affermazioni troppo pompose.

La critica rivolta è quella di non considerare l’alta problematicità connessa all’utilizzo dei reattori veloci. Le versioni precedenti del reattore autofertilizzante (di cui gli IFR sono un modello) sono state dei fallimenti commerciali e dei disastri dal punto di vista della sicurezza. I sostenitori del reattore veloce integrale non tengono minimamente conto dei costi esorbitanti connessi alla sua produzione e successiva attivazione, e allo stesso modo sembrano voler ignorare i rischi continui di proliferazione.

Teoricamente l’IFR non elimina le scorie radioattive, le “trasmuta”. In ogni caso ci vorranno decenni prima che questa tecnologia raggiunga il suo pieno sviluppo. Al momento è ancora alto il pericolo di incendi ed esplosioni causati dall’utilizzo del sodio liquido come refrigerante. David Biello in un articolo su “Scientific America” conclude che “ad oggi i reattori a neutroni veloci hanno consumato sei decenni e 100 miliardi di dollari a livello globale, ma non sono altro che una pia illusione”. Quand’anche i sostenitori dei reattori IFR fossero nel giusto, esiste comunque una mastodontica ragione pratica a causa della quale questi ultimi non potranno assicurare l’energia necessaria all’Antropocene: ovvero che noi, presumibilmente, non faremo in tempo a coglierne i benefici e ad apprezzarne la differenza rispetto al passato.

Le sfide del cambiamento climatico e l’esaurimento del combustibile fossile ci impongono di agire ora, non tra qualche decina di anni. Ipotizzando la disponibilità del capitale e la possibilità, in futuro, di perfezionare le nuove tecnologie, gli IFR potrebbero certo rivelarsi molto vantaggiosi rispetto agli attuali reattori ad acqua leggera – ma solo molti anni di esperienza potrebbero darcene la certezza. Purtroppo non possiamo permetterci il lusso di spendere all’infinito, né di passare decenni a correggere gli errori nel tentativo di portare alla perfezione una tecnica complessa e ancora da collaudare.

Ecco il verdetto di “The Economist”: “L’energia nucleare continuerà ad essere una creatura della politica, non dell’economia. Ogni suo sviluppo sarà funzionale ad una precisa volontà politica o conseguente all’intento di eliminare qualsiasi forma di competizione all’energia elettrica… Il nucleare non sparirà, ma il suo ruolo potrebbe non essere mai altro che marginale”.

A rischio di risultare ridondante ribadirò il punto: un’energia abbondante e a basso costo è il prerequisito al Tecno-Antropocene. L’unico modo che abbiamo per affrontare la sfida dell’esaurimento delle risorse e della sovrappopolazione è sfruttare più energia. A corto di acqua dolce? Costruiamo impianti di desalinizzazione, che utilizzano moltissima energia. Il terreno si impoverisce a causa dello sfruttamento intensivo per sfamare 10 miliardi di persone? Creiamo milioni di serre idroponiche – che necessitano di parecchia energia per essere costruite e messe in funzione. Estraendo i metalli situati in profondità ed affinando quelli grezzi degli strati superficiali aumenta il bisogno di energia. Questi guadagni di efficienza energetica saranno di grande aiuto, ma non basteranno comunque a soddisfare le esigenze di una popolazione che cresce ed il cui consumo pro capite è destinato ad aumentare (com’è accaduto in maniera consistente negli ultimi decenni).

Da qualunque punto si esamini la questione è evidente che se si vuole mantenere l’attuale ritmo di crescita della società industriale c’è bisogno di energia, e in tempi brevi: le nostre fonti dovranno adeguarsi a degli standard ben definiti – come ad esempio quello di non produrre carbonio e, al tempo stesso, di essere economicamente sostenibili.

Questi criteri possono essere riassunti in quattro parole: quantità, qualità, prezzo e tempo. La fusione nucleare può in teoria fornire enormi quantità di energia, ma con lentezza. Lo stesso vale per la fusione fredda, anche se – ed è un grande “se” – bisogna valutarne la reale funzionalità e la sua applicabilità su scala industriale. Per quanto riguarda i combustibili biologici è più l’energia che si spreca per fabbricarli che quella che riescono a produrre (il che rappresenta un problema non indifferente dal punto di vista del rapporto qualità prezzo). L’energia ricavata dalle onde oceaniche può soddisfare il fabbisogno delle città costiere, ma ancora una volta siamo di fronte ad una risorsa la cui validità è ancora tutta da verificare.

Il carbone e lo stoccaggio dell’anidride carbonica non sono economicamente competitivi con altre fonti di energia elettrica. L’eolico ed il fotovoltaico stanno diventando sempre più convenienti, ma sono discontinui e vanno a minare i modelli di business delle imprese di servizi commerciali. La lista delle potenziali fonti di energia è lunga, ma nessuna di queste ha le carte in regola per diventare nel giro di poco tempo parte integrante del sistema e per garantire al circuito economico gli approvvigionamenti necessari (sia in termini di quantità che di prezzo) a sostenere il suo ritmo di crescita. Ciò significa che quasi sicuramente la questione energetica condizionerà non poco il futuro prossimo venturo, e che dovremo ancora dipendere da un ecosistema oramai fuori controllo -invece che dargli un assetto che sia a nostro uso e consumo. Come specie siamo stati in grado di esercitare un’influenza incredibile sull’ambiente, tant’è che gli ecosistemi sono diventati più semplici da vivere: ma solo per noi, non per altri esseri viventi.

La nostra strategia principale è stata l’agricoltura, in modo particolare quella concentrata su pochi raccolti di grano all’anno. Così facendo ci siamo accaparrati qualcosa come il 50 percento della produttività del pianeta. Il che, ovviamente, ha avuto un impatto travolgente sulle piante spontanee e sugli animali. La perdita di biodiversità che ne consegue rischia di compromettere il futuro della razza umana, che comunque ancora dipende da una serie di processi messi in atto dall’ecosistema (basta pensare all’impollinazione e alla rigenerazione dell’ossigeno): processi che non possiamo organizzare né controllare, che non hanno prezzo. Il fulcro del problema sta nel fatto che gli effetti collaterali della nostra euforia da crescita smodata stanno diventando sempre più gravi.

Il crash tra i sistemi di supporto che abbiamo creato (tra i quali l’alimentazione, i trasporti, la finanza) e quelli imposti dalla natura (e dai quali ancora dipendiamo) potrebbe dare il via ad una crisi senza precedenti. Se è vero che siamo arrivati ad una flessione dei profitti e che i piani per gestire l’aumento della popolazione (e, di conseguenza, quello dei consumi) ed il controllo ambientale non sono più sufficienti, allora vuol dire che bisogna cambiare direzione. Se avessimo un po’ di buon senso la smetteremmo di perdere tempo nel tentativo di condizionare l’ecosistema attraverso metodi privi di fondamento (e probabilmente anche di fattibilità in termini economici) e ci limiteremmo a migliorare l’impatto ambientale, magari controllando la crescita demografica ed energetica.

Se non mettiamo un freno a questa situazione sarà la natura a farlo per noi, ed in termini non certo gradevoli (carestie, epidemie e magari anche guerre). Dobbiamo smetterla di crogiolarci nell’abbondanza continuando ad attingere da risorse che, di questo passo, rischiano di diventare inservibili. I governi non sono in grado di organizzare una ritirata nella guerra contro la natura perchè sono sistematicamente ancorati al concetto di crescita economica. Ma esistono altre strade. Forse potrebbero essere i cittadini stessi e le comunità ad inaugurarle.

Già negli anni ’70, quando si era cominciato a sentir parlare di crisi energetiche ed erano nati i primi movimenti ambientalisti, tra i pensatori ecologisti cominciava a circolare la domanda: “Quali potrebbero essere i metodi più rigeneranti dal punto di vista biologico e al tempo stesso meno dannosi per andare incontro al fabbisogno umano?” .

La risposta è arrivata da due di loro, gli australiani David Holmgren e Bill Mollison, attraverso il sistema della “Permacoltura”. Stando a quanto afferma Mollison, “la permacoltura è una filosofia volta a lavorare con la natura, non contro di essa; è basata su un’osservazione attenta, non su un accanimento continuo e senza riguardo. Parte da un’indagine costante e pensata su piante e animali nel loro complesso, non trattandoli come se fossero organismi isolati e a sé stanti”.

Oggi sono in migliaia in tutto il mondo a praticarla e spesso non mancano offerte vantaggiose sui corsi di design in permacoltura. Altri ecologisti non mirano a creare un sistema onnicomprensivo, ma si impegnano nella ricerca di strade che, poco alla volta, possano condurre ad una produzione di cibo più sostenibile – come ad esempio la consociazione, la pacciamatura ed il compostaggio.

Un ambizioso agronomo, Wes Jackson del Land Institute di Salina Kansas, ha trascorso gli ultimi quarant’anni coltivando raccolti di grano perenne (e sottolinea il fatto che le attuali colture a rotazione attuale sono le prime responsabili dell’erosione di enormi quantità di suolo – parliamo di qualcosa come 25 miliardi di tonnellate l’anno). Nel frattempo gli sforzi delle varie comunità di resilienza si sono tradotti, in tutto il mondo, in una serie di paesi e comunità – comprese le “Transition Initiatives” – capaci di trovare la loro spinta all’azione in un modello organizzativo che parte dal basso, flessibile e accattivante al tempo stesso, basato sull’idea che il futuro sarebbe migliore senza l’impiego di combustibili fossili.

Il Population Media Center si sta dando da fare per evitare che miliardi di esseri umani, specie nei paesi ad alto tasso di natalità – che in genere sono anche i più poveri – , vengano esposti alla visione di soap operas aventi come protagoniste delle figure femminili forti, capaci di affrontare con successo qualsiasi tipo di problema relativo alla gestione della famiglia.

Questa strategia si è rivelata estremamente efficacie sia dal punto di vista economico che da quello “umano”, contribuendo in maniera decisiva ad una flessione delle nascite. Cos’altro si può fare? Sostituire i combustibili fossili con il lavoro fisico. Localizzare i sistemi alimentari. Catturare il carbone atmosferico dal suolo e dalla biomassa. Ripiantare le foreste e ripristinare gli ecosistemi. Riciclare e riutilizzare. Fabbricare beni capaci di durare. Ripensare all’economia per soddisfare l’uomo e regalargli la prospettiva di una crescita senza fine. In tutto il mondo ci sono organizzazioni che lavorano per raggiungere questi obiettivi, il più delle volte senza il benchè minimo appoggio da parte dei governi. Messi insieme, potrebbero condurci ad un Antropocene molto diverso. Poteremmo chiamarlo l’Antropocene Verde.

Il Tecno-Antropocene ha un punto debole: l’energia (i limiti del nucleare). Ma anche l’Antropocene Verde ne ha uno: la natura umana. Non è facile convincere le persone a consumare e a riprodursi di meno. Non che gli esseri umani siano particolarmente avidi o invadenti, semplicemente tutti gli organismi viventi hanno come istinto primario quello di accrescere la propria specie e la quantità di energia da utilizzare a livello collettivo. Provate ad inoculare una colonia di batteri in un ambiente consono alla loro crescita – tipo una capsula di Petri – e guardate cosa accade. Colibrì, topi, leopardi, pesci remo, sequoie o giraffe: il principio non cambia.

Ogni razza massimizza la propria popolazione ed il dispendio energetico nei limiti concessi dalla natura. Lo studioso di ecologia dei sistemi Howard T. Odum lo ha chiamato Principio della Massima Potenza: in natura “si sviluppano e sono dominanti i sistemi in grado di massimizzare gli introiti di potenza, la trasformazione di energia e tutte le azioni che possono dare vigore alla produzione e all’efficienza”. Alla nostra innata propensione alla moltiplicazione ed al consumo si va a sommare l’incapacità di fare sacrifici oggi per risparmiare domani. Siamo geneticamente programmati per reagire a ciò che ci minaccia nell’immediato, attraverso risposte del tipo “o fai o vai” – o combatti o scappi. Al contrario non ci importa nulla dei pericoli che percepiamo come lontani. Non è che non pensiamo al futuro: semplicemente a livello inconscio applichiamo una sorta di sconto sul lasso di tempo che presumiamo ci rimanga prima di dover affrontare una minaccia reale.

A dire il vero cominciano a scorgersi alcuni cambiamenti nell’atteggiamento che i singoli hanno nei confronti del futuro. Una modesta fetta della popolazione sarebbe disposta ad apportare alcune modifiche ora per evitare che i rischi ricadano sulle generazioni a venire, ma la stragrande maggioranza non lo farebbe.

Se quella piccola percentuale potesse sovraintendere ai progetti collettivi per i prossimi anni avremmo certo meno di cui preoccuparci. Ma non non è facile pianificare una cosa del genere nelle democrazie attuali, in cui la gente, i politici, le corporations e persino le organizzazioni non-profit continuano a promettere guadagni facili ed immediati, spesso sotto forma di una più elevata crescita economica. Se nessuno di questi soggetti riesce a fornire una risposta pro-attiva a minacce a lungo termine – come quella del cambiamento climatico – non sarà certo l’azione di uno sparuto gruppo di comunità ad arginare i pericoli. Tanto pessimismo è legato al fatto che ci sono dei precedenti.

Le prime avvisaglie dell’attuale crisi ecologica hanno cominciato a vedersi fin dagli anni 70, ma ben poco è stato fatto per evitare che la situazione degenerasse. Mirare a centinaia, migliaia o addirittura milioni di programmi audaci ed ingegnosi per risparmiare, riciclare e riutilizzare è possibile, ma ciò nonostante la strada imboccata dalla civiltà industriale rimane sostanzialmente invariata.

Forse la natura umana, per com’è fatta, non permette al messaggio ecologista di scongiurare il disastro, ma ciò non significa che esso non abbia uno scopo. Per comprendere la sua utilità sul lungo periodo – che contrasta con la nostra tendenza a pensare a breve termine – bisogna fare un passo indietro ed osservare l’evoluzione del rapporto della società con l’ambiente. La crisi ecologica dell’Antropocene (caratterizzata da cambiamenti climatici fuori controllo e dall’acidificazione degli oceani, solo per citare qualche esempio) è un fenomeno recente, ma non è da ieri che l’uomo ha cominciato ad intervenire sull’ambiente modificandolo. Non per niente sono in corso delle dispute tra geologi in merito alla datazione precisa dell’inizio dell’Antropocene. Alcuni sostengono che abbia preso il via con la rivoluzione industriale, altri invece fanno coincidere la sua nascita con quella dell’agricoltura, 10.000 anni fa; altri ancora pensano che sia cominciato con la comparsa dell’uomo moderno migliaia di anni or sono. Gli esseri umani sono riusciti a plasmare il mondo grazie a due loro caratteristiche assai vantaggiose: la mano destra, che permette di costruire gli oggetti e di utilizzarli, ed il linguaggio, che aiuta a coordinare le azioni nello spazio e nel tempo. La concomitanza di questi due fattori ha segnato l’inizio della loro presa di controllo dell’ambiente. I paleoantropologi sono in grado di datare la comparsa dell’uomo in Europa, Asia, Australia, nelle isole del Pacifico e nelle Americhe valutando a quando risale l’estinzione dei grandi predatori. La lista degli animali che probabilmente sono stati debellati dagli umani è lunga, ed include diverse razze di elefanti e rinoceronti in Europa, vombati, canguri e lucertole in Australia, cavalli, mammut e cervi giganti nelle Americhe.

Per migliaia di anni gli esseri umani hanno deliberatamente rivoluzionato gli ecosistemi, soprattutto attraverso l’utilizzo del fuoco per cambiare fisionomia al paesaggio ed incrementare la produzione di cibo. Da questo punto di vista l’introduzione dell’agricoltura ha rappresentato una spinta incredibile, consentendo di ricavare quantità maggiori sfruttando meno terreno, e traducendosi poi in un aumento significativo della popolazione. Coltivare ha permesso di conservare, fornendo così la condizione di base per la nascita delle prime città, le fondamenta della civiltà. Proprio qui, in questi calderoni sociali urbani, hanno visto la luce la scrittura, il danaro e la matematica.

Se l’agricoltura ha rappresentato una spinta propulsiva per l’umanità, l’industrialismo a base di combustibili fossili le ha messo il turbo. Negli ultimi due secoli la popolazione ed il consumo di energia sono aumentati di più dell’ 800 percento. Il nostro impatto sulla biosfera ha più che tenuto il passo. L’industrializzazione dell’agricoltura ha ridotto la necessità di lavoro nei campi. Ciò ha consentito – o imposto – a molti di trasferirsi nelle città. La natura ha cominciato a diventare qualcosa di estraneo per le persone, sempre più alle prese con parole, immagini, simboli e strumenti. C’è un termine che esprime bene la tendenza dell’essere umano a considerare la biosfera – se non l’intero universo – come qualcosa che è completamente sotto il suo controllo: antropocentrismo. Sotto un certo punto di vista è una propensione del tutto comprensibile, o forse addirittura inevitabile.

Dopotutto ognuno è il centro del proprio universo, la star del suo film. Perchè la nostra specie nel suo complesso dovrebbe essere meno egocentrica? Altri animali sono ossessionati allo stesso modo dalla propria razza: a prescindere da chi da loro da mangiare, i cani sono fissati con gli altri cani. Tuttavia ci sono modi più o meno sani di vivere questo egocentrismo.

Quando l’attenzione dell’uomo nei confronti di se stesso raggiunge dei livelli palesemente distruttivi allora possiamo parlare di narcisismo. È possibile che un’intera specie sia troppo presa da se stessa? Sicuramente ai primitivi stava a cuore la propria sopravvivenza, ma al tempo stesso si consideravano parte di un ciclo vitale molto più ampio di cui erano direttamente responsabili.

Oggi invece si ragiona in maniera “pragmatica” (come direbbero gli economisti), si va avanti come degli schiacciasassi con le deforestazioni, il sovrasfruttamento ed il consumo.

La storia, tuttavia, non è stata solo un’escalation di arroganza e di presa di distanza dell’essere umano nei confronti della natura. Gli schiaffi non sono mancati: carestie, conflitti per le risorse, popolazioni floride decimate dalle malattie. Civiltà sorte e poi scomparse. Tracolli finanziari,realtà fiorenti trasformate in città fantasma. Probabilmente le batoste ecologiche sono state abbastanza frequenti nella fase pre-agricola, quando l’uomo dipendeva direttamente da ciò che la natura offriva in maniera spontanea.

Gli aborigeni australiani ed i nativi americani, che a causa delle loro tradizioni e dei loro rituali – incentrati sulla volontà di non far crescere in maniera smodata la popolazione, di proteggere i predatori e di guardare all’essere umano come anello di un ecosistema molto più ampio – sono considerati un chiaro esempio di ecologismo intuitivo, probabilmente non hanno fatto altro che mettere in pratica quanto imparato dalle brutte esperienze. Solo quando veniamo colpiti duramente ci rendiamo conto dell’importanza delle altre specie, mettiamo un freno alla nostra avidità e cominciamo a vivere relativamente in armonia con ciò che ci sta intorno. A questo punto sorge spontanea una domanda: i profeti dell’Antropocene Verde sono il nostro sistema di allarme? Sono lì per aiutarci a scampare la catastrofe o semplicemente sono avanti al punto di aderire ad un’idea di disastro ecologico prevedibile ma che ancora non ci minaccia da vicino?

Nel corso della storia sembra che l’uomo abbia vissuto sotto due regimi ben distinti: i periodi di boom e i tempi bui. Nella preistoria la fase boom era quella in cui una popolazione si insediava in un nuovo ambiente e lo scopriva abbondante di animali da preda. Le fasi di crescita erano legate anche allo sfruttamento di nuove fonti di energia (specialmente il carbone ed il petrolio) e all’espansione dei grandi centri abitati – da Uruk, Mohenjo-daro, Roma, Chang’an, Angkor Wat, Tenochtitlan, Venezia e Londra, fino a Miami e Dubai. L’atteggiamento tipico dei periodi di boom è sprezzante del rischio, sicuro di sé fino al punto di risultare arrogante, incurante delle spese e sperimentale.

Gli storici usano l’espressione “secoli bui” per riferirsi alle epoche in cui i centri urbani hanno perso la maggior parte della loro popolazione. Pensiamo all’Europa dal quinto al quindicesimo secolo, al collasso del vicino Oriente intorno al 1200 a.C. dopo la fine dell’Età del Bronzo, alla Cambogia tra il 1450 e il 1863, o all’America Centrale dopo la disfatta dei Maya nel 900. Nei tempi bui ci si comporta cautamente e si cercano di evitare i rischi.

Tutto ciò ha avuto delle ripercussioni significative su quelle tribù che hanno vissuto abbastanza in un luogo da averne sperimentato i limiti ambientali più e più volte. I popoli dei secoli bui non hanno eluso il Principio della Massima Potenza, semplicemente per necessità hanno dovuto imparare a perseguirlo attraverso strategie più modeste. Inutile dire che i tempi bui hanno il loro lato oscuro. In genere, specialmente all’inizio, le persone morivano a causa delle carestie, delle guerre o di altre forme di violenza. Epoche di oblio, in cui moltissime conquiste tecnologiche e culturali sono andate perdute – la scrittura, il danaro, la matematica, l’astronomia. Spariti. E tuttavia non sono stati secoli solo ed esclusivamente cupi.

In Europa grazie a nuovi metodi di coltivazione ed al miglioramento del mangime per buoi e cavalli il lavoro forzato dell’uomo si è rivelato economicamente svantaggioso, portando alla conseguente scomparsa quasi totale della schiavitù. Chi prima era uno schiavo ora poteva diventare un libero lavoratore o, alla peggio, un servo. Categoria, quest’ultima, alla quale non era permesso di spostarsi senza l’autorizzazione del proprio padrone, ma che di sicuro godeva di molta più libertà di azione. Contemporaneamente l’avvento della religione cristiana portò ad una proliferazione delle attività di beneficenza organizzate ed alle istituzioni ad esse preposte, tra cui ospizi, ospedali e ricoveri per i poveri.

Oggi, nella società industrializzata, quasi tutti hanno adottato il comportamento tipico dei periodi di boom, incitati da una pubblicità martellante e dalle spinte governative dei sostenitori della crescita economica. Dopotutto veniamo dalla fase di maggior sviluppo della storia, perchè non aspettarsi che le cose vadano avanti in questo modo? Le uniche debacle significative nella memoria culturale recente sono la Grande Depressione ed un paio di Guerre Mondiali, che se paragonate ai gravi ostacoli delle ere precedenti sono cose da nulla; inoltre si è trattato di episodi relativamente brevi, liquidati da tre o più generazioni. Per la maggior parte di noi un’attitudine da tempi bui risulta fuori luogo, inutile e pessimista. L’idea che qualcuno possa augurarsi la Grande Catastrofe è perversa. Solo un sociopatico può gioire al pensiero che l’umanità soffra in maniera massiva e diffusa. Al tempo stesso non possiamo far finta che due fatti interconnessi non esistano: il primo è che il nostro allegro proseguire sulla strada dei consumi e dell’aumento demografico sta uccidendo il pianeta; il secondo è che probabilmente non saremo noi a decidere quando finire la festa.

Scamperemo alla Grande Catastrofe o l’affronteremo? I primi segnali del fatto che qualcosa non va sono già visibili nelle anomalie climatiche, nel rincaro dei prezzi del petrolio e del cibo e nell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche. Purtroppo tutto fa pensare che verrà fatto il possibile per non interrompere i festeggiamenti. Persino di fronte ad un’inequivocabile situazione di contrazione economica la gente fa fatica a cambiare atteggiamento. Come se non bastasse bisogna considerare anche il fatto che il crollo non sarà improvviso e totale, ma graduale. Dopo ogni piccola crisi gli irriducibili del partito del boom diranno che il decollo tecno utopista è stato solo posticipato, che ci sarà una ripresa economica solo se diamo retta a questo o a quel leader, se aderiamo ad un programma politico piuttosto che a un altro. Ma se ogni agglomerato urbano comincia ad avvertire che il momento è critico e le tanto diffuse aspettative tecno utopistiche non si stanno realizzando, allora dovremo raccogliere i segnali di un profondo disagio psicologico.

Poco alla volta la gente si renderà conto – ancora una volta grazie alla dura esperienza – che la natura non è qui apposta per noi. Se una simile presa di coscienza dovrà passare attraverso un vissuto fatto di anomalie meteorologiche, epidemie o insufficienza di risorse, allora la gente sarà costretta – a malincuore – a prestare un po’ più di attenzione a ciò che accade fuori dalla nostra sfera di controllo. Come l’uomo sta cercando di plasmare il futuro della Terra, così la Terra plasmerà il futuro dell’uomo.

A fronte della velocità dei cambiamenti sia sociali che ambientali il messaggio lanciato dai Verdi non potrà che acquisire sempre più rilevanza. Forse non salveranno l’orso polare (anche se i loro programmi di protezione dell’ecosistema meritano il massimo supporto), ma potrebbero essere di aiuto nella fase di transizione verso un nuovo tipo di atteggiamento che tiene conto di tutte le specie. E che, salvaguardando ogni conquista scientifica e culturale, potrebbe portare a “tempi bui” meno cupi di quanto avrebbero potuto essere. Molto potrebbe dipendere dall’intensità e dal successo degli sforzi compiuti da quella piccola parte di popolazione che sembra essere recettiva nei confronti della filosofia Verde – parliamo di acquisire competenze, creare istituzioni, riuscire a comunicare la visione di una società post boom sostenibile, auspicabile.

In ultima istanza l’intuizione profonda dell’Antropocene è molto semplice: viviamo in un mondo abitato da milioni di specie interdipendenti insieme alle quali ci siamo evoluti. Se rompiamo questa catena lo facciamo a nostro rischio e pericolo. La storia della Terra è affascinante, ricca di particolari e continua a rivelarci qualcosa di sé. E non abbiamo tutto sotto controllo.

Richard Heinberg

Fonte: http://richardheinberg.com

Link: http://richardheinberg.com/museletter-264-the-anthropocene-its-not-all-about-us

9.05.2014

Traduzione per www.comedochisciotte.org a cura di DONAC78

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