“’Giustizia’, c’è scritto sul portone.
Ma chi ci crede è proprio un minchione”
Agli amici detenuti
“Noi a volte pensiamo ciò che loro fanno”: questa frase mi è come rimbombata in testa al mio ingresso in carcere come docente di lettere, nel settembre 2023. Al tempo, come quasi tutti “fuori”, dividevo moralisticamente l’universo umano in “buoni” e “cattivi”; questi ultimi stavano giustamente “dentro”. Il problema non era tanto come ci stessero, ma consisteva nella certezza che molti che stavano “fuori” dovessero essere ristretti. La mia esperienza in carcere mi ha aiutato a rivedere ciò che pensavo, immaginosamente, degli “altri” per eccellenza: i detenuti.
Scelsi Rebibbia come possibilità con cui conciliare l’insegnamento e, in qualche modo, una sorta di modesta “ricerca sul campo”, essendo da sempre interessato alle cosiddette “marginalità”, spesso più significative delle esperienze di vita ordinarie in quanto più “radicali”: in questo caso, si tratta di una marginalità paradossalmente prossima, immersa nel tessuto urbano e tuttavia del tutto misconosciuta, oltre che conoscibile solo tramite una “full immersion” (la mia, in realtà, pur essendo durata nove mesi, non ha ovviamente comportato l’ingresso nelle “sezioni”). Ho scoperto ciò che al tempo stesso è banale e “nascosto” agli occhi dell’”uomo della strada”: oltre quelle alte, minacciose mura, ci sono persone come noi; e c’è, veramente, un altro mondo, caratterizzato da sue regole e da una propria coerente, spietata logica interna, talora smussata da una certa solidarietà generale e da lampi di inaspettata umanità.
Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che in carcere c’è poca scuola: anche se il carcere è una scuola – e certamente “autentica”! -, sebbene non delle più “accoglienti”. Molte volte, la lezione si riduce ad un ascolto impotente dei problemi dei detenuti, che non sono né pochi né poco rilevanti (a volte, ritengo, strutturali per volontà istituzionale). Il docente, allora, si trasforma in psicologo, etnologo, assistente sociale, sociologo improvvisato; talora, dopo qualche mese di lezione, diviene addirittura amico cui confidare problemi e patemi.
Anzitutto, il carcere mi è parso da subito un luogo innaturale, sottilmente angoscioso, surreale (ma non irreale); di più, un prodotto di un occhio inflessibile, che tutto controlla e sorveglia: in ultima analisi, una sorta di proiezione moralistico-manichea della Weltanschauung capitalistica. Il penitenziario come sistema è un incubo borghese, razionalista, che riproduce in vitro la dialettica servo-padrone. Il carcere è si un grande business, ma, ancor di più, è una struttura simbolica di potere, ove il “padrone” non è banalmente il carceriere – “prigioniero che imprigiona prigionieri”[1], come le gabbie più grandi contengono altre gabbie, più piccole -, ma la burocrazia senza volto né nome: che avrebbe certamente mandato all’inferno, razionalmente e legalmente, il buon ladrone.
Il carcere, che mette a nudo il prigioniero (talora anche fisicamente!) alienandolo in un io che non esiste[2], costituisce quindi la proiezione pubblica – al tempo stesso patente ma invisibile, quasi impensabile, dall’esterno — dell’universo ideologico borghese (privato, o legalizzato); esso ne esplicita la dimensione “arcaica”, primitiva e “sospesa”, come “ibernata”[3] nel tempo (e nello spazio): vi è quindi un rapporto di somiglianza tra carcere e mondo esterno[4], che restano tuttavia universi non comunicanti per necessità “istituzionale”[5]. D’altra parte, in entrambi i casi l’atomizzazione costituisce la condizione necessaria per la reificazione: solo se si è soli, privi di relazioni “strutturate”, si può essere ridotti a un numero ed utilizzati come cose. Una tale spoliazione forzata dell’io, sempre apocalittica nel suo senso etimologico, può essere salvifica ovvero, per lo più, distruttiva (proprio perché artificialmente coatta su persone non sufficientemente pronte all’uopo): partecipando al suo processo di “cosificazione”, il detenuto nega se stesso come persona per sopravvivere come cosa, numero, mero ingranaggio di un meccanismo impersonale[6]. Qui correrebbe l’obbligo, se questo fosse un lavoro “scientifico”, di sviluppare comparazioni tra la vita monastica e quella dei detenuti[7]: un ristretto, dopo che durante una lezione avevo parlato dei tre voti monastici (povertà, obbedienza, castità), mi fece notare che essi sono rinvenibili, per costrizione, anche nella vita dei detenuti.
Il carcere come cenobio forzato, terribile luogo di una salvezza (non richiesta!) già in questo mondo? O come limbo, “notte oscura”, ovvero persino immagine del purgatorio? Difficile a dirsi, anche se, in relazione all’istituzione carceraria, suggestioni e motivi tratti dal cattolicesimo non mancano; certamente, “il crimine e l’ascesi conducono alla cella”.
Noi siamo abituati all’istituzione carceraria come necessità morale e giuridica, e quindi tendiamo a non metterla in dubbio, evitando di storicizzarla[8]; tuttavia, essa è storicamente determinata – il carcere “moderno”, non più istituto di “custodia” ma luogo di pena, nasce nel XVII secolo, e si sviluppa con la progressiva abolizione delle pene corporali –, e quindi in teoria reversibile: anche se questa reversione sarebbe oggi molto problematica, in primo luogo perché difficilmente pensabile.
Gli stessi meccanismi “teorici” inerenti al sistema carcerario — ad esempio colpa-pena/castigo-espiazione, riparazione, “pentimento” etc. — sono fortemente debitori del cattolicesimo. Dal lessico morale cattolico il diritto ha tratto molte categorie a tutt’oggi utilizzate, anche se la indistinzione tra custodia e reclusione è occorsa funzionalmente all’espansione del capitalismo e del razionalismo scientifico[9]. Questo è un punto cruciale:
il carcere moderno come luogo di “restrizione” in cui si sconta una pena, dunque, sarebbe il prodotto “sovrastrutturale” di una precisa ideologia, quella borghese-capitalistica[10], non scevra da intersezioni con la morale cattolica post-tridentina. Questa ideologia proietta nella realtà le sue sovrastrutture-maschere, tra le quali la prigione come luogo di punizione: una istituzione artificiosamente “totale”[11] e, allo stesso tempo, un significativo “survival”/caricatura delle società dispotiche, che mostra “quanto di autoritario c’è ancora nella struttura del mondo esterno”[12].
In prigione, la vita diviene una iperbole di squilibri: in essa ogni evento (interno o esterno), ogni fatto, anche minimo, ogni attesa acquistano un significato ed una frequenza esponenzialmente potenziati, spesso in maniera insopportabile (da cui il largo uso degli psicofarmaci, e la triste ricorrenza dei suicidi, tentati o riusciti). Fa molta tristezza, in un tale ambiente, toccare con mano quante vite sono state gettate alle ortiche: rendersene conto, in prima persona, deve essere terribile. Come i cimiteri, il carcere, mi pare, non è fatto tanto per i delinquenti (“qui non ci sono tanti delinquenti, ma molti fessi che si sono fatti beccare“); quanto per noi, per farci stare beatamente tranquilli, titillando la nostra “falsa coscienza”.
In generale, i detenuti — io ho avuto collaboratori di giustizia e condannati in via definitiva per reati “comuni”, il più delle volte connessi alla droga — sono molto rispettosi e umani. Non mi vergogno certo a dire che mi sono affezionato, essendone ricambiato, ad alcuni di loro. Ovviamente, spesso i ristretti sono interessati a migliorare la loro condizione: ma chi di noi non lo è? Molti si danno da fare, ma il lavoro è scarso, essendo Rebibbia sovraffollata. Il resto della giornata lo passano per lo più guardando la tv, giocando a carte, seguendo corsi di varia natura o, in qualche caso emblematico, a rievocare un passato talora mitizzato. Alcuni restano in branda, anche se ciò di solito non è raccomandato.
Sofferenza – amplificata esponenzialmente a causa dell’impotenza rispetto sia a ciò che sta “dentro” che, a volte di più, a ciò che sta “fuori” – e noia sono i problemi maggiori del carcerato; la prigione rimane un luogo violento, ma non più di quanto ci si potrebbe aspettare: qui si dilatano, in ragione del contesto e delle circostanze, fatti e problemi che esistono anche fuori.
Colpisce inoltre il fatto che, in un luogo dove non è di certo usuale l’apprezzamento per i magistrati, viga una legge ferrea ai danni di “infami”, molestatori, stupratori e pedofili. Una certa quota di sofferenza sarebbe evitabile se le condizioni di vita dei prigionieri fossero migliori: dal punto di vista degli spazi, della “privacy” e delle cure mediche, almeno a Rebibbia, esse sono molto problematiche. Non sono pochi i suicidi e le morti che si potrebbero scongiurare, se le cure – insieme all’ambiente generale — fossero adeguate.
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Un uomo, accusato forse ingiustamente per uno scippo, uscì dal carcere rapinatore, per aver frequentato in cella un ladro provetto. Il carcere, per come è pensato e realizzato, produce, paradossalmente ma sistematicamente, criminalità[13], follia, angoscia. Abbiamo abolito la pena di morte e le pene corporali, ma non la tortura (e l’effetto boomerang!).
Della galera si parla tanto, ma si tratta in buona parte di chiacchiere a vuoto; le persone comuni, poi, quasi sempre non sanno nulla dell'”istituzione”, e parlano spesso senza cognizione di causa né umana pietà. Quasi sempre non si fa nulla in merito: i carcerati spesso non votano. Eppure, dovrebbe essere interesse dello Stato agire, per evitare le famose “recidive”, che risultano in percentuali altissime. D’altra parte, chi assume, fuori, un detenuto che ha scontato la sua pena? Senza lavoro, disorientati, senza soldi né appoggi familiari o amicali, si ricade per lo più inevitabilmente nella “coazione a ripetere” il reato, che a un certo punto diviene quasi una “seconda natura”, fatta di desiderio di trasgressione, bisogno di sfogo e rivolta, brama di denaro e mera necessità;[14] altrimenti, la riacquistata libertà si fa latrice di un’angoscia spesso letale.
La droga è il primo problema: distrugge vite e induce molti, per procurarsela, a delinquere. Per non parlare dei soldi che si guadagnano trafficandola: un mio studente, l’ultima ruota del carro di un’associazione dedita allo spaccio, mi ha detto che, “lavorando” solo la domenica, guadagnava 1200 euro! Se si riuscisse, per assurdo, a eliminare la droga (ma soprattutto l’alienazione che spinge a drogarsi), moltissimi reati scomparirebbero nel nulla da cui provengono.
Diverse sono le motivazioni di chi è un “delinquente abituale”. Una volta, un rapinatore non pentito mi ha confessato che il crimine per lui è come una droga: nelle 24-48 ore in cui egli “fiuta” che la polizia gli è alle calcagna, non riesce a fermarsi, firmando la sua stessa condanna. Evidentemente era affascinato dalla sfida con l’autorità, anche (soprattutto?) quando si tratta di una partita persa. “Perché?”, gli ho domandato? “Perché siamo matti”, mi ha risposto.
Una volta un altro detenuto mi ha detto: rinchiudere una persona in una gabbia è un delitto contro la dignità umana (spesso anche i cortili deputati all’”aria” non sono altro che grandi gabbie di cemento). In effetti, non mi sento di dargli torto (al “Nuovo Complesso” di Rebibbia stanno in sei in una cella di 18 mq, con nello stesso ambiente, adiacenti, WC e cucina!).
D’altra parte, secondo alcuni “carcere” viene dall’aramaico “carcar” (“tumulare”): dalla etimologia scopriamo quindi molto più che dalle declamazioni retoriche ed ipocrite, in bella vista proprio perché contraddette dalla realtà. I detenuti, in ultima analisi, sono veramente dei “sepolti vivi”, che espiano una punizione senza che nessuno, tra i “liberi”, li veda[15].
Ad ogni modo, in carcere ho imparato, tra le altre cose, che “delinquente” e “cattivo” non sono sinonimi, nella vita reale. A volte, i detenuti mi sono sembrati bambini[16] (anche per le loro “immaginose” sparate). Inoltre, fare veramente i conti con se stessi implica ed induce un certo grado di onestà: quasi nessuno si è dichiarato innocente, nei colloqui che ho intrattenuto con loro. Ma, in fondo in fondo, chi di noi lo è del tutto?
Di Marco Toti
NOTE
[1] A. Ricci-G. Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, Torino 1971, p. 274.
[2] “[…] sono un bambino al quale è necessario spiegare tutto”, dice un carcerato di sé, immaginandosi libero (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 283) .
[3] “’Il linguaggio esterno’ si è arricchito di nuovi termini e di espressioni che non comprendiamo. Il nostro si è fossilizzato su vecchie espressioni e involgarito dall’intercalare dei vari ‘cazzo’, ‘in culo’, e via dicendo” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 283). Lo stesso discorso vale per certi gesti, adoperati dai carcerati più anziani.
[4] A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 279-280. Questo rapporto è ben visibile nell’ambito della sessualità in carcere: da necessità il sesso diviene ossessione, quindi mezzo di sfruttamento e infine “rito”: “l’80 per cento […] o inculano o si fanno inculare” (ibidem, p. 209). Sulla libertà fittizia caratteristica dell’universo ideologico borghese, dentro e fuori dal carcere, v. ibidem, p. 438.
[5] “La prigione crolla se crei un collegamento tra il mondo esterno e il mondo interno. Il tesoro vero da salvare nelle carceri è l’isolamento” (parole di un detenuto riportate in A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 234).
[6] A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 259. “Dopo questi anni di esilio, io già temo di non ritrovare più me stesso”, afferma un carcerato (A. Ricci-G. Salierno, op. cit, p. 283).
[7] Il carcere romano di Regina Coeli era in origine un convento.
[8] L’idea della segregazione come espiazione è ripresa dalla vita monastica ed è usata dapprima come pena canonica per i chierici e per i regolari; d’altra parte, il mantenimento di molte persone in strutture comuni era impensabile, e comunque non praticabile, in epoca preindustriale (ringrazio il dott. R. Turrini Vita per queste informazioni). È con l’istituzione dell’Inquisizione ecclesiastica che fu introdotto il carcere a vita come strumento di espiazione della pena.
[9] A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 18-19.
[10] La “struttura” è quindi l’”universo ideologico”, il modo di vita borghese-capitalistico, e non semplicemente le forze e i rapporti produttivi.
[11] A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 181.
[12] A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 234-235.
[13] Questa connessione strutturale tra carcere e criminalità “in uscita” serve a giustificare l’apparato repressivo, la cui funzione tacita è quella di salvaguardare l’”ordine”, ossia l’ideologia dominante (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 277).
[14] Sui problemi materiali e psicologici di chi esce v. A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 285-306 (“l’angoscia è quando tu non sai dove appoggiarti” [p. 296]). Per chi esce e non ha supporti esterni “rimane o la fuga, o la carriera di delinquente, o il suicidio. […] la fuga può essere intesa appunto come suicidio” (p. 301). Significativo quanto afferma un ex detenuto: “Ora sono un delinquente!” (all’uscita dal carcere; all’ingresso egli dice che non aveva contatti con la malavita).
[15] Su tale problema v. S. Ferraro, La pena visibile o della fine del carcere, Soveria Mannelli (Cz) 2013.
[16] “[…] la caratteristica tipica di un prigioniero è la regressione a livello infantile” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 279). Di particolare interesse è la “fantasmatizzazione dell’autorità”, operata spesso dal carcerato, in una sorta di conflitto di odio-amore che può ricalcare il rapporto col padre-ombra. Sul tema v. anche ibidem, p. 283 e supra, n. 2.