DI ZYGMUNT BAUMAN
Il pamphlet di Mead contro i poveri che “hanno scelto” di non lavorare per guadagnarsi da vivere termina con un’esortazione enfatica: “La politica sociale deve opporre una giusta e decisa resistenza alla povertà passiva – allo stesso modo in cui l’Occidente è riuscito a contenere il comunismo – finché la ragione non prevarrà e il sistema cui ci si contrappone non crollerà sotto il suo stesso peso.” Non si potrebbe scegliere metafora migliore. Uno dei principali servizi che la sottoclasse rende all’attuale società opulenta è quello di polarizzare tutte le paure e le angosce non più suscitate da un nemico esterno. Ed è destinata a rimpiazzarlo come nemico interno, assumendo così la funzione di valvola di sfogo delle tensioni collettive derivanti dall’insicurezza individuale. La sottoclasse è particolarmente adatta a svolgere questo ruolo.Mead non si stanca di ripetere che quel che spinge gli americani “normali”, perbene, a formare un fronte unito contro i parassiti dell’assistenza pubblica, i criminali e i giovani che abbandonano gli studi, è la percezione della profonda incoerenza di queste persone: gli emarginati offendono tutti i valori cari alla maggioranza, ma nello stesso tempo vi restano aggrappati e vorrebbero permettersi gli stessi livelli di consumo che gli altri invece pretendono di essersi meritati.
In altre parole, l’ostilità degli americani verso la sottoclasse deriva dal fatto che il modello di vita cui essa aspira è così stranamente simile al loro. Ma a ben vedere, non si tratta di un’incongruenza.
Come ha osservato Peter Townsend, è la logica della società dei consumi che spinge i poveri a sentirsi insoddisfatti: “gli stili di vita dei consumatori stanno diventando sempre più irraggiungibili per chi ha un basso livello di reddito definito storicamente nei termini di un potere d’acquisto limitato di beni primari o di sussistenza”. Ma è proprio questa irraggiungibilità che la società dei consumi obbliga a sperimentare come la più penosa delle privazioni.
Ciascuna società produce alcune visioni dei pericoli che minacciano la sua identità. Ma le sviluppa a propria misura, ovvero in funzione dell’ordine che si sforza di costruire. Generalmente, esse tendono a rispecchiare il tipo di società che le genera, mentre le immagini delle minacce incombenti tendono a essere un suo autoritratto con un segno negativo. Detto in termini psicoanalitici, queste ultime sono proiezioni della sua ambivalenza profonda verso il proprio sistema di vita e di riproduzione. Una società insicura di sé sviluppa una mentalità da fortezza assediata. Ma i nemici che premono alle porte sono i suoi stessi “demoni interiori”, le paure represse, diffuse, che permeano la sua vita quotidiana, “normale”, e debbono essere proiettate al di fuori di essa: su un nemico tangibile, che si può combattere energicamente e sperare anche di sconfiggere. In conformità con questa tendenza universale, il pericolo che ha assillato lo Stato moderno, ossessionato dall’idea dell’ordine, è stato quello della rivoluzione. I suoi nemici erano infatti i rivoluzionari o, meglio, i riformisti troppo radicali, avventati, temerari, tutte quelle forze eversive insomma che cercavano di sostituire l’ordine esistente sotto il controllo dello Stato con un altro ordine egualmente imposto da quest’ultimo, ovvero con un ordine contrario che rovesciava qualsiasi principio su cui si fondava quello reale o previsto.
L’autorappresentazione dell’ordine sociale è cambiata da allora e l’immagine della sua configurazione – quella con un segno negativo – ha assunto una nuova forma. La crescita della criminalità registrata in questi ultimi anni (che ha coinciso, non dimentichiamolo, con la riduzione dei membri dei partiti comunisti o di altri partiti radicali favorevoli a un “ordine alternativo”) è il prodotto di disfunzioni o negligenze, bensì la conseguenza logica legittima (anche se non legale) e inevitabile della società dei consumi, che è tanto più prospera e solida quanto più elevata è la domanda, ovvero quanto più forte è il potere di seduzione del mercato. Ma nello stesso tempo, il divario fra coloro che nutrono desideri che possono soddisfare (sedotti e pronti ad agire in base alle suggestioni da cui sono spinti) e chi invece non può reagire agli stimoli cui è esposto nel modo in cui si conviene, diventa sempre più ampio e profondo. Il fascino esercitato dal mercato è, al tempo stesso, un potente fattore di disparità e di eguaglianza. L’induzione al consumo (in misura sempre maggiore) può essere efficace solo se indiscriminata e indirizzata a chiunque sia disposto a lasciarsi influenzare. Ma le sollecitazioni del messaggio seduttivo trovano più ascolto che rispondenza. Chi non può soddisfare i desideri che esso accende assiste quotidianamente allo sfarzoso spettacolo di coloro che invece sono in grado di appagarli, ben sapendo, come vuole il costume in uso, che il consumo vistoso è il segno del successo, la via maestra verso la fama e l’approvazione sociale; e che il possesso e il godimento di alcuni beni e il potersi permettere certi stili di vita è la condizione necessaria della felicità, se non addirittura della dignità umana. Ma se il consumo è la misura di tutto questo, allora non c’è più un limite ai nostri desideri; nessuna quantità di beni e di sensazioni eccitanti potrà mai procurare una soddisfazione simile a quella promessa un tempo dalla “capacità di raggiungere certi standard”, poiché non vi sono più parametri prestabiliti. Il traguardo finale si sposta sempre più avanti e gli obiettivi sono sempre uno o due passi più distanti man mano che si cerca di avvicinarsi a essi. Tutti i record vengono continuamente superati e non sembra esservi più fine a ciò che un uomo può desiderare. Stupefatti e sconcertati, apprendiamo che nelle nuove imprese privatizzate e “liberalizzate” che un tempo erano pubbliche istituzioni sempre alla ricerca di capitali, gli attuali manager guadagnano stipendi vertiginosi, mentre quelli estromessi ricevono liquidazioni miliardarie per gli scarsi servizi resi.
Da dovunque provenga, e qualunque sia il canale di comunicazione, il messaggio suona forte e chiaro: non esiste alcuno standard, se non quello di arraffare il più possibile, né alcuna regola, salvo l’imperativo di “giocare bene le proprie carte”. Ma non tutti i giochi sono corretti. Se l’unico obiettivo è vincere, chi ci ha rimesso cercherà di rifarsi utilizzando qualsiasi altra risorsa di cui può disporre. Dal punto di vista dei proprietari del casinò, alcune – ovvero quelle distribuite o messe in circolazione da loro stessi – sono legali; tutte le altre, fuori dal loro controllo, non lo sono. La linea che divide il lecito dall’illecito non appare la stessa dal punto di vista dei giocatori, specialmente di chi aspira a diventarlo, e ancor più da quello di coloro che non hanno neppure la chance di essere ammessi al gioco. E anche se decidessero di ricorrere alle risorse, legali o illegali, di cui dispongono, questa possibilità è loro preclusa dal mercato. Vera emarginazione dei perdenti diviene pertanto un indispensabile supporto all’integrazione della società dei consumi attraverso la seduzione del mercato. I giocatori impotenti o indolenti vengono scaricati come rifiuti per non sospendere la partita e chiamare in soccorso i vincitori. Né si potrebbe fare diversamente anche per un’altra ragione: quelli che restano in gioco devono assistere allo spettacolo terrificante della sola e unica alternativa che hanno, affinché conservino la capacità e la volontà di sopportare la fatica e le tensioni che esso comporta. Data la natura della gara oggi in corso, la miseria di chi viene espulso, considerata un tempo come un male prodotto dalla società, alleviabile con mezzi collettivi, può essere ridefinita soltanto come la conseguenza di un crimine individuale. Le “classi pericolose” vengono pertanto stigmatizzate come classi criminali. Le prigioni divengono così, nel senso vero e pieno del termine, un surrogato delle istituzioni del welfare state. E con tutta probabilità continueranno a esserlo in misura crescente man mano che l’assistenza pubblica andrà riducendosi.
L’incidenza sempre più diffusa dei cosiddetti comportamenti criminali non è un ostacolo sulla via dello sviluppo di una società dei consumi pienamente realizzata e onnicomprensiva. Al contrario, è il suo naturale accompagnamento prerequisito. Questo, chiaramente, per molteplici ragioni. Ma il motivo principale sta forse nel fatto che gli estromessi – i sottoconsumatori, le cui risorse non permettono loro di soddisfare i propri desideri e non hanno pertanto alcuna possibilità di vincere con le attuali regole del gioco – sono l’incarnazione vivente dei “demoni interiori” di questa società. La loro ghettizzazione e criminalizzazione, così come le dure sofferenze che debbono patire e la crudeltà del destino che li ha colpiti, servono – metaforicamente parlando – a esorcizzare questi spettri e a farli svanire. In questo modo essi diventano, per così dire, un utile canale di spurgo: le fogne in cui si riversano gli inevitabili quanto velenosi effluvi della società dei consumi, affinché le persone costrette a rimanere in gioco non debbano preoccuparsi della loro salute. Ma se questa è la causa prima dell’attuale esuberanza dell’“industria carceraria”, come l’ha definita il grande criminologo norvegese Nils Christie, allora la speranza che questo processo possa essere rallentato, per non dire bloccato o invertito, in una società completamente liberalizzata e privatizzata e regolata dal mercato è – a dir poco – esile. E ciò lo si vede, molto più chiaramente che altrove, negli Stati Uniti dove, negli anni del laissez faire di Reagan e Bush, l’assoluto predominio del mercato ha raggiunto un’estensione ineguagliata rispetto a qualsiasi altro paese. L’epoca della deregulation e dello smantellamento del welfare state ha coinciso con l’aumento della criminalità, il rafforzamento della polizia e la crescita della popolazione carceraria. Ed è stata inoltre quella in cui si è riservato fatalmente un destino sempre più crudele e spietato a chi veniva definito criminale, per placare le ansie, l’insofferenza, l’incertezza e la collera della maggioranza, silenziosa o rumorosa, dei consumatori più fortunati. Quanto più potenti divenivano i “demoni interiori”, tanto più insaziabile era il suo desiderio di fare giustizia e punire i delinquenti.
Il progressista Bill Clinton vinse le elezioni promettendo di rinfoltire i ranghi delle forze dell’ordine e di costruire nuove prigioni più sicure. Alcuni osservatori (fra i quali Peter Linebaugh dell’università di Toledo, nell’Ohio, autore di The London Hanged) sono convinti che egli arrivò alla Casa Bianca grazie all’esecuzione capitale, ampiamente pubblicizzata, di un ritardato mentale, Ricky Ray Rector, da lui decisa quando era governatore dell’Arkansas. Due anni dopo, i suoi avversari dell’estrema destra del Partito Repubblicano fecero il pieno di voti, alle elezioni di mezzo termine per il rinnovo del Congresso, accusandolo di non aver fatto abbastanza per combattere la criminalità e assicurando un maggiore impegno in questo senso. Clinton vinse il suo secondo mandato presidenziale dopo una campagna in cui entrambi i candidati fecero a gara nel promettere un rafforzamento della polizia e nessuna pietà per tutti coloro che “offendevano i valori della società pur continuando a restarne aggrappati”, ovvero che vorrebbero godere del benessere generale senza adeguate credenziali e senza contribuire allo sviluppo della società dei consumi. Nel 1972, quando l’era del welfare state stava raggiungendo il suo culmine, la Corte Suprema degli Stati Uniti, rispecchiando l’orientamento dell’opinione pubblica, decretò che la pena di morte era arbitraria e capricciosa, e in quanto tale inadatta a servire la causa della giustizia. Ma in seguito a molte altre sentenze successive, la Corte autorizzò l’esecuzione capitale di un giovane sedicenne, nel 1988, quella di un ritardato mentale, nel 1989, e, infine, nel 1992, decise scandalosamente, a proposito della vertenza Herrera contro Collins, che l’imputato “può anche essere innocente, ma deve essere giustiziato egualmente se il processo si è svolto in modo regolare e costituzionalmente corretto”. Il recente disegno di legge sul crimine, approvato dal Senato e dalla Camera dei Rappresentanti, estende il numero di reati punibili con la pena di morte a 57, se non addirittura a 70, secondo alcune interpretazioni. Con gran clamore pubblicitario, venne così costruita, presso il penitenziario di Terre Haute nell’Indiana, una modernissima camera attrezzata per le esecuzioni capitali, con un braccio della morte che poteva ospitare 120 detenuti. All’inizio del 1994, quelli in attesa di essere giustiziati, nelle prigioni americane, erano in totale 2802. Di questi, 1102 erano neri e 33 erano stati condannati a morte in età minore. La stragrande maggioranza degli internati nei bracci della morte proviene, come ben si può immaginare, da quel deposito sempre più grande in cui vengono gettati i rifiuti della società dei consumi. Come osserva Linebaugh, lo spettacolo delle esecuzioni è “utilizzato cinicamente dai politici per terrorizzare la sottoclasse in espansione”, spinti a questo dalla maggioranza silenziosa degli americani che in tal modo cerca di placare i propri terrori. Secondo Herbert Gans, “i sentimenti dei più fortunati verso i poveri (sono un) misto di paura, rabbia e disapprovazione, ma la paura è forse quello prevalente”.
In effetti, questo miscuglio emotivo può essere efficace dal punto di vista politico e motivazionale, solo se la paura è intensa e realmente terrificante. La conclamata diffidenza dei poveri verso l’etica del lavoro e la loro riluttanza a sobbarcarsi la fatica compiuta dai più per condurre una vita dignitosa, è sufficiente a scatenare ondate di collera e disapprovazione. Ma quando l’immagine del povero ozioso viene sovraccaricata dalle allarmanti notizie sull’aumento della criminalità e della violenza a danno dei membri e delle proprietà della maggioranza perbene, la disapprovazione si tinge di paura; e la disobbedienza ai precetti dell’etica del lavoro diventa un atto inquietante, oltre che moralmente odioso e riprovevole. Da oggetto della politica sociale, la povertà si trasforma così in un problema della criminologia e del diritto penale. Gli emarginati non sono più i rifiuti della società dei consumi, i perdenti esclusi da ogni feroce competizione, ma diventano i nemici giurati della società. Vi è soltanto un sottile confine, facilmente travalicabile, fra chi campa a spese dello Stato e gli spacciatori di droga, i rapinatori e gli assassini. La popolazione assistita è il serbatoio naturale delle bande criminali, e continuare ad assisterla significa allargare l’area di reclutamento dei delinquenti.
Zygmunt Bauman
Da: “Lavoro, consumismo e nuove povertà”, 2004, casa editrice Città Aperta
Fonte:www.miserabili.com
6.12.04
Zygmunt Bauman è professore di Sociologia all’università di Leeds. Tra i suoi libri recenti tradotti in italiano ricordiamo: Modernità ed olocausto (Bologna 1992), Le sfide dell’etica (Milano 1996), La società dell’incertezza (Bologna 1999), La solitudine del cittadino globale (Milano 2000), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (Roma-Bari 2002), La libertà (Troina 2002).