DI
ROBERTO SCORCELLA
ilribelle.com
Non solo i grandi colossi del credito hanno avuto (e hanno) condotte quanto
meno criminali. Stavolta molto di strano c’è anche da “noi”.
Ecco la storia di Unicredit e Nazareno Gabrielli
Un’azienda sull’orlo del fallimento di questi tempi non è una novità. Particolarmente inquietante, ma anche questa purtroppo inizia a diventare una consuetudine, il fatto che a spingerla verso il baratro sia stata una banca. La vicenda riguarda un marchio che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta è stato una griffe rinomata, sui livelli di Gucci e Cartier, con negozi in ogni parte del mondo e capi ricercatissimi. Stiamo parlando della Nazareno Gabrielli, azienda del maceratese fondata nel 1907 dall’uomo che le ha dato il nome. Per entrare nella vicenda bisogna capire che cosa è stata la Nazareno Gabrielli. Specializzata nel pellettiero, sotto la direzione del manager David Passini sceglie negli anni Ottanta di introdurre il design in ogni prodotto e buttarsi a capofitto in una politica di marchio con una netta predilezione verso il settore femminile. La scelta è vincente e gli anni Novanta vedono la Nazareno Gabrielli sfiorare un fatturato di 130 miliardi con circa 600 dipendenti. Gli effetti di qualche operazione finanziaria azzardata, portano verso una parabola discendente e a un declino inesorabile. Passini vende nel 1999 l’azienda a Angelo Corona, manager abruzzese che due anni prima aveva rilevato il 100 % della fiorentina Pineider, dopo che Diego Della Valle aveva rinunciato all’opzione per rilevare i due stabilimenti della Gabrielli.
Nel 2005 il marchio viene rilevato da un giovane torinese rampante, Filippo Tarocco, amministratore delegato di Key Group. “La società” dichiara Tarocco ai giornali dopo l’acquisizione della Gabrielli “intende sviluppare un piano di rilancio triennale, con al centro un forte sviluppo internazionale del marchio, che sarà riposizionato all’interno del segmento alto del mercato. Prevista a tale scopo anche la prossima apertura di 30 negozi monomarca in Italia e all’estero. Tra gli obiettivi c’è la salvaguardia dell’occupazione e delle competenze del settore della pelletteria, come pure la garanzia della presenza di un sito industriale a Tolentino”. Dopo due anni, nel 2007, Tarocco, con la Gabrielli sull’orlo del fallimento, venderà il marchio. Nel frattempo, però, malgrado tutto si realizza come esperto di economia aziendale scrivendo un libro: “Basilea 2. Nuovi scenari del rapporto banca-impresa”. Uno dei capitoli riguarda il rapporto fra banche e imprese. Che evidentemente conosce molto bene, visto quello che succederà qualche mese dopo l’acquisizione del marchio Nazareno Gabrielli da parte dei nuovi proprietari, due imprenditori milanesi: Paolo Badile e Michele Spagna. Il passaggio di consegne ufficiale della proprietà di quella che ora si chiama Pelletterie 1907 da Tarocco a Badile e Spagna avviene il 4 ottobre 2007. Quanto successo nei giorni successivi lo racconta lo stesso Badile. “Penso sia opportuno partire dalle date. La nuova società si è formalmente insediata il 4 ottobre 2007. Abbiamo trattato con la precedente proprietà, preso visione dei bilanci e delle esposizioni nei confronti degli istituti di credito fino ad arrivare alla acquisizione della Nazareno Gabrielli. Magicamente, e per la nostra gestione drammaticamente, nell’estratto conto di Unicredit di fine ottobre 2007 ci siamo visti addebitare settantadue assegni per quasi un milione e trecentomila euro. Questi assegni erano stati emessi fra l’aprile e il giugno 2007 dalla precedente gestione e regolarmente pagati da Unicredit alla data dell’incasso.
Una somma tanto rilevante, però, è rimasta sospesa per così dire… nell’etere per circa sei mesi fino a ricomparire improvvisamente non appena noi ci siamo insediati. Per essere ancora più precisi, tutti i settantadue assegni ci sono stati addebitati con la medesima data: 22 ottobre 2007. Curioso, no? Soldi letteralmente scomparsi per così tanto tempo di cui nulla sapevamo e che hanno provocato il dissesto finanziario di Pelletterie 1907. Infatti, a seguito dell’addebito sul conto di una cifra così cospicua, Pelletterie 1907 è entrata nella Centrale Rischi di Banca d’Italia in quanto ha sconfinato dagli affidamenti concessi per oltre un milione di euro. Una cosa simile non l’ho mai vista né sentita in tutta la mia vita. Oggi un risparmiatore che deve pagare un assegno, se entro due giorni dalla data dell’incasso non ha i fondi sul conto, il titolo viene protestato. Ho sempre creduto che gli istituti di credito potessero in qualche modo aiutare privati e aziende, confidando nella buona fede e nella buona gestione del denaro loro affidato. Questa vicenda, al contrario, mi ha aperto gli occhi su come realmente funziona il sistema”. E quando chiediamo a Badile chi abbia incassato quegli assegni la risposta è semplicemente disarmante. “I soldi sono finiti a diversi soggetti. Una parte ai fornitori, una parte è stata invece incassata da società collegate alla precedente gestione”.
Evidentemente Tarocco aveva proprio studiato bene il capitolo del rapporto banche-imprese. Ma le dolenti note devono ancora arrivare. Entrare nella Centrale Rischi di Banca d’Italia oggi per un’azienda vuol dire aver chiuso con il credito. La stessa cosa che capita ai privati che non pagano la rata dell’aspirapolvere e si ritrovano nelle black list come il famigerato Crif: credito precluso per almeno un decennio, sempre che la plutocrazia bancaria sia benevola nei suoi confronti. E a Pelletterie 1907 cosa è successo dopo essere stata inserita nella Centrale Rischi? “Alcune banche” spiega Badile “ci hanno bloccato l’utilizzo delle linee di credito in essere e negato la possibilità di ricorrere a linee di credito aggiuntive. Inoltre, mi sono state chieste ulteriori garanzie personali per linee di credito già esistenti, peraltro stranamente concesse per importi rilevanti alla precedente gestione senza alcun tipo di garanzia. Un’azienda di pelletteria che lavora in un settore “stagionale” come quello del fashion deve obbligatoriamente ricorrere al finanziamento bancario per finanziare un ciclo produttivo che si chiuderà con l’incasso del cliente dopo oltre un anno. Questo comportamento di Unicredit ha fatto sì che gli aumenti di capitale versati su Pelletterie 1907, circa tre milioni e mezzo di euro, non siano stati utilizzati in maniera efficiente per poter ristrutturare il debito dell’azienda, ma per finanziare il corrente ovvero la produzione e per pagare oltre tre mesi di decine di stipendi arretrati, eredità della precedente gestione. Da qui, quindi, si è innescato un effetto domino con il sistema bancario che, con il tempo, ha portato prima alla crisi di liquidità e poi alla situazione attuale”. Insomma, piani di rilancio e di investimento azzerati ancor prima di cominciare, carenza di liquidità, ritardi nei pagamenti degli stipendi e a luglio 2009 un’istanza di fallimento promossa dai dipendenti e pendente al Tribunale di Macerata. Con il rischio che un marchio ultracentenario, segno della storia e della laboriosità di un intero territorio, finisca magari nelle mani di qualche cinese facoltoso per quattro denari. Intanto i 50 dipendenti della Gabrielli sono tutti a casa. E per loro non sembrano esserci prospettive, soprattutto nell’eventualità che l’azienda venga dichiarata fallita. Pelletterie 1907 si è rivolta al Tribunale civile di Milano chiedendo il rigetto dei decreti ingiuntivi di pagamento emessi da Unicredit ad aprile 2009, sostenendo il dolo negoziale con richiesta di risarcimento dei danni finanziari e d’immagine. Il Tribunale, dopo una prima udienza ha aperto un giudizio di merito per una valutazione tecnica. Prima, però, c’è stato un tentativo di accordo? “Certamente.
Una società ceduta dopo regolare visura dei libri contabili. A cessione
effettuata, assegni stellari addebitati sul conto corrente. Firmati dalla
precedente proprietà. 50 lavoratori per la strada. E una causa in corso.
Ci siamo seduti a un tavolo” dice Badile “e ho dovuto accettare fidejussioni personali per oltre 5 milioni di euro, oltre a un piano di rientro assolutamente insostenibile per un’azienda in evidente difficoltà finanziaria”. Unicredit, dal canto suo, chiarisce la propria posizione affermando che “gli assegni non furono addebitati alla data del loro ricevimento in quanto la procedura non prevede addebiti in assenza di provvista”. Furono perciò “allocati a sospesi in attesa che si verificassero alcuni eventi prospettati dall’azienda (aumento di capitale e incasso crediti), in considerazione dei quali la banca aveva deciso di accordarle la sua fiducia”. Ma gli assegni, in assenza di provvista, non finiscono nelle mani di un notaio per poi essere eventualmente protestati? Perlomeno questa è la regola applicata con i poveri cristi. Qui, invece, si tiene 1 milione e 300mila euro allocato chissà dove in attesa che si verifichino eventi aleatori prospettati da un’azienda in crisi! Dove saranno finiti tutti quei soldi fra il maggio e la fine di ottobre del 2007? Mistero. Così, mentre il presidente del consiglio a Tripoli cerca di ottenere da Gheddafi ossigeno (denaro fresco) per finanziare Unicredit in difficoltà e il ministro Tremonti da mesi suona una tremebonda carica contro le banche che non finanziano le imprese, cinquanta persone si trovano per strada, senza più un lavoro, senza più uno stipendio, senza più una prospettiva anche e soprattutto per un comportamento quantomeno anomalo di un istituto di credito che paga assegni senza copertura finanziaria sulla base di “promesse”. E c’è da riflettere perchè se questo è capitato a una piccola azienda come Pelletterie 1907, si può immaginare cosa possa succedere quando il discorso si allarga verso le grandi industrie. Ma in tempi di plutocrazia non c’è da aspettarsi altro che storie come questa.
Roberto Scorcella
Fonte: www.ilribelle.com/
Novembre 2009 – Anno 2 Numero 14
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