DI NAOMI KLEIN
L’Espresso
La bufera che si è abbattuta su Paul Wolfowitz, presidente dell’importante board, nasconde un’altra verità. Èd è quella di un organismo da troppo tempo inquinato da tangenti e corruzione
Non è l’atto in sé, è l’ipocrisia. Questo è il commento sull’operato di Paul Wolfowitz che si legge negli editoriali dei giornali di tutto il mondo. Non è né l’uno, né l’altro: non è l’atto in sé (il non rispettare le regole per far avere alla sua fidanzata un aumento di stipendio), né l’ipocrisia (il fatto che la missione di Wolfowitz come presidente della Banca mondiale fosse quella di combattere per una “good governance”, una buona amministrazione).
Prima di tutto, dispensiamo l’ipotetico problema dell’ipocrisia. “Chi vuole sentirsi fare una predica sulla corruzione da qualcuno che gli dica “fai ciò che dico e non ciò che faccio”?”, chiede un giornalista. Nessuno ovviamente. Tuttavia questa domanda è una descrizione piuttosto efficace del gioco di strip poker a senso unico che è il nostro sistema commerciale globale in cui gli Stati Uniti e l’Europa, attraverso la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione del commercio mondiale, dicono ai Paesi in via di sviluppo: “Voi abbattete le vostre barriere commerciali, noi manteniamo le nostre”. Dai premi all’agricoltura allo scandalo del Dubai Ports World, l’ipocrisia costituisce il principio guida del nostro ordine economico. Il solo crimine di Wolfowitz è stato quello di prendersi a cuore la situazione internazionale dell’istituzione che rappresenta. Il fatto che egli abbia risposto allo scandalo assumendo un famoso avvocato e mettendosi alla ricerca di un leadership “coach”, qualcuno che insomma gli insegni cos’è la leadership, non fa che mettere ancora più in evidenza in che modo egli sia rappresentativo delle modalità troppo spesso utilizzate dalla Banca mondiale: in presenza di dubbi, far fuori il budget per pagare consulenti eccessivamente cari e definire il tutto un aiuto. La bugia più seria al centro della controversia è l’implicazione che la Banca mondiale fosse un’istituzione con credenziali etiche impeccabili, fin quando, secondo 42 ex dirigenti bancari, la sua credibilità non è stata “inevitabilmente compromessa” da Wolfowitz (molti americani liberali hanno colto al volo questa favola, dipendenti come sono dall’euforia passeggera che scaturisce dall’obbligare un neocon a dimettersi).
La verità è che la credibilità della banca è stata inevitabilmente compromessa in più di un’occasione: quando ha imposto tasse scolastiche agli studenti del Ghana in cambio di un prestito, quando ha chiesto alla Tanzania di privatizzare il suo sistema idrico, quando ha posto la privatizzazione della telecom come condizione di aiuto per l’uragano Mitch, quando ha chiesto la “flessibilità” del lavoro all’indomani dello tsunami in Sri Lanka, quando ha spinto perché fossero eliminati gli aiuti alimentari in Iraq all’indomani dell’invasione. Agli ecuadoriani importa poco della fidanzata di Wolfowitz, a loro interessa di più che nel 2005 la Banca abbia negato 100 milioni di dollari dopo che il Paese aveva avuto il coraggio di spendere una parte della sua rendita petrolifera in salute ed educazione. Alla faccia dell’organizzazione antipovertà. Ma l’argomento sul quale la Banca mondiale può avanzare ben poche ed esili rivendicazioni circa la propria autorità morale, è la lotta alla corruzione. Negli ultimi 40 anni, quasi ovunque si sia verificato un saccheggio di massa a livello statale, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sono stati i primi a comparire sulla scena del crimine. E no, non stavano guardando altrove mentre quelli del luogo si riempivano le tasche, hanno scritto le regole di base per i ladri e hanno gridato “Più veloce per favore!”, un processo noto come terapia choc a tiro rapido. La Russia sotto la leadership di Boris Eltsin, scomparso di recente, è stato un esempio calzante. A cominciare dal 1990, la Banca ha cavalcato il movimento che ha condotto l’ex Unione Sovietica a imporre immediatamente quella che ha definito la “riforma radicale”.
Quando Mikhail Gorbacev si rifiutò di procedere, Eltsin salì al potere. Questo bulldozer di uomo non avrebbe lasciato che niente e nessuno si mettesse fra sé e il programma firmato da Washington, inclusi i politici russi allora eletti. Dopo aver ordinato ai carri armati dell’esercito di aprire il fuoco sui dimostranti nell’ottobre 1993, uccidendo centinaia di persone e lasciando il Parlamento annerito dalle fiamme, la scena era pronta per una privatizzazione, diciamo pure una svendita totale, del patrimonio statale più prezioso della Russia da parte dei cosiddetti oligarchi. Ovviamente, la Banca mondiale c’era. A proposito della smania del legiferare senza troppa democrazia che seguì il colpo di Stato di Eltsin, Charles Blitzer, primo economista della Banca mondiale in Russia, disse al “Wall Street Journal”: “Non mi sono mai divertito così tanto in vita mia”. Quando Eltsin lasciò il potere, la sua famiglia era diventata inspiegabilmente ricca e agiata, mentre alcuni suoi deputati furono intrappolati in scandali di corruzione e tangenti. Tali episodi furono riferiti in Occidente, come d’altronde sono sempre raccontati, come momenti sfortunati di un progetto di modernizzazione altrimenti etica ed economica. In realtà, la corruzione fu inglobata nell’idea stessa di terapia choc. La travolgente velocità di cambiamento era cruciale per superare il rifiuto assai diffuso verso le riforme, ma ha anche significato, per definizione, che non potesse esserci sorveglianza o supervisione. Inoltre, le mazzette ai funzionari e ai dirigenti locali furono un incentivo indispensabile per i russi dell’apparato del Pcus (apparatchik) per la creazione di quel mercato aperto chiesto da Washington.
In conclusione, è più che plausibile che la corruzione non sia mai stata una priorità per la Banca mondiale e per il Fondo monetario internazionale. I dirigenti di queste istituzioni sanno che quando i politici arruolati per far avanzare un programma economico guadagnano nel proprio Paese acerrimi nemici, significa che in quel programma ben poco è destinato ai conti correnti esteri di quei politici. Ma la Russia è ben lungi dall’essere l’unica: dal dittatore cileno Augusto Pinochet, che accumulò oltre 125 conti bancari durante la costruzione del primo Stato neoliberale, al presidente argentino Carlos Menem, che mentre liquidava il Paese viaggiava alla guida di una sfavillante Ferrari Testarossa, fino ai “miliardi spariti” dell’Iraq di questi giorni, esiste, in ogni Paese, una classe di politici ambigui e ostruzionisti disposti ad agire come subappaltatori occidentali. Prendono diritti che sono in realtà tangenti; è la corruzione, il silenzioso ma onnipresente partner nella crociata di privatizzazione del mondo in via di sviluppo.
Le tre principali istituzioni al centro di questa crociata sono in crisi, non a causa di piccole ipocrisie ma di grandi ipocrisie. Il Wto, l’Organizzazione per il commercio mondiale, non riesce a rimettersi in carreggiata; il Fondo monetario internazionale sta finendo in rovina, destituito da Cina e Venezuela. E ora anche la Banca mondiale sta andando a fondo. Il “Financial Times” riferisce che i dirigenti della Banca mondiale che dispensavano consigli, “vengono ora derisi”. Forse tutti dovremmo ridere della Banca mondiale. Ciò che non dovremmo assolutamente fare però è partecipare al tentativo di mondare la storia rovinosa di questa istituzione, ripetendo l’assurda storiella secondo la quale la reputazione di un’organizzazione antipovertà altrimenti lodevole sia stata macchiata da un uomo. La Banca vuole, com’è comprensibile, gettare a mare Wolfowitz. Io dico: lasciamo che la nave coli a picco insieme al capitano…
Naomi Klein
Fonte: http://espresso.repubblica.it/
Numero 18 Anno 2007
05.04.2007
Traduzione a cura di ROSALBA FUSCALZO