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DI GABRIELE ADINOLFI

Anatomia di una trattativa condotta in un quadro sgretolato. Prospettive per i nuovi scenari

L’annunciato fallimento delle trattative per l’acquisto dell’Alitalia può avere esiti diversi. Il più probabile è che la nuova proprietà, la cordata della Cai, che ha poi deciso per il ritiro, si trovi ugualmente a comprare a prezzi ancor più stracciati la compagnia in liquidazione per poi rivenderla con ampio ricavo. La Cai, o qualunque altro soggetto nazionale o internazionale al suo posto, non avrà più obblighi giuridici e potrà assumere alle sue condizioni senza dover assorbire nessuno per motivi di anzianità o altro. I lavoratori andranno in cassa integrazione o per strada e i costi ricadranno sulla collettività, così come già è avvenuto per quelli delle passività pregresse. Lo scenario più probabile, economia occidentale permettendo, è che sorga una compagnia che operi seguendo il modello del fallimento della Swissair (2001) che, liquidati i problemi, è stata poi acquistata dalla Lufthansa e rappresenta ora un modello di efficienza e di attivo. Insomma un’operazione capitalistica e una prova di efficientismo in piena regola. Chiunque subentri alla proprietà farà un affare ancor più grosso di quello che avrebbe realizzato fino ad oggi.

Quando mancano le alternative

Ci troviamo, quindi, in uno scenario di capitalismo assoluto; ma questa non è una novità come non lo è che una compagnia allo sfascio, non solo ma anche per gli sprechi e per la cultura egoistica e menefreghista diffusa che ha fatto marcire e morire lo stato sociale italiano, si trovava comunque in un vicolo cieco e non aveva altre prospettive se non quelle capitalistiche. Tanto che le proposte di nazionalizzazione giunte da alcuni settori politici marginali sono demagogiche e grottesche; senza entrare nel merito delle imposizioni europee, l’eventuale nazionalizzazione di una compagnia allo sbando avrebbe avuto il solo esito di moltiplicare le perdite pubbliche, tra l’altro senza un tesoro cui attingere, per trascinare i resti dell’azienda nel gorgo di un’agonia senza fine; non esistono oggi le condizioni economiche, morali e politiche per poter prendere in considerazione una proposta che, purtroppo, non è che uno slogan appiccicato frettolosamente ai comunicati di politici che non hanno nulla da dire.

Nessuno ne esce bene
I dati salienti di questa tragicommedia dovrebbero balzare agli occhi di tutti, eppure non è così. Perché si assiste, non solo tra le parti in causa ma ovunque, allo scaricabarile. Un gioco dal quale nessuno esce bene – governo, proprietà, opposizioni, sindacati – ma da cui solo gli ultimi escono stritolati. E questo non solo per la straordinaria prova di ridicolo della Cgil che è passata oscillando dal sì al ni al no al ni al no al sì al no come una banderuola ubriaca ma perché è stato dato un segnale inequivocabile, per chi ne avesse avuto ancora bisogno, dell’assoluta impotenza, inconsistenza e mancanza di prospettiva dei sindacati che oggi non hanno alcun ruolo e senso se non quello di succhiare soldi come parassiti. Difatti, benché la questione fosse nota da un pezzo, non c’è stato uno straccio di proposta sindacale, né come alternativa, né come ammortizzamento, né come forma di lotta. Ed è sbalorditivo che la sola proposta sociale (la socializzazione del 7% degli utili per le maestranze) non sia venuta dai sindacati ma dal ministro del lavoro. Il quale ne esce ancora bene mentre lo stesso non può dirsi per quello delle infrastrutture, scuro in volto come i santoni della triplice; ma viene da dire che ben gli sta: proprio alla vigilia Matteoli aveva fatto appelli stonati all’antifascismo e speriamo che si sarà reso conto che porta sfiga.

Un modello allo sfascio

Il modello sindacale è allo sfascio. Non lo è soltanto perché ci troviamo in un periodo di capitalismo avanzato (eppur scricchiolante) ma in quanto è erede di una concezione opportunistica, consociativa, subalterna e di filtro che ha avuto un’enorme responsabilità nella distruzione delle concezioni e delle istituzioni sociali che provenivano dal Ventennio nonché una complicità imbarazzante con le multinazionali americane per il nostro disastro economico. Ma non è finita; non solo i sindacati sono una costosa appendice economica, sempre più sfiduciata dai lavoratori, uno strumento desueto, inefficace e senza idee, ma tutta la cultura sociale si va bavabeccarisizzando. Sicché se, secondo le leggi tipiche del capitalismo, sono i più deboli a cadere e sono i salariati, i produttori e i risparmiatori a pagare i conti, gli egoismi personali e di categoria imperano ed impazzano. Un’ulteriore prova la si è avuta nella vertenza perché i piloti, piuttosto che accettare condizioni non privilegiate, hanno optato egoisticamente per la cassa integrazione nella convinzione di avere comunque un mercato. Andate in ordine sparso le maestranze, i danni li subirà il personale meno qualificato, quello precario, quello che non ha sufficiente moneta di scambio.

Disgregati

Per dirla marxianamente è venuta a mancare coscienza di classe (anche se è difficile che piloti e precari si possano accomunare classisticamente al di là della contingenza). E insieme alla coscienza di classe mancano le organizzazioni di classe; ergo pagano i deboli. Per superare lo schema marxiano in un quadro più ambizioso e maestoso servirebbero coscienza di popolo e organizzazioni di popolo ma siamo ben lungi da ciò; l’individualismo atomizzato, l’egoismo becero dominano il quadro e non solo nel mondo del lavoro. Ed ecco che la questione dell’Alitalia diviene semplicemente paradigmatica. Va ben al di là dello specifico e rientra in un disagio generale, in una disarticolazione sociale, in una paralisi dei lavoratori e, soprattutto, in una cultura atomizzante e ricattatrice fatta di precariato e di “flessibilità”, di mobilità extracomunitaria, di concorrenza e guerra tra poveri. Che la finanziarizzazione ci avrebbe progressivamente proletarizzati lo sapevamo e lo abbiamo sempre sostenuto; che questa proletarizzazione atomizzata avrebbe prodotto frantumazione e disperazione lo abbiamo sempre affermato.

Adattarsi al nuovo scenario

A questo punto si può passare il tempo a lanciare anatemi, a lamentarci o a tranquillizzarci, restando sempre e comunque ostaggi della realtà e comparse di un reality show in cui tutti, chi prima chi poi, finiscono con l’essere nominati. Oppure si può iniziare a cambiar registro e a proporre modelli nuovi; modelli di organizzazione sociale snelli, autonomi ma coordinati che abbiano la capacità di non isolare ma di fornire sponde e strumenti ai precari, d’intervenire strategicamente sulle questioni centrali del lavoro. Che operino sia localmente (perché si va verso le contrattazioni aziendali) sia a vasto raggio. Per far ciò servono però una cultura sociale, che manca, uno spettro di proposte organiche e pragmatiche (che se ci sono sono frammentarie ed episodiche) e soprattutto un posizionamento chiaro. A mio parere in Italia come altrove (Francia, Spagna, Russia) la tendenza è quella del superamento della democrazia delegata. Ebbene è possibile volgere a vantaggio dei lavoratori l’impasse degli intermediari, la neutralizzazione delle burocrazie sindacali. La cultura si può dispiegare sulla prassi dell’azione diretta, della dismissione delle figure professionistiche dei sindacalisti (si possono estrarre a sorte di volta in volta i rappresentanti) e, soprattutto, sulle trattative improntate direttamente verso l’esecutivo forte. Avocando a sé tratti monarchici il neo-presidenzialismo, il neo-dirigismo, ha anche la funzione di ammortizzamento e di soluzione. Probabilmente è tempo di far tramontare i cadaveri elefantiaci del sindacalismo dell’ultima metà del secolo scorso e puntare all’affermazione di un’autonomia dinamica e cosciente che si articoli verso la politica nella logica del tribunato del popolo.

Disponibile

Di sicuro i tempi non sono ancora maturi, ma personalmente – e sono convinto di parlare anche a nome di quelli che condividono non a chiacchiere la medesima Idea e sensibilità – sono disponibile sin da ora per ogni riflessione e tentativo costruttivo, realmente trasversale, integralmente sociale (nella piena etimologia del termine) che punti a dare cittadinanza e peso a chi oggi brancola nel buio e paga i costi delle Lehamn brothers di turno. E’ possibile farlo, seguendo uno schema peronista che renda gli aculei a chi è stato spillato giorno dopo giorno, dal capitale ma anche, se non soprattutto, dalla cosca sindacale. E’ possibile farlo a patto di fornire, insieme, una convergenza a componenti assolutamente diverse ma animate da animus pugnandi e da intenzioni sane e comunitarie. Sono disponibile e fin da ora m’impegno a fare tutto il possibile per agire in quella direzione, sia sul piano dell’analisi, dell’approfondimento e delle proposte che in quello delle verifiche e dei confronti che sono indispensabili all’edificazione.

Gabriele Adinolfi
19.09.08

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