DI SERGIO CESARATTO
ilmanifesto.it
Nel clima di sospensione di ogni democrazia sostanziale nel paese, giovedì il Senato ha ratificato il cosiddetto fiscal compact con la medesima (vergognosa) maggioranza bulgara che aveva approvato l’inscrizione del pareggio di bilancio in Costituzione. Ora la parola passa alla Camera. Non sembra che, con l’eccezione de il manifesto, gli organi di informazione abbiano cercato di spiegare ai cittadini cosa fosse in ballo, e pour cause.Il fiscal compact, concordato lo scorso marzo dall’Unione europea, con l’eccezione del Regno Unito, prevede una serie di misure fiscali vincolanti: a) pareggio di bilancio (oltre alla menzionata iscrizione in Costituzione) con l’obbligo di meccanismi automatici di riequilibrio, come l’aumento automatico dell’Iva; b) l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil di rientrare entro tale soglia in 20 anni ad un ritmo pari a un ventesimo all’anno, come già definito nel precedente Accordo di Stabilità e Crescita (sic), «six-pack», entrato in vigore a fine 2011; c) misure di sorveglianza e punitive in caso di inadempienza. L’adesione al fiscal compact è necessaria per poter accedere ai fondi Mes (Meccanismo europeo di stabilità) la cui inutilità, nella forma attuale, per abbattere i famosi spread è stata ricordata da Pastrello ieri. Disattendendo le promesse elettorali, a cui solo gli ingenui hanno creduto, anche Hollande si appresta ad approvare il fiscal compact.
Alla luce del rapido deterioramento delle prospettive economiche e occupazionali del paese causate dalle politiche di austerità, gli effetti devastanti che la pervicace applicazione dei diktat europei sono sotto gli occhi di tutti, senza che, grottescamente, gli obiettivi di bilancio vengano peraltro raggiunti. Il Fondo monetario internazionale prevede, infatti, lo sforamento degli obiettivi di disavanzo, l’aumento del rapporto debito/Pil, tutto questo in un’economia in recessione che sta arretrando di decenni a vista d’occhio. L’operazione di Monti basata sull’idea che a colpi di manovre fiscali il paese potesse recuperare «credibilità», diminuire gli spread e ritornare su un sentiero di crescita si è rivelata fallimentare. Del resto questa era la politica, per dirne una, adottata dal Presidente de la Rua prima del fallimento di quel paese (le cronache del 2001 ci narrano che dovette fuggire in elicottero dal paese per evitare il linciaggio).
La questione è che il nostro paese non ha davanti solo uno scontro in sede europea con una Germania chiusa a ogni soluzione ragionevole e possibile della crisi e che sta trascinando il proprio popolo su posizioni a un passo dalla xenofobia. L’altro scontro è con i disegni di restaurazione liberista di Mario Monti, e di chi lo asseconda. In fondo in Europa si accetta quello che si decide di accettare (e chi accetta è connivente). Se egli è tornato dallo scorso vertice col biblico piatto di lenticchie, come prontamente abbiamo denunciato su queste colonne, si vede che in fondo così gli andava bene. Così si è permesso un farneticante attacco alla concertazione (altro che imitazione del modello partecipato tedesco!), la manovra ammazza-sanità, ulteriore capitolo di una manovra infinita.
Sindacato e stato sociale sono per Monti e per chi lo appoggia le cause di fondo della crisi italiana. Eppure armi di contrattazione l’Italia ne avrebbe. Così suggeriva giovedì uno studio di Merril Lynch per il quale l’Italia sarebbe nelle condizioni di uscire dall’euro e di avvantaggiarsene – a differenza della Spagna, incapace di navigare da sola, e della Germania che avrebbe tutto da perdere dalla rinnovata sfida industriale italiana.
Però a una minaccia si deve credere: cara Germania, o cambi politiche, oppure piuttosto che una rottura catastrofica dell’euro verso cui le politiche attuali non possono non portare, meglio un’uscita ordinata dell’Italia, meglio anche per voi. Si è sinora sostenuto che di una fuoriuscita italiana non si potesse parlare, pena la turbativa dei mercati. Temiamo che a questo punto la turbativa ai mercati provenga dalle politiche di austerità, termine ormai troppo blando perché vedremo il paese impoverirsi a vista d’occhio, e non dall’apertura di un dibattito democratico in cui al paese si dica la finalmente verità e lo si chiami a scegliere.
Dov’è una sinistra all’altezza di tale sfida?
Sergio Cesaratto
Fonte: www.ilmanifesto.it
14.07.2012