ATTACCO SPECULATIVO. LA CRISI DEL SISTEMA FINANZIARIO MONDIALE

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Causale: Raccolta fondi

I predatori finanziari hanno avuto la palla
Tsunami finanziario, (parte V)

DI F. WILLIAM ENGDAHL

Global Research

Danni collaterali enormi

I primi segni del crollo delle cartolarizzazioni statunitensi multitrilionarie si erano avuti a giugno 2007, con la crisi di liquidità di due hedge fund della Bear Stearns (una delle banche d’investimento più grandi e di successo a livello mondiale) che avevano largamente investito in titoli ipotecari subprime. La crisi aveva poi traversato l’Atlantico e aveva colpito una banca statale tedesca poco nota, l’IKB. A luglio 2007, la Rhineland Funding, una consociata interamente controllata dall’IKB, aveva circa 20 miliardi di euro di ABCP (Asset Backed Commercial Paper), che a metà mese gl’investitori avevano rifiutato in parte di rinnovare. La Banca centrale europea era stata quindi obbligata a immettere sul mercato un’enorme quantità di liquidità per mantenere solvibile il sistema bancario.

La Rhineland Funding aveva chiesto all’IKB di aprire una linea di credito, ma la banca dovette ammettere di non disporre di contanti o titoli in quantità sufficiente a soddisfare la richiesta della consociata, e venne salvata solo grazie a una linea di credito di emergenza di 8 miliardi di euro fornita dal suo maggiore azionista, la Kreditanstalt für Wiederaufbau (ironia della sorte, la banca che alle fine degli anni ’40 aveva guidato il piano Marshall per la ricostruzione della Germania). Ben presto sarebbe apparso evidente che l’economia statunitense aveva bisogno di un nuovo Piano Marshall, o del suo equivalente finanziario; ma per il momento non c’erano donatori pronti a fare il primo passo.Anziché bloccare il panico, l’intervento della KfW spinse ad accaparrarsi le riserve e a disfarsi di tutti i SIV (Structured Investment Vehicles) posseduti dalle banche internazionali fuori bilancio.

L’ABCP era uno dei maggiori risultati della rivoluzione della cartolarizzazione dei titoli propugnata da Greenspan e dal mondo finanziario americano. Si trattava di strumenti autonomi delle più importanti banche, creati appositamente per far scomparire il rischio dal loro bilancio.

I SIV dovevano distribuire obbligazioni creditizie a breve sostenute dal flusso di pagamenti in contanti del soggiacente portafoglio titoli della consociata. L’ABCP era un debito a breve (generalmente di durata non superiore ai 270 giorni)

esentato dagli obblighi di registrazione dell’US Securities Act del 1933 e distribuito in genere sotto forma di operazioni commerciali o con carta di credito, prestiti e leasing per auto o macchinari, obbligazioni collaterizzate.

Nel caso dell’IKB tedesca, il flusso di cassa avrebbe dovuto provenire dal suo portafoglio di obbligazioni immobiliari subprime statunitensi e di CDO (Collateralized Debt Obligations). Il principale rischio per gl’investitori in ABCP era il deterioramento patrimoniale, l’inesigibilità dei prestiti individuali a garanzia: esattamente quello che incominciò a ripetersi a catena sui mercati obbligazionari statunitensi nel corso dell’estate 2007.

Il problema con le CDO era che, una volta emesse, avevano una scarsa commercializzazione. Il loro valore era definito non dal mercato ma da complicati modelli teorici.

Quando l’estate scorsa hanno avuto bisogno di liquidità per far fronte alle vendite repentine e massicce, i detentori di CDO di tutto il mondo si sono accorti che il loro valore di mercato era di gran lunga inferiore a quello di emissione. Invece di creare liquidità vendendo CDO, hanno quindi dovuto vendere azioni di prima scelta, titoli governativi, metalli preziosi.

Per dirla in parole semplici, la crisi delle CDO ha portato a una perdita di valore delle azioni e delle stesse CDO. La caduta dei prezzi delle azioni ordinarie ha contagiato gli hedge fund. I drammatici collassi a catena non erano stati predetti da nessun modello teorico basato sulla massa circolante di hedge fund e hanno causato grosse perdite in quest’area del mercato, con in prima linea i due hedge fund creati da Bear Stearns. A loro volta le enormi perdite dei principali hedge fund hanno generato ulteriore incertezza e hanno amplificato la crisi.

È stato l’inizio di un colossale danno collaterale. Tutti i modelli si sono sgretolati.

La mancanza di trasparenza è alla base della crisi che infine è venuta prepotentemente alla ribalta a metà 2007. Una mancanza di trasparenza dovuta al fatto che, invece di ripartire il rischio in modo trasparente come previsto dalle teorie economiche accreditate, gli operatori del mercato avevano preferito “cartolarizzare” i titoli pericolosi, favorendo valori ad alto rendimento e alto rischio, senza però indicarlo in modo chiaro. Le agenzie di rating avevano inoltre chiuso un occhio sui rischi insiti in siffatti prodotti. E il fatto che fossero raramente trattati significava che il valore anche solo approssimato di questi prodotti finanziari strutturati non era noto.

Gl’insegnamenti ignorati dell’LTCM

Col crollo di fiducia tra le banche del mercato internazionale interbancario, il cuore di quell’universo finanziario che tratta gli ABCP, il sistema bancario si trova ora ad affrontare una crisi dell’intero sistema, che minaccia un collasso a catena simile a quello del 1931, quando, per ragioni politiche, le istituzioni bancarie francesi affondarono l’Austrian Creditanstalt. La Nuova finanza di Greenspan è stata all’origine della nuova instabilità, dell’era della turbolenza per parodiare il titolo della sua autobiografia.

Il sistema finanziario mondiale si è trovato di fronte alla minaccia di una crisi del sistema già col recente collasso dell’hedge fund LTCM (Long-Term Capital Management) di Greenwich (Connecticut) a settembre 1998. Solo un intervento estremamente ben coordinato della banca centrale, guidata dalla FED di Greenspan, evitò all’epoca una slavina epocale.

La crisi dell’LTCM conteneva il germe di tutto quello che oggi sta andando a rotoli sui mercati da svariati trilioni di dollari della cartolarizzazione. Fatto strano, Greenspan e altri responsabili hanno sistematicamente rifiutato di assimilare quest’insegnamenti.

L’inizio della crisi dell’LTCM è stato un evento non previsto nei modelli di rischio degli hedge fund, le cui strategie d’investimento si basavano su quello che veniva considerato un mix di valute straniere e obbligazioni con una volatilità che poteva essere prevista usando i dati ricavati dall’esperienza di commercializzazione. Quando la Russia annunciò la svalutazione del rublo e l’insolvibilità delle sue obbligazioni di stato, i parametri dei modelli di rischio dell’LTCM esplosero letteralmente, e con essi lo stesso fondo. L’insolvibilità del debito di un governo era un evento “anormale”.

A differenza delle previsioni dei modelli di rischio usati da Wall Street, il mondo reale non è affatto normale, ma è invece piuttosto imprevedibile.

Per coprire le perdite, il fondo LTCM e le banche partecipanti, ormai in preda al panico, cominciarono a svendere tutto ciò che potevano liquidare, generando un’ondata di vendite da parte degli altri hedge fund e delle banche, preoccupate di coprire le posizioni scoperte. Come logica reazione, il mercato azionario statunitense ebbe un crollo del 20% e quello europeo del 35%. Gli investitori cercarono la salvezza nelle obbligazioni del tesoro USA, facendo scendere i tassi d’interesse di oltre un punto. Gl’investimenti ad elevato rating dell’LTCM cominciarono a questo punto a crollare. A fine agosto 1998 gl’investimenti di capitale avevano perso il 50% del loro valore.

Nell’estate del 1997 – durante gli attacchi degli hedge fund sulle vulnerabili valute di Thailandia, Indonesia, Malaysia e altre economie asiatiche ad alto tasso di crescita – Mahathir Mohamad, primo ministro della Malaysia, evocò apertamente la necessità di maggiori controlli internazionali sulle torbide speculazioni degli hedge fund, e additò a chiare lettere il Quantum Fund di George Soros come uno dei più distruttivi. Le pressioni statunitensi, in particolare del segretario del dipartimento del tesoro Robert Rubin e della FED di Greenspan, impedirono qualsiasi indagine su questi torbidi hedge fund offshore, che furono invece lasciati crescere fino al punto di gestire, nel 2007, beni per oltre 14,4 trilioni di dollari.

Modelli di rischio tragicamente errati

Il punto della crisi LTCM che ha scosso le fondamenta del sistema finanziario mondiale era: chi vi era coinvolto e quali presupposti economici aveva adottato? Si trattava degli stessi presupposti di base usati per elaborare i tragicamente difettosi modelli di rischio della cartolarizzazione dei titoli.

All’inizio del 1998, LTCM aveva un capitale di 4,8 miliardi di dollari e un portafoglio di 200 miliardi di dollari, generato dalla sua capacità di finanziamento o dalle linee di credito concesse da tutte le più importanti banche statunitensi ed europee, bramose di ottenere da un fondo di grande successo utili da non dichiarare. L’LTCM gestiva derivati con un valore figurativo totale pari a 1.250 miliardi di dollari. Un hedge fund offshore non sottoposto a regolamentazione e con un portafoglio di opzioni e altri derivati finanziari dal valore nominale enorme: prima di allora non ci si era mai sognati di poter arrivare a tanto. Ma il sogno si è trasformato ben presto in incubo.

Nel linguaggio di Wall Street, l’LTCM era un fondo ben dotato, incredibilmente bene, e con una reputazione talmente solida che uno degl’investitori era la Banca centrale italiana. Tra le banche più importanti che hanno buttato i propri soldi nell’LTCM sperando di saltare sul treno in corsa e trarre ingenti profitti si contano Bankers Trust, Barclays, Chase, Deutsche Bank, Union Bank of Switzerland, Salomon Smith Barney, J.P.Morgan, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Crédit Suisse, First Boston, Morgan Stanley Dean Witter, Société Générale, Crédit Agricole, Paribas, Lehman Brothers. Si tratta delle stesse banche che meno di dieci anni dopo ritroveremo al centro della crisi della cartolarizzazione del 2007.

Parlando alla stampa, Rubin, segretario del tesoro, aveva all’epoca dichiarato “L’LCTM è stato un caso eccezionale in cui la FED di New York aveva ritenuto che vi potesse essere una possibilità di cedimento del sistema. Era stato quindi riunito un gruppo di istituzioni del settore privato che aveva scelto la soluzione economicamente più interessante per loro”.

L’orgoglio per l’LCTM si doveva al “gruppo da sogno” che lo gestiva. Il creatore e direttore generale del fondo era John Meriwether, un operatore leggendario che aveva lasciato la Salomon Brothers dopo lo scandalo sull’acquisto di obbligazioni del Tesoro americano, cosa che non aveva peraltro intaccato la sua sicurezza. Alla domanda se credesse nell’esistenza di mercati efficienti, aveva con grande modestia risposto “IO LI HO RESI efficienti”. Il fondo contava tra i suoi principali azionisti due eminenti esperti nella “scienza” del rischio, Myron Scholes e Robert Merton (che nel 1997 avevano ricevuto dall’Accademia svedese delle scienze il premio Nobel per l’economia grazie al loro lavoro sui derivati), e un affascinante gruppo di professori in scienza delle finanze, dottori in matematica e fisica, e altri “prestigiosi scienziati” capaci d’inventare schemi finanziari estremamente complessi, audaci e lucrosi.

Black-Scholes, difetti fondamentali e modelli di rischio

C’era solo un piccolo problema. Gli assiomi sul rischio, a partire dai quali Scholes e Merton avevano costruito tutti i loro modelli, erano sbagliati: poggiavano sulla sabbia e risultavano erronei in modo catastrofico e totale. I due economisti avevano elaborato un modello matematico di opzione dei prezzi che dava per scontata l’esistenza di “mercati perfetti” talmente sviluppati da impedire alle azioni degli operatori d’influire sui prezzi, e partivano dal principio che mercati e operatori agissero in modo razionale. La realtà suggerisce il contrario: a lungo termine, i mercati sono intrinsecamente irrazionali. Negli ultimi due o tre decenni, i modelli di calcolo dei rischi di Black, Scholes e altri, hanno consentito alle banche e alle istituzioni finanziarie di sostenere che la tradizionale prudenza nei finanziamenti era oramai superata. Con le opportune assicurazioni sulle opzioni, il rischio era ormai un pericolo trascurabile. Festeggiate e siate felici…

Naturalmente erano state trascurate le condizioni reali del mercato in tutti i casi di crisi successive all’introduzione del modello Black-Scholes nel Chicago Board Options Exchange, il ruolo critico delle opzioni e delle “assicurazioni di portafoglio” nel crollo del 1987, le cause del panico che nel 1998 distrussero il Long Term Capital Management (nel quale Scholes e Merton erano partner). Wall Street – così come gli economisti e i governatori della FED di Greenspan – ignorò beatamente l’evidenza.

I mercati finanziari, contrariamente al dogma insegnato da decenni in tutti i corsi di economia, non sono modelli fluidi e ben congegnati che seguono la curva a campana di Gauss come se fosse una legge universale. Il fatto che i principali ideatori delle moderne teorie dell’ingegneria finanziaria (adesso definita “economia finanziaria”, termine che suona molto meglio) siano stati insigniti del premio Nobel ha dato a questi scadenti modelli un’aura d’infallibilità papale. Il comitato svedese premiò Harry Markowitz e Merton Miller tre anni dopo il crollo del 1987, e Robert Merton e Myron Scholes nel 1997, in piena crisi asiatica.

L’aspetto più sorprendente di questi scadenti modelli di rischio, usati sin dalle origini dei derivati finanziari degli anni ’80 e fino alla crescita esplosiva della cartolarizzazione dei titoli nell’ultimo decennio, è il fatto che abbiano suscitato pochissime perplessità.

L’LTCM aveva assunto i due migliori banchieri d’investimento di Wall Street, due premi Nobel che avevano letteralmente inventato la teoria del calcolo del valore dei derivati in tutte le situazioni, dalle azioni alle valute. Per guidare il gruppo di supergeni dell’LCTM, David Mullins, ex vicepresidente della FED all’epoca di Alan Greenspan, aveva lasciato il suo incarico con il Maestro per diventare partner del fondo. Nonostante tutto, gli operatori dell’LTCM e quelli che li seguirono fin sull’orlo dell’abisso finanziario dell’agosto 1998 non avevano un fondo che li proteggesse dal pericolo cui ora dovevano far fronte: il rischio del sistema, proprio ciò che, al momento dell’insolvibilità dello stato russo, avevano definito un “evento impossibile”.

Nonostante l’evidente insegnamento del crollo traumatico dell’LTCM, che non esistono derivati in grado di assicurare contro il rischio del sistema, Greenspan, Rubin e le banche di New York continuarono a costruire i loro modelli di rischio come se non fosse successo niente. Liquidarono l’insolvibilità dello stato russo come “qualcosa che capita una volta in cento anni”, completarono i preparativi per la bolla dot.com e, subito dopo, per la più grande bolla finanziaria che la storia ricordi, quella della cartolarizzazione dei valori del 2002-2007.

La vita non è una curva di Gauss

Il rischio e la sua quantificazione non si comportano come una curva di Gauss, quanto meno non nei mercati finanziari o nello sfruttamento dei campi petroliferi. Nel 1900 Louis Bachelier, un oscuro matematico e speculatore finanziario francese, arrivò alla conclusione che le variazioni delle quotazioni obbligazionarie e azionarie seguivano la curva a campana che un matematico tedesco, Carl Friedrich Gauss, aveva calcolato per mappare le probabilità statistiche di vari eventi. La curva di Gauss presumeva una leggera forma di casualità nella fluttuazione dei prezzi, proprio come il test del Q.I. definisce 100 la “media”, il picco della curva a campana. Si tratta di un’utile alchimia, ma pur sempre di un’alchimia.

Il presupposto che le variazioni delle quotazioni finanziarie si comportassero fondamentalmente come la curva di Gauss permise ai geni di Wall Street di creare un flusso ininterrotto di nuovi prodotti finanziari sempre più complessi e oscuri. Le teorie vennero modificate in conseguenza, e venne aggiunta la “legge dei grandi numeri”, in base alla quale, quando il numero di eventi è sufficientemente ampio (ad esempio nel lancio della monetina a testa e croce), il valore converge nel lungo periodo verso un punto di stabilità. La legge dei grandi numeri, che in realtà non ha nulla di scientifico, permise a banche come Citigroup o Chase di distribuire centinaia di milioni di carte Visa senza controllare la solvibilità dei clienti, partendo dal principio che in tempi “normali” gl’impagati delle carte di credito erano talmente rari da non meritare di essere presi in conto.

I problemi con i modelli basati sulla curva di Gauss o sulla legge dei grandi numeri nascono quando i tempi non sono normali, ad esempio in presenza di una profonda recessione come quella che l’economia USA sta oggi affrontando, una recessione paragonabile forse solo a quella del 1931-1939.

Il punto notevole è che gli studiosi di economia statunitensi, i banchieri d’investimento di Wall Street, i governatori della FED, i segretari del Tesoro, i giudici del premio Nobel per l’economia, il Cancelliere dello Scacchiere inglese, i banchieri di High Street, i dirigenti della Banca d’Inghilterra, tanto per citare i nomi più illustri, erano tutti più che disposti a chiudere un occhio sul fatto che la teoria economica, le teorie sul comportamento dei mercati, le teorie sulla valutazione del rischio dei derivati, non potevano prevedere, e meno ancora evitare, sorprese non lineari. Non avevano potuto prevedere lo scoppio delle bolle speculative dell’ottobre 1987, o del febbraio 1994, o del marzo 2002, e meno ancora del giugno 2007. Non avevano potuto farlo perché il modello stesso creava le condizioni per bolle ancora più grandi e distruttive. L’economia finanziaria era solo un modo diverso di definire gli eccessi speculativi predatori.

Nonostante i premi Nobel, una teoria incapace di spiegare questi eventi gravi e sorprendenti non valeva la carta su cui era scritta. Ma i governatori della FED, primo tra tutti Alan Greenspan, e i ministri del tesoro statunitense, con in testa Robert Rubin, Lawrence Summers e Henry Paulsen, riuscirono a fare in modo che il Congresso non provasse nemmeno a regolamentare gli esotici strumenti finanziari che stavano creando, basandosi su una teoria che non aveva niente a che vedere con la realtà.

Il 29 settembre 1998 la Reuters indicava che “ogni tentativo di regolamentare i derivati, anche dopo il collasso (e il salvataggio) dell’LTCM, è fallito. Il testo approvato nella tarda giornata di lunedì dai negoziatori della Camera e del Senato USA impedisce alla CFTC (l’agenzia governativa che teoricamente controlla le operazioni con derivati) di ampliare le sue norme sui derivati. All’inizio del mese il presidente repubblicano della Camera e il comitato senatoriale per l’agricoltura avevano chiesto di limitare le competenze normative della CFTC sui derivati del mercato terziario, facendosi eco delle preoccupazioni del settore”. Il settore significava, ovviamente, le grandi banche.

La Reuters aggiungeva che “quando l’CFTC metteva sul tavolo il soggetto iniziale della normativa, Alan Greenspan, direttore della FED, e Rubin, segretario del Tesoro, si precipitavano a difendere il settore affermando che non aveva bisogno di normative, il cui unico risultato sarebbe stato quello di spostare gli affari oltreoceano”.

Il rifiuto incessante di consentire un controllo normativo dei nuovi esplosivi strumenti finanziari, dagli swap sui crediti impagati ai titoli garantiti da ipoteche, la miriade di esotiche innovazioni finanziarie dello stesso tipo “per frammentare il rischio” e l’abrogazione finale nel 1999 del Glass-Steagall Act, che separava rigidamente le banche operanti sui titoli da quelle commerciali, aprirono la strada a quella che nel giugno 2007 si trasformerà nella seconda grande depressione in meno di un secolo e darà avvio a quella che i futuri storici descriveranno come la morte degli Stati Uniti come potenza finanziaria mondiale dominante.

“Prestiti ai bugiardi” e NINA: le banche in un vortice di frodi

In poche settimane i maggiori operatori del mondo finanziario di New York avevano già dimenticato gl’insegnamenti dell’insolvibilità russa del 1998 e della crisi del sistema LTCM.

Sostenuti dai magici analisti di MBA, dai modelli a curva di Gauss e da modelli di rischio gravemente lacunosi, i giganti finanziari del mondo bancario statunitense lanciarono una serie di megafusioni e cominciarono a creare nuovi ingegnosi sistemi per lasciare i rischi dei prestiti fuori dai loro libri contabili. In questo modo aprirono le porte alla più grande era di frodi finanziarie e societarie della storia, la cartolarizzazione delle obbligazioni.

Quando, a fine 1999, le pressioni di Greenspan e Rubin riuscirono a fare definitivamente abrogare il Glass-Steagall Act, le banche si sentirono finalmente libere di operare a tutto campo, dalle società assicurative al credito al consumo al finanziamento immobiliare. Il paesaggio bancario americano subì un cambiamento drastico. La rivoluzione della cartolarizzazione delle obbligazioni poteva oramai essere lanciata.

Con il Glass-Steagall Act fuori gioco, la FED controllava solo le holding bancarie e le sussidiarie che operavano esclusivamente nel settore commerciale. Fu così che Citigroup scelse di eliminare Citibank dal settore subprime e creare al suo posto CitiFinancial, una sussidiaria interamente controllata che poteva operare in base a leggi e norme del tutto differenti.

CitiFinancial emise ipoteche indipendentemente da Citibank. Le organizzazioni dei consumatori accusarono CitiFinancial di essersi specializzata in “prestiti predatori”: venditori e operatori ipotecari poco scrupolosi allettavano con finanziamenti famiglie o persone del tutto incapaci di capire e gestire i rischi. E il modo di agire di Citigroup era quello tipico della maggior parte delle grandi banche.

L’8 gennaio 2008 Citigroup ha annunciato con grande clamore la pubblicazione del suo bilancio consolidato “nel settore delle ipoteche su beni mobili negli USA”, che include emittente, servizi e cartolarizzazione dell’ipoteca. Stranamente il documento non parla della CitiFinancial, la sussidiaria più a rischio.

La scappatoia dell’accordo “Basilea I”

A spingere le banche verso la cartolarizzazione e la proliferazione di rischi fuori bilancio, incluse posizioni derivate ad alto leverage, fu il Basle Bank for International Settlements Capital Adequacy Accord del 1987, oggi noto come “Basilea I”. Questo accordo tra le banche centrali delle maggiori economie mondiali imponeva alle banche di accantonare l’8% dei normali prestiti commerciali a titolo di riserva contro possibili future situazioni d’insolvibilità. Su pressione degli USA, “Basilea I” non parlava degli all’epoca nuovi derivati finanziari.

In origine l’ultraconservatrice Bundesbank tedesca e le altre banche centrali europee avevano visto l’accordo come un modo per imbrigliare le più speculative banche commerciali giapponesi e statunitensi, che avevano provocato la peggiore crisi bancaria dagli anni ’30 in poi. L’obiettivo era quello di obbligare le banche a ridurre i rischi del credito, ma il risultato fu esattamente opposto, dato che queste trovarono ben presto una scappatoia: le transazioni fuori bilancio, in particolare posizioni derivate e cartolarizzazione, che erano state escluse dall’accordo “Basilea I” e non imponevano quindi alle istituzioni finanziarie di accantonare capitale per coprire le perdite potenziali.

Dal punto di vista bancario, l’eleganza della cartolarizzazione dei prestiti, ad esempio le ipoteche immobiliari, consisteva nella possibilità di concedere il prestito o l’ipoteca e rivenderlo immediatamente a un cartolarizzatore o assicuratore, che raggruppava poi centinaia di prestiti in un nuovo ABS. Questa apparentemente geniale novità era però molto più pericolosa di quanto sembrasse. Le banche emittenti non dovevano più iscrivere per 20 o 30 anni i prestiti ipotecari nei loro libri contabili, come in passato: li rivendevano a prezzo scontato e usavano la liquidità disponibile per un nuovo giro di prestiti.

E questo significava anche che la banca emittente non doveva più preoccuparsi di sapere se il prestito sarebbe stato effettivamente rimborsato.

Frodi alla moda

Non ci volle molto prima che le banche statunitensi si rendessero conto di essere sedute su una miniera d’oro che faceva impallidire la corsa all’oro californiana: potevano far soldi sul solo volume di prestiti e rivenderli ai cartolarizzatori, dato che non dovevano più preoccuparsi di sapere se chi aveva acceso, diciamo, un’ipoteca immobiliare sarebbe stato in grado nei decenni successivi di ripagare il debito.

Ben presto le banche scelsero di esternalizzare a operatori indipendenti la concessione dei prestiti. Invece di effettuare propri controlli sulle capacità di credito dei richiedenti, si affidavano esclusivamente a formulari online, simili a quelli per il rilascio della carta Visa, senza ulteriori accertamenti. E i prestatori cominciarono a offrire incentivi per spingere gli operatori ad aumentare il volume di finanziamenti sottoscritti, un altro stimolo a frodi massicce. Le banche guadagnavano con gli elevati volumi di prestiti che poi rivendevano ai cartolarizzatori. Il tradizionale universo bancario era finito a gambe all’aria.

E poiché non avevano più alcun interesse a garantire la solidità dei beneficiari di prestiti con pagamenti minimi in contanti e con un accurato controllo dei precedenti di credito, molte banche statunitensi, al solo scopo di far lievitare il volume dei finanziamenti e le entrate, cominciarono a concedere quelli che definivano cinicamente i “prestiti ai bugiardi”. Sapevano che per concedersi la casa sognata molti mentivano sulle proprie capacità di credito ed entrate, ma non se ne preoccupavano: avrebbero rivenduto il rischio quando l’inchiostro sul contratto era ancora fresco.

Per questi prestiti nel 2002 fu coniata una nuova terminologia, ad esempio “ipoteche NINA” (No Income, No Assets). “Nessun problema, egregio signor Bianchi. Eccole 400.000 dollari per la sua nuova casa, ne approfitti”.

Ora che non c’era più l’ostacolo del Glass-Steagall Act, le banche potevano creare una miriade di strutture individuali interamente possedute per gestire il boom delle ipoteche immobiliari. Il gigante in questa attività era Citigroup, il più grande gruppo bancario statunitense, con titoli per oltre 2,4 trilioni di dollari.

Citigroup includeva Travelers Insurance (un assicuratore sottoposto a norme statali), la vecchia Citibank (una grande banca commerciale per privati), Smith Barney (una banca d’investimenti), CitiFinancial (un aggressivo finanziatore di subprime e, secondo numerosi rapporti di associazioni dei consumatori, uno dei più aggressivi predatori che spingeva all’acquisto di ipoteche subprime richiedenti spesso ignari o insolventi, e non di rado dei sobborghi ispanici o neri più poveri), Universal Financial Corp. (una dei più importanti emissori di carte di credito del paese, che aveva usato la cosiddetta “legge dei grandi numeri” per ampliare la sua base di clienti con rischiosi crediti sempre più fantasiosi).

Citigroup includeva anche Banamex (la seconda banca messicana in ordine di grandezza) e Banco Cuscatlan (la più grande banca salvadoregna). In Messico, la Banamex era una delle banche più sospettate di riciclaggio di valute, un’attività non estranea a Citigroup, che nel 1999 era stata indagata dal congresso USA e dal GAO (Government Accountability Office) per il riciclaggio di 100 milioni di dollari per conto di Raul Salinas, fratello dell’allora presidente messicano. Gl’investigatori avevano inoltre scoperto che la banca aveva riciclato soldi per conto di funzionari corrotti di vari paesi, dal Pakistan al Gabon e alla Nigeria.

Il comportamento di Citigroup era tipico di quel che accadde al mondo bancario statunitense dopo il 1999. Si trattava di una realtà completamente diversa da qualsiasi altra precedente, con la possibile eccezione dei ruggenti anni ’20. Il livello di frode sui prestiti e gli abusi che vi fecero seguito nella nuova era di cartolarizzazione dei valori faceva vacillare l’immaginazione.

La palla ai predatori

Un’organizzazione statunitense di consumatori ha documentato alcune delle peggiori tecniche predatorie usate nei finanziamenti durante il boom immobiliare:

“Nel primo decennio del XXI secolo, negli USA esistono organizzazioni di facciata che offrono questi prestiti. Alcune sono vecchie (Household Finance e Beneficial, ad esempio), altre, come CitiFinancial, sono nuove, ma tutte offrono prestiti a tassi che superano il 30%. E il settore si sta sviluppando: le plusvalenze, afferma Wall Street, sono troppo interessanti per ignorarle. Citibank paga un interesse inferiore al 5% sui depositi che raccoglie. Le sussidiarie che agiscono da veri pirati caricano un interesse quattro volte superiore, anche sui finanziamenti garantiti dalla casa del richiedente. È un plusvalore da non trascurare. Anche se l’economia si sposta a sud possono raccogliere e rivendere collaterali. L’attività è mondiale: la HSBC (Hong Kong & Shanghai Banking Corporation) vuole esportarla negli oltre 80 paesi in cui ha sportelli al pubblico. Gl’investitori istituzionali amano il modello finanziario e le banche d’investimento cartolarizzano i prestiti. Si tratta di termini che chiariremo più oltre. La base, sulla quale si sostiene l’intera piramide, resta il singolo cliente di quello che è chiamato punto di vendita… punti e costi possono essere aggiunti alla somma prestata.

CitiFinancial e Household Finance sostengono la necessità di un’assicurazione, che può essere offerta in varie forme (vita, infortuni, perdita del lavoro, sui beni mobili), ma che in ogni caso viene aggiunta al capitale e sulla quale vengono calcolati gl’interessi. Vengono definite “a premio unico”: invece di versare la copertura assicurativa ogni mese si paga in anticipo con soldi sui quali sono stati caricati altri interessi. In caso di rifinanziamento non vengono rimborsati. Sono soldi sprecati, ma in genere al punto di vendita non lo fanno notare.

Prendete, ad esempio, l’acquisto di mobili. Una camera da letto può costare 2.000 dollari, e la pubblicità parla di “Easy Credit”, a volte scritto “E-Z”. Il venditore non gestisce i conti, ma si rivolge a CitiFinancial, ad HFC o magari alla Wells Fargo. Mentre la FED presta soldi alle banche a tassi inferiori al 5%, queste affiliate caricano interessi del 20, 30 o 40%. I mobili vengono assicurati per proteggervi, dicono, da eventuali sequestri in caso di morte o perdita dell’impiego. Prima che il debito sia stato interamente rimborsato avrete finito con lo sborsare, vivi o morti, un prezzo superiore a quello di un’auto di gran lusso.

A metà strada verrete contattati per un’offerta apparentemente allettante: se collaterizzate la vostra casa, l’importo delle rate diminuirà e la durata del prestito verrà prolungata. Un’ipoteca di 20 anni, a tasso fisso o variabile: ma il tasso sarà elevato e le clausole ben nascoste. Ad esempio: se rimborsate il prestito troppo presto dovrete accollarvi una penale per pagamento anticipato. Oppure, se pagate a piccole rate vi potrà essere chiesto di aumentare l’importo, con quello che è chiamato un “balloon”. Non vi è possibile farlo? Nessun problema; le banche sanno benissimo che non potete. Il loro unico scopo è rifinanziare il vostro debito e addossarvi ancora nuovi costi e interessi.

Nei secoli scorsi, questo sistema veniva chiamato “peonaggio”. Oggi è la volta del cosiddetto schiavo del subprime. Un buon 20% dei proprietari statunitensi vengono classificati subprime, ma almeno la metà di coloro che hanno avuto prestiti di questo tipo avrebbero potuto pagare rate normali, affermano Fannie Mae e le autorità di Washington. È la legge della giungla: la sola regola è l’attenzione del compratore. Ma per alcuni è più facile che per altri.

Perché qualcuno deve pagare tanto di più? Nei sobborghi a basso reddito del paese (talvolta chiamati ghetti o, eufemisticamente, inner city) mancano gli sportelli bancari. Alla fine del xx secolo, molte istituzioni finanziarie lasciarono marcire la situazione: rifiutavano di concedere prestiti o di rilasciare assicurazioni.

Negli anni ’80 intervistai un anziano banchiere di Wall Street, e gli chiesi informazioni sulle attività della sua banca a Cali (Colombia) nell’epoca d’oro del cartello della coca. Parlando a titolo confidenziale, mi disse che “le banche sarebbero pronte a uccidere per avere una fetta della torta, che è veramente lucrativa”. Ovviamente si gettarono sui prestiti subprime con lo stesso approccio affaristico e per ottenere utili grandi quanto quelli del riciclaggio dei proventi della droga.

Alan Greenspan sostenne apertamente l’estensione dei prestiti bancari agli abitanti dei ghetti più poveri. Edward M. Gramlich, un governatore della FED morto nel settembre 2007, mise in guardia diciassette anni orsono sul fatto che un nuovo manipolo di usurai in rapida crescita stava trascinando molta gente in ipoteche rischiose che non potevano sostenere. Quando Gramlich sollecitò privatamente la FED a indagare sulle strutture affiliate a banche nazionali che concedevano ipoteche, fu ammonito da Alan Greenspan. Greenspan gestì la FED col potere di un monarca assoluto.

Rivelando quella che quasi certamente è solo la piccola parte visibile di una vasta truffa, l’FBI ha di recente annunciato che sta indagando 14 aziende per possibili frodi fiscali, insider trading o altre infrazioni legate ai prestiti immobiliari concessi a richiedenti a rischio. L’FBI ha dichiarato che l’indagine coinvolge società di tutto il settore dei servizi finanziari, dalla concessione di ipoteche alle banche d’investimento che inglobano prestiti immobiliari in titoli venduti agl’investitori.

Nel contempo, le autorità di New York e del Connecticut stanno cercando di scoprire se le banche di Wall Street non hanno nascosto informazioni cruciali sui prestiti ad alto rischio inglobati nei titoli venduti agl’investitori. Richard Blumenthal, procuratore generale del Connecticut, ha dichiarato che lui e Andrew Cuomo, il suo omologo di New York, stanno controllando se le banche hanno correttamente evidenziato gli elevati rischi d’insolvibilità dei cosiddetti “prestiti eccezionali”, considerati ancora più pericolosi dei subprime, al momento di vendere i titoli agl’investitori. Lo scorso novembre Cuomo ha emesso ordini di citazione nei confronti di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società di credito ipotecario sponsorizzate dal governo, nell’ambito di un’indagine su quelli che considera conflitti d’interesse nel settore del credito ipotecario. Il procuratore ha affermato che voleva informazioni sui miliardi di dollari in prestiti immobiliari che avevano ricomprato dalle banche, inclusa la Washington Mutual Inc., la più grande azienda statunitense di risparmio e prestiti, e su come erano state fatte le valutazioni.

L’FBI ha spiegato di stare esaminando le procedure dei venditori di subprime e le possibili frodi contabili commesse da società finanziarie che avevano registrato i prestiti nella propria contabilità o li avevano cartolarizzati ad altri investitori. Morgan Stanley, Goldman Sachs Group Inc. e Bear Stearns Cos. hanno sottolineato che stanno rispondendo con spirito cooperativo alle richieste d’informazioni formulate da varie non specificate agenzie normative e governative.

In un promemoria inviatomi, un ex operatore immobiliare della Pacific Northwest, uscito dal settore disgustato dalle pressioni per vendere ipoteche a clienti non qualificati, ha descritto alcune delle pratiche più correnti:

Il fiasco subprime è un discreto incubo, ma gli ARM (adjustable prime mortage, ipoteca a tasso variabile) sono un disastro potenziale inarrestabile. Il primo “intoppo” si è manifestato a luglio/agosto 2007, con il “fiasco subprime”, ma a novembre 2007 eravamo già in presenza di qualcosa molto più grande di un semplice intoppo; è in quel mese che gli ARM sono saliti.

In altri termini, allo “scadere del primo anno di prestito” l’ARM sale obbligando a un rimborso mensile più alto. La ragione è che gli ARM sono stati “concessi” a un tasso “specchietto”, di solito tra l’1 e l’1,5%. I pagamenti con un tasso simile sono molto attraenti, ma non riducono il capitale da restituire, anzi generano interessi d’impagato che vengono inglobati nel totale del prestito. Per l’intero primo anno i debitori possono effettuare rimborsi a un tasso ridicolo, che in realtà è vantaggioso solo il primo mese.

Le preoccupazioni sull'”ammortamento negativo”, in cui l’indebitamento sull’ipoteca supera il valore di mercato della proprietà, sono state liquidate ricordando la crescita del mercato immobiliare grazie alla bolla creata dalle stesse banche, definita normale e destinata a continuare. Tutto ciò è stato spinto da chi eroga ipoteche: orde di esperti finanziari e venditori sono stati mandati presso gli operatori ipotecari per spiegare come funziona il meccanismo.

I tassi d’interesse variabili sulle ipoteche immobiliari sono la somma del margine (il profitto della banca) e dell’indice (la previsione obiettiva del costo dei fondi concessi alla banca). L’indice si basa su varie attività economiche (quello che le banche del paese pagano per i certificati di deposito a 90 giorni o per i dollari al LIBOR (London Interbank Exchange). Il totale di margine e indice fornisce il tasso d’interesse reale sui prestiti (“tasso interamente indicizzato”), il tasso al quale, dopo 30 anni di rimborsi, il prestito sarà stato completamente ammortizzato.

Diciamo che ottengo un tasso d’interesse “reale” del 6% (3% margine e 3% indice). Con un prestito di 250.000 dollari la rata mensile al tasso dell’1% sarà di 804,10 dollari; questo è “il tasso specchietto” al netto delle tasse e dell’assicurazione. L’importo verrà modificato in funzione dei cambi dell’indice, ma il margine resterà immutato per tutta la durata dell’ipoteca.

Il contratto è strutturato in modo da modificare l’importo mensile del rimborso una sola volta all’anno, con un tetto del 7,5% rispetto ai pagamenti dell’anno anteriore. Il meccanismo può durare 5 anni (10 in caso di un solo erogatore del prestito) senza tener conto dell’evoluzione nel mondo reale. Poi, al termine dei 5 anni, il tetto massimo viene eliminato e i pagamenti vengono ricalcolati in base al “tasso interamente incidicizzato”.

Se il beneficiario del prestito ha pagato per tutto l’arco di tempo solo la rata minima consentita, si ritroverà a far fronte a un esborso da capogiro, a tre zeri. Se la casa ha perso il 25% del suo valore, il debitore, ora con un credito astronomico, viene spinto a cederla alla banca, che la svaluta di almeno un altro 25%.

Secondo un insider di Chicago, nella prima settimana del febbraio 2008 i banchieri statunitensi sono stati avvertiti di quanto segue:

· la Chase Manhattan Bank (“CMB”) ha diffuso tra i suoi clienti una serie enorme di estratti conto sulle un tempo assai popolari LOC (linee di credito), i cui termini sono ora stati rimaneggiati, mentre sono stati anche unilateralmente ridotti, talvolta fino al 50%, i valori delle proprietà a copertura. Ciò significa che i proprietari devono ora rimborsare un prestito per beni che apparentemente valgono la metà del capitale ottenuto, e pagarci anche gl’interessi. In molti casi, la sola cosa intelligente da fare è andarsene, con una ulteriore perdita patrimoniale che riduce il valore di tutti gl’immobili circostanti e si va ad aggiungere alla marea di pignoramenti.
· la situazione è particolarmente grave nei casi di LOC basate sulla “finanza creativa”, quelle che concedevano tra il 90 e il 100% del valore della proprietà prima che la bolla esplodesse…
* la CMB ha automaticamente chiuso le linee di credito con crediti “aperti” (quelle cioè sulle quali i beneficiari avevano risparmiato una parte del prestito per usi futuri) con un rapporto tra ammontare del prestito e valore della proprietà (LTV) dell’80%. L’operazione è stata condotta sulla massa delle LOC, senza alcun riferimento ai proprietari.

I limiti LTV (Loan to Value) significano che il totale che chi rilascia il prestito è pronto a concedere non può superare la percentuale fissata del valore della proprietà. In pratica, un perito viene incaricato di stimare il valore della proprietà, sulla base degli altri beni comparabili venduti in un raggio in linea di massima non superiore ai 1.500 metri dall’immobile in esame. Questa era la ricca frode ipotecaria in vigore prima dell’attuale Tsunami.

Questo è solo l’inizio dello Tsunami

La struttura dei modelli di rischio tragicamente errati adottati da Wall Street, da Moody’s, dagli assicuratori Monoline e dagli economisti del governo federale e della FED era tale da far pensare a tutti che una recessione non era più possibile, perché il rischio avrebbe potuto essere ripartito in tutto il mondo a tempo indefinito.

Tutte le operazioni cartolarizzate, per un totale superiore al trilione di dollari, venivano valutate partendo da questo erroneo principio. I trilioni di dollari di swap sui crediti impagati, l’illusione che i derivati permettessero di assicurarsi a poco costo contro i mancati pagamenti, erano pronti ad esplodere in un susseguirsi di crisi al primo cenno di cedimento del mercato immobiliare statunitense: più cadono i prezzi delle case, più le ipoteche vengono rinegoziate con tassi d’interesse sensibilmente più elevati, più la disoccupazione si diffonde in tutti gli Stati Uniti, dall’Ohio al Michigan, dalla California alla Pennsylvania, dal Colorado all’Arizona. Si tratta di una malsana spirale deflazionistica dei titoli.

Gli avvenimenti del settore subprime sono stati solamente il primo segno di quello che stava per saltar fuori, e ci vorranno anni prima che tutto sia finito. I problematici prodotti ABS sono stati usati come collaterali per concedere ulteriori crediti bancari, per acquisti con capitale di prestito da parte di società per azioni private, enti, addirittura amministrazioni locali. La piramide debitoria costruita con la cartolarizzazione dei titoli ha cominciato a perdere colpi quando i mercati mondiali si sono resi conto che nessuno conosceva il valore dei pezzi di carta cartolarizzati che possedeva.

In quella che potrebbe essere considerata una confessione tutta da ridere se le conseguenze della loro criminale negligenza non avesse conseguenze così drammatiche per milioni di americani, Standard & Poors, la seconda agenzia di rating in ordine d’importanza nel mondo, ha ammesso nell’ottobre 2007 “di avere sottostimato l’estensione della frode nel settore ipotecario statunitense”. Alan Greenspan ha sommessamente cercato di scaricare ogni responsabilità sostenendo che i prestiti subprime non erano un’operazione sbagliata, lo è stata invece la loro successiva cartolarizzazione. Il sistema che hanno tardato decenni a creare aveva in se stesso i germi della frode e della non trasparenza.

La prossima crisi riguarderà gli swap sui crediti impagati

Il crollo successivo nello Tsunami finanziario statunitense è stato quello degli assicuratori monolite, per i quali, escludendo una nazionalizzazione, non esistevano soluzioni possibili, vista l’importanza dei rischi non conosciuti. Il problema è stato discusso nella precedente parte IV. (in traduzione ndr)

La prossima imminente crisi sarà probabilmente quella del mercato da 45 trilioni dei CDS (swap sui crediti impagati) sul mercato terziario, una creazione della J.P. Morgan.

Come aveva sottolineato Greenspan, il mercato dei CDS è rimasto poco trasparente e senza una normativa; nessuno conosce quindi il livello di rischio in una economia con trend negativo. Grazie alla mancanza di regole, è spesso successo che i CDS siano stati rivenduti ad un’altra struttura finanziaria senza informarne la controparte originaria. In altri termini, non è certo che un investitore interessato a ricavare liquidità dai suoi CDS possa rintracciare il debitore. Il mercato dei CDS si concentra soprattutto nelle banche di New York, che a fine 2007 possedevano swap per un valore globale nominale di 14 trilioni. Le più esposte erano J.P. Morgan Chase (7,8 trilioni di dollari), Citigroup e Bank of America (3 trilioni di dollari ciascuna).

Il problema è aggravato dal fatto che il 16% circa dei 45 trilioni di CDS (cioè 7,2 trilioni) dovrebbero proteggere i possessori di CDO (obbligazioni garantite da ipoteche) su cui si concentrano i problemi di garanzie ipotecarie. Il mercato dei CDS è una bomba a tempo dagli effetti devastanti. Col diffondersi della crisi creditizia dei prossimi mesi, le società saranno inadempienti sulle proprie obbligazioni e le assicurazioni di CDS dovranno far fronte a una marea di richieste di risarcimento e di regole non trasparenti. A tutto febbraio 2008 non esiste una procedura di liquidazione delle richieste di risarcimento per un mercato del valore nominale di 45 trilioni di dollari.

Dato che nei prossimi mesi altre centinaia di migliaia di americani si ritroveranno, in base ai termini del loro ARM, con rate mensili di rimborso delle ipoteche drammaticamente aumentate, altri 690 miliardi di dollari di ipoteche immobiliari rischiano di essere impagati. Ne conseguirà un effetto valanga in termini di perdita di posti di lavoro, di spese con carte di credito non rimborsate, di crisi delle cartolarizzazioni nel vasto mercato delle cartolarizzazione dei debiti su carte di credito. Il punto interessante della faccenda è che una così grande parte del sistema finanziario del paese vi sia collegata. Nella storia degli USA non c’era mai stata una crisi di tale ampiezza.

A fine febbraio il londinese Financial Times ha rivelato che, “senza dare nell’occhio”, le banche statunitensi avevano acceso prestiti per 50 miliardi di dollari, usando una nuova linea speciale di credito della FED creata per alleviare la loro crisi di liquidità. Le perdite di tutti i maggiori gruppi bancari del paese – dalla Citigroup alla J.P.Morgan Chase e le altre principali banche – continuano ad aumentare, man mano che l’economia sprofonda in una recessione che si avvia chiaramente a diventare nei prossimi mesi una vera e propria depressione. Nessun candidato alla presidenza ha osato esporre in modo chiaro le proprie proposte per affrontare quello che sta diventando il più grosso pantano finanziario ed economico della storia americana.

Dagl’inizi del 2008 è apparso chiaro che la cartolarizzazione finanziaria si stava trasformando nell’ultimo giro di danza per gli USA, come superpotenza finanziaria mondiale.

Ci si chiede adesso quale nuovo centro di potere finanziario potrà ragionevolmente sostituire New York come nerbo mondiale. Ne riparleremo nella parte VI.

F.William Engdahl
Fonte: http://www.engdahl.oilgeopolitics.net/
Link
22.02.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO

Note:

1. Segretariato UNCTAD, Recent developments on global financial markets: Note by the UNCTAD secretariat, TD/B/54/CRP.2, Ginevra, 28 settembre 2007.

2. Per una discussione del poco conosciuto retroterra politico della crisi della Creditanstalt che nel 1931 provocò un collasso a catena delle banche tedesche, cfr. Engdahl, F. William, A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, 2004, Londra, Pluto Press, capitolo 6.

3. Schroy, John Oswin, Fallacies of the Nobel Gods: Essay on Financial Economics and Nobel Laureates, in http://www.capital-flow-analysis.com/investment-essays/nobel_gods.html .

4. Per un’interessante discussione dei difetti teorici fondamentali dei modelli oggi usati nei mercati economico e finanziario, e sulle elevate probabilità di catastrofici cambiamenti dei prezzi, raccomando il libro del matematico e inventore della geometria frattale Benoit Mandelbrot, in Mandelbrot, Benoit and Hudson, Richard L., The (mis) Behavior of Markets: A Fractal View of Risk, Ruin and Reward, Profile Books Ltd, Londra, 2004.

5. Ripreso da Inner City Press, The Citigroup Watch, 28 gennaio 2008, in www.innercitypress.org.citi.html .

6. Rainforest Action Network, Citigroup Becomes Mexico’s Largest Bank after Banamex Merger, August 10, 2001, in http://forests.org/archive/samerica/cibemexi.htm.

7. Lee, Matthew, Predatory Lending: Toxic Credit in the Inner City, 2003, InnerCityPress.org.

8. Andrews, Edmund L., Fed Shrugged as Sub-prime Crisis Spread, The New York Times, 18 dicembre 2007.

9. Zibel, Alan, FBI Probes 14 Companies Over Homae Loans, AP, 29 gennaio 2008.

10 Comunicazione riservata all’autore.

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