DI GIANLUCA FREDA
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La rovina del Partito Comunista Italiano ebbe inizio con l’ossessione per la “questione morale” di cui Enrico Berlinguer fu patrono ed untore. Fino alla fine degli anni ‘70, il PCI era rimasto, nonostante gli scossoni internazionali che avevano profondamente appannato il mito dell’URSS come “terra promessa” del proletariato, un partito di sana e discretamente robusta costituzione, felicemente assestato sui solidi parametri di una questione politica. Il suo obiettivo ultimo – così almeno lo interpretavano i suoi numerosi elettori – era un obiettivo politico: trasformare radicalmente i rapporti di forza sociali, scardinando alla base le istituzioni della società borghese per sostituirle con un nuovo schema in cui i rapporti di forza tra dominanti e dominati fossero completamente ridefiniti e parzialmente sovvertiti. Il politically correct e il ciarpame “non violento” erano ircocervi ancora sconosciuti.
Imperava invece il realismo e tutti – dai dirigenti del partito fino all’ultimo dei simpatizzanti – erano perfettamente consapevoli di quanto fosse semplicemente ridicolo anche soltanto immaginare un’opzione del genere senza contestualmente progettare un’azione armata di qualche tipo. Le amanti e le “favorite” dei parlamentari non avevano alcuno spazio sulla stampa, non perché ne girassero meno di oggi, ma perché la stampa si occupava di politica, che era ciò che alla gente interessava.
C’era meno televisione e dunque meno citrulleria. Anche un bambino capiva che ad un politico non bisogna chiedere di essere un anacoreta, ma di essere un buon politico. Così come nessuna persona sana di mente si sognerebbe mai di chiedere conto ad un bravo medico o ad un bravo ingegnere della sua vita sessuale e privata, contentandosi di godere della sua specifica professionalità, che è già rara ed è merce preziosa per qualunque collettività nazionale.
Poi nel PCI qualcosa si spezzò. Il terrorismo e il miraggio di riuscire a sfruttarne la parabola per ritagliarsi un ruolo di governo, portarono mestamente i dirigenti del più grande partito comunista d’occidente verso un manicheismo di raffazzonata fattura. Lo sgretolamento inarrestabile dell’URSS fece temere – forse a ragione, ma questo non toglie un’oncia d’ignominia al tradimento che fu perpetrato – che le antiche parole d’ordine e il vecchio afflato rivoluzionario non fossero più credibili né proponibili e che si dovesse fondare la propria sopravvivenza politica su nuove elaborazioni ideologiche. All’improvviso esistevano rivoluzionari “cattivi” (quelli che impugnano, ma pensa un po’, le armi per raggiungere i propri scopi) e rivoluzionari “buoni” (quelli che sovvertono il sistema cospargendo i cannoni di margherite e cantando a braccetto “We shall overcome”). Era l’inizio della fine. Da quel momento in poi la putrefazione della concretezza politica in astrazione morale avrebbe infettato ogni cellula dell’organismo comunista e si sarebbe poi estesa ad ogni vaso linfatico della vita nazionale. L’etica e la moralità uscivano per sempre – anche in Italia – dal contesto della vita privata e personale, dove esercitavano la propria indispensabile ma circoscritta autorità, per ergersi a divinità oscure, cui sacrificare ogni scintilla d’azione politica ed ogni speranza di rinnovamento. Nietsche, inascoltato, lo aveva gridato tanti anni prima nel suo profetico “L’Anticristo”: “Un popolo va in rovina quando confonde il suo dovere con il concetto del dovere in generale. Non v’è nulla che crolli più profondamente, più intimamente, di ogni dovere “impersonale”, di ogni sacrificio dinanzi al Moloch dell’astrazione”.
Nell’arco di una decina d’anni, il moralismo patogeno di Berlinguer trasformò l’Italia in una repubblica dottrinale, di cui i magistrati divennero inquisitori e sommi sacerdoti. Ciò che dell’indipendenza e della sovranità nazionale era sopravvissuto alle ceneri della sconfitta per mano americana, venne spazzato via dai vincitori con la complicità dei giudici della pubblica verecondia nel colossale autodafè passato alla storia con il nome di “mani pulite”. Non bastò, ovviamente. Il virus della morale, una volta scatenato su una nazione, non conosce soggetti immuni e miete costantemente nuove vittime, configurandosi come poderosa arma biologica di rimodellamento sociale nelle mani dei suoi progettisti. Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno è così irreprensibilmente immacolato da sottrarsi al ricatto perbenista; e se per caso lo fosse, è sufficiente spostare i parametri del “moralmente accettabile” qualche millimetro più in là.
Ciò che stiamo vivendo in questi giorni, con la fine politica di Berlusconi ormai alle porte, è un preludio all’ennesimo sacrificio della politica nazionale, perpetrato dai sacerdoti della pubblica decenza, agli dèi d’oltreoceano sull’altare dell’astrazione etica.
Nel mio piccolo e per ciò che conta, considero i sedici anni della parabola berlusconiana di gran lunga i più vuoti e squallidi della storia del nostro paese. La mia antipatia per il soggetto Berlusconi è databile a molti anni prima del suo trionfale ingresso in politica. Risale alla metà degli anni ’80, quando la nascita del suo network televisivo generalista uccise la fantasia e il pluralismo delle televisioni private per sostituirli con la maleodorante melassa di becerume mediatico che promana oggi da ogni schermo e riempie di nulla sottovuoto i cervelli della nazione.
Berlusconi ha colpe infinite, prima fra tutte quella di essere stato un politico inadeguato, di infimo livello, incapace di coniugare i propri legittimi interessi personali con un progetto di rinascita nazionale di ampio respiro. Lo si paragona spesso a un dittatore, ad un Duce in doppiopetto votato alla devastazione dei sacri dettami della dottrina democratica. Magari lo fosse. Purtroppo il suo e nostro male è, al contrario, la sua assoluta irrilevanza, l’indecisione, la riluttanza ad utilizzare la dovuta durezza contro gli avversari anche dinanzi alla loro manifesta debolezza. E’ un mollaccione, altro che Duce. In sedici anni di dominio pressoché incontrastato sulla scena “politica” (chiamiamola così, anche se il termine più esatto sarebbe un altro) nazionale, non è neppure riuscito a estirpare gli ultimi mefitici rimasugli della truppaglia ex-comunista allo sbando, permettendo ad essa di riorganizzarsi quel tanto che basta da allestire, con l’appoggio di settori altrettanto fedifraghi della sua ex maggioranza, le idi di marzo che stanno per abbattersi sul nostro futuro. Quale possa essere questo futuro, non riesco per il momento a immaginarlo. Non certo quello di un governo “tecnico”, che avrebbe comunque vita breve e porterebbe con sé la rovina definitiva tanto delle sue componenti partitiche quanto dei settori confindustriali ad esso associati (da Marchionne alla Marcegaglia, passando per Montezemolo). Nemmeno quello di una portentosa reviviscenza elettorale del berlusconismo, che appare ormai fuori tempo massimo e verrà comunque impedita con ogni mezzo. Il futuro politico d’Italia è oggi una pagina bianca su cui ciascuno può scrivere ciò che desidera. Se non fossimo un paese di analfabeti senza speranza, sarebbe una splendida prospettiva.
Ma volevo dire questo: tra le tante colpe che pesano sulla coscienza dell’uomo di Arcore, non ritengo vi sia quella – comunemente attribuitagli – di essere lo “specchio del degrado del paese”. Il degrado in cui ci dibattiamo, che è culturale è politico, ha in Berlusconi solo uno dei suoi artefici e non certo il più rilevante. E’ vero, sono state le sue televisioni a spacciare l’indecenza privata, la pruderie domestica, la vanvera urlata, la sconcezza ruttante di anchormen di borgata per cultura, di cui le povere masse italiche, non sapendo procurarsi altro cibo, si sono nutrite per decenni. Ma non è stato lui a trasformare questa ammorbante immondizia in politica. Questa colpa – che è di gravità incommensurabile – pesa per intero sulla coscienza dei suoi avversari, politici e mediatici. L’Italia oggi non è lo specchio di Berlusconi. E’ più lo specchio della mortifera psicosi moralistico-terminale di giornali come “Repubblica”, che, per ragioni di servilismo verso i dominanti USA, hanno fuso la dimensione pubblica e privata, la sfera sessuale e quella dell’azione di governo, in un minestrone immondo da cui non sarà mai più possibile estrarre elementi di senso. Nessun politico, per quanto pessimo, può togliere ad un popolo la politica. Solo un’operazione di propaganda può farlo. Un’operazione accuratamente pianificata, che affonda le sue radici nella confusione tra sfera morale e sfera dell’agire pubblico prospettata da Berlinguer e poi estesa fino ai suoi limiti estremi dai lacchè dei media filoatlantici che sorvegliano il nostro paese. Berlusconi si è circondato di sgualdrine, sciacquette e cubiste, come fa il 99 per cento dei politici di questo mondo e l’80 per cento dei cittadini timorati di Dio. Ma non è lui ad aver sostituito il discorso politico e istituzionale con questa fanghiglia umana. Sono stati i suoi avversari a farlo, attraverso i loro organi di stampa, nel tentativo (miseramente fallito) di prendere il suo posto e in quello (disastrosamente riuscito) di cancellare dalle menti degli italiani ogni distinzione tra gossip e lavoro istituzionale, ogni confine tra il pettegolezzo da comari e la valutazione critica, ancorché severa, dell’operato di un governo. Se oggi le miserande masse italiane non riescono a scorgere l’attentato alla nostra sovranità che si nasconde dietro le centinaia di prime pagine con le cosce di Ruby in primo piano, la responsabilità non è di Berlusconi e nemmeno di Ruby. E’ degli organi di stampa “antiberlusconiana” e dei loro mandanti nazionali e internazionali, che – deboli come sono in questo momento – hanno una paura folle della politica, soprattutto se si considera il fatto che gli spazi per la nascita di un vero partito di opposizione all’esistente sono oggi, in Italia, pressoché sterminati. Ogni nozione di ciò che la politica è e potrebbe essere, ogni barlume di consapevolezza sui suoi confini epistemologici e sulle sue potenzialità va dunque soffocato senza esitazione, frastornando le masse con messaggi martellanti che impediscano di distinguere la riflessione e la progettazione politica dalla chiacchiera da mercato del pesce. In tutti questi anni, si sarebbe potuto accusare Berlusconi – per mille ottimi motivi – di non essere stato capace di strappare il paese alla completa servitù euroatlantica che è la causa della nostra agonia. Non lo si è fatto, perché non è questa servitù che i congiurati anticesaristi vogliono eliminare. Vogliono anzi rafforzarla, perché è da essa che dipendono i loro privati destini, costruiti sui pilastri della pubblica rovina. Essi evitano perfino di menzionare la politica, perché si tratta di una parola pericolosa, che potrebbe risvegliare in animi non ancora del tutto spenti i ricordi di mai sopiti desideri di riscatto. I loro pugnali sono sculettanti, forgiati in sagome mammarie e clitoridee. Dio non voglia che al pubblico a casa possa tornare alla mente com’è fatto un pugnale.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2010-11-08
8.112010