DI BERNARD CASSEN
Segretario generale di Mémoire des luttes, presidente onorario di Attac
blogs.mediapart.fr
Contro la trappola di una finta alternanza
Mémoire des luttes è stato
uno dei partecipanti all’incontro «Remue-méninges à gauche» [1] che si è tenuto a Grenoble il 26, 27 e 28 di agosto. L’associazione ha organizzato un dibattito sulla smondializzazione, su cui questo articolo vuole offrire un contributo.
Di fronte a un fenomeno nuovo, le parole
cercano di definirlo fino a che riesce a imporsi un lemma. In questo
caso siamo arrivati, per il francese, al termine “altromondialismo”.
Ha fatto il suo ingresso nell’arena politica nel 2001-2002.
Designa la galassia internazionale di organizzazioni e di reti che si
sono riconosciute più o meno nello slogan dei Forum Sociali mondiali,
“Un altro mondo è possibile”, suggerito dall’associazione
Attac (creata nel giugno del 1998) che l’aveva a sua volta preso in
prestito dal titolo di un articolo di Ignacio Ramonet pubblicato su
Le Monde Diplomatique nel maggio del 1998. È legato
strettamente ai momenti di alta visibilità mediatica ottenuta con i
Forum di Porto Alegre nel 2001 e con le grandi manifestazioni contro
l’OMC, il FMI, la Banca mondiale, iniziate a Seattle nel dicembre del 1999.L’”altromondialismo” ha
preso il posto dell’”antimondialismo”, concretizzando il
passaggio da una posizione di semplice rifiuto della mondializzazione
liberista a quella di una proposta di politiche alternative. Un modo
di smentire il famoso TINA (There is no alternative) di Margaret Thatcher.
Nel gennaio 2008 le riviste Utopie
critique e Mémoire des luttes hanno proposto il concetto
di “post-altromondialismo” [2] per designare le convergenze
possibili tra movimenti sociali, partiti e governi progressisti su alcuni
obiettivi precisi, quali la lotta contro il cambiamento climatico. Il
Summit di Cochabamba, convocato nel 2010 dal presidente boliviano, ne
ha costituito un buon esempio. Il post-altromondialismo non si oppone
all’altromondialismo: ne è solamente uno degli sviluppi possibili.
Un concetto nuovo, che disturba
Ed ecco che un concetto nuovo della
stessa genìa viene a fare irruzione nel lessico politico francese:
quello della “smondializzazione”. È stato sviluppato
in almeno tre libri recenti: quello di Georges Corm, Le Nouveau Gouvernement
du monde (La Découverte, 2010); quello di Jacques Sapir,
La Démondialisation (Seuil, 2011); e quello di Arnaud Montebourg,
Votez pour la démondialisation, con la prefazione di Emmanuel Todd
(Flammarion, 2011). Questi due ultimi autori fanno risalire il concetto
a Philippin Walden Bello, figura di primo piano dei Forum sociali mondiali,
nel suo libro pubblicato nel 2002, Deglobalization: Ideas for a New World Economy.
In effetti, era stato già proposto
da questo autore in un articolo pubblicato nel novembre 1996, “Et
maintenant… démondialiser pour internationaliser“, pubblicato
nel n° 32 (novembre 1996) di Manière de voir, una pubblicazione
bimestrale di Le Monde Diplomatique. All’epoca, questo approccio
non si era diffuso nel dibattito pubblico [3].
Le parole devono aspettare il
loro momento. E quello della smondializzazione sembra arrivato proprio ora.
Se qualcuno ne dubitava, è stato
sufficiente vedere la virulenza delle reazioni che questo concetto ha
suscitato nei settori da cui ci si aspettava una tale risposta (i liberali
di ogni credo), ma anche da altri meno sospetti (alcuni altromondialisti
di Attac). La ragione è la stessa in entrambi i casi: da quando Arnaud
Montebourg ne fece una delle parole d’ordine della propria campagna
alle “primarie” del Partito socialista per la designazione del candidato
all’Eliseo, il tema della smondializzazione non è più confinato ai
dibattiti della sinistra critica, ma ha trovato posto nel panorama elettorale
nazionale e ha acquisito di conseguenza una legittimità e una “rispettabilità”
politica che ha superato la cerchia dei radicali.
Ci si può chiedere se non è
questa la ragione per cui, in un articolo pubblicato il 6 giugno 2011 sul
sito Médiapart e intitolato “Smondializzazione e altromondialismo
sono due progetti opposti”, nove membri del Consiglio scientifico
di Attac – le figure più importanti della direzione dell’associazione
-, hanno creduto di poter affermare, con tono polemico e assoluto, che
la smondializzazione era “un concetto superficiale e semplicistico”.
E non hanno esitato, nel frattempo, a tirare la corda in modo scandaloso,
su una supposta convergenza con le tesi del Fronte Nazionale.
Senza mai citarli, si affidavano, di
nascosto, alle tesi di Jacques Sapir, Arnaud Montebourg ed Emmanuel
Todd. E da qui sono giunte due repliche di un nuovo partecipante al
dibattito, Frédéric Lordon: una nel suo blog del Monde Diplomatique,
“Chi ha paura della smondializzazione” [4]; l’altra nel numero
di agosto 2011 del mensile “La démondialisation et ses ennemis”.
Dietro una frase, un orientamento
strategico
Contrariamente a quanto affermano i
dirigenti di Attac, altromondialismo e smondializzazione non sono concetti
opposti, ma appartengono alla stessa famiglia. Nel primo caso si tratta
di un gruppo di rivendicazioni e di proposte molto diverse (in ragione
stessa dell’eterogeneità dei protagonisti) e il cui denominatore comune,
come si può ricostruire dall’esterno, è l’imperativo dell’accesso
universale ai diritti [5].
La smondializzazione è un orientamento
strategico che ha lo scopo, con l’azione sia politica (elezioni, istituzioni
e governi) che civile (particolarmente le lotte dei movimenti sociali),
di togliere la sfera economica e finanziaria dalle mani degli enormi
poteri che le istanze politiche hanno deliberatamente abbandonato, e
che sono alla base della crisi sistemica attuale del capitalismo. Senza
questo orientamento, nessuna delle proposte altromondialiste ha la minima
possibilità di successo.
L’obiettivo della smondializzazione
è semplice da formulare, ma molto difficile da raggiungere: si auspica
che il perimetro delle decisione democratiche coincida il più possibile
con quello della capacità di regolazione dei flussi economici e finanziari.
Ciò mette in discussione le prerogative dei territori nazionali.
Il nazionale: una leva e non una “piega”
Anche se bisogna sforzarsi di darsi
degli obiettivi convergenti per le mobilitazioni sociali su scala regionale
– per noi europea – e mondiale, questo perimetro ha limiti nazionali
solo in un primo momento. Bisogna sfruttarne tutte le potenzialità
utilizzando i difetti o le debolezze dell’avversario. E questo senza
lasciarsi impressionare dalle denunce di “unilateralismo”,
luogo comune di una parte dell’estrema sinistra e del movimento altromondialista,
che vuole sempre rimandare ogni cambiamento applicabile in Francia alle
calende europee o mondiali, ossia in un momento futuro che sappiamo
non avverrà mai. Dopo tutto, il 29 maggio 2005 i cittadini francesi
non atteso che gli altri lo facessero per loro, votando “no”.
Tutte le esperienze di azione concreta
di questi ultimi anni hanno mostrato che non possono avvenire a livello
mondiale o regionale, bensì a livello nazionale, in cui è
stato possibile smuovere le acque e ottenere delle vittorie. Questo
è avvenuto grazie alle azioni dei governi sostenuti dai movimenti sociali
(come in America latina) o alle pressioni esercitati sugli Stati da
movimenti popolari capaci di mobilitare le popolazioni, come nel caso
del mondo arabo.
I tre motori della mondializzazione
libellista, promossi anche dai trattati europei allo status di
“libertà fondamentali”, sono la libertà di circolazione
dei capitali, la libertà degli investimenti e il libero scambio dei
beni e delle merci. E non solo all’interno dell’UE, ma anche tra l’UE
e il resto del mondo. Sono questi tre motori che vanno imbrigliati e
sottomessi al controllo democratico.
Il neoliberismo ha definito il suo
campo di azione: è il pianeta nella sua interezza, senza
frontiere di alcun tipo. La domanda è sapere se, per combatterlo, conviene
schierarsi sulla stessa posizione o se ne vanno scelte altre e, nel
caso di una guerra di trincea su scala planetaria, se condurre una guerra
di movimento, addirittura una guerriglia ai livelli inferiori. Tutto
dipende dal rapporto di forze.
È proprio per ottenere una posizione
di vantaggio che sono state create organizzazioni multilaterali come
la Banca mondiale, il FMI, l’OMC, l’OCSE, così come le istituzioni
europee, senza dimenticare i G7, 8 o 20. Sanno di non avere assolutamente
niente da temere in un confronto coi loro avversari a questo livello.
Possono anche concedersi il lusso di “dialogare” in
pubblico, come hanno fatto alcuni dei loro membri nel corso della teleconferenza-dibattito
“Porto Alegre contro Davos”, organizzata all’epoca dal
primo Forum Sociale mondiale nel 2001, e alla quale partecipò il mega-speculatore
George Soros in persona.
I frequentatori abituali di Davos non
vorranno mai prendere questo rischio a livello “regionale”,
ad esempio europeo: immaginatevi un dialogo televisivo tra Carlos Ghosn
e il consiglio di amministrazione di Renault, e ancora meno a livello
nazionale. Questo per suggerire dove andranno dirette le iniziative
militanti [6]. Le forze del capitale hanno compreso perfettamente che
una contestazione sociale in un Forum mondiale perde velocemente il
suo potere a mano a mano che si allontanava dal proprio “epicentro”,
fino a non avere in pratica nessuna importanza quando arrivava a livello nazionale.
Al contrario, l’esperienza ci insegna
che le lotte sociali e politiche in un paese possono avere un effetto
di “contagio” anche in altri, e per questo possono regionalizzarsi
e internazionalizzarsi. Questo è stato dimostrato dalle rivolte arabe
partite dalla Tunisia e dalle manifestazioni di massa contro le
disuguaglianze in Israele che si ispirano direttamente all’esperienza
degli Indignados di Puerta del Sol, e poi, per chiudere il cerchio,
con le occupazioni di luoghi pubblici a Tunisi e al Cairo.
Il “nazionale” non è
in nessun caso un sostituto di internazionale” o di “europeo”.
Lontano dall’essere una “replica”, è al contrario la condizione
preliminare in una strategia di lotta dei deboli contro i forti. Non
si comprende come tali evidenze, peraltro validate dai fatti, sfuggano
alla comprensione degli “anti-smondializzazione” presenti
nella sinistra critica, in particolare in seno a una parte dell’altromondialismo.
La smondializzazione non è assolutamente
un concetto fisso, ma dinamico, potendosi manifestare in una serie di
misure politiche pratiche, come quelle suggerite dagli sopramenzionati
[7], e che non si riducono alla necessità di un protezionismo europeo.
La sua “benzina” è il bisogno democratico che mira
a recuperare la sovranità popolare nel perimetro in cui la si possa
esercitare per regolare flussi economici e finanziari.
In teoria, sono possibili due soluzioni
estreme: o “rinazionalizzare” questi flussi, affinché
rispondano a una volontà politica nazionale espressa dal suffragio
universale – quanto esiste – , oppure allargare alla totalità del
pianeta lo spazio pubblico democratico, per esercitare un controllo
effettivo su ciò che è già stato mondializzato. Si comprende che
nessuna delle due posizioni è sostenibile nella sua totalità. Esistono,
da un lato, un numero di settori – come quello della lotta contro
il cambiamento climatico – che sfuggono alla delimitazione delle frontiere
e, dall’altro, un governo mondiale dotato di tutte le competenze di
un attuale esecutivo nazionale non è ipotizzabile in un lasso di tempo
prevedibile. Converrà dunque muoversi sull’insieme delle soluzioni,
estreme e intermedie, che converrà caso per caso implementare.
Queste soluzioni intermedie possono
prendere due forme. Si può, a partire dagli Stati già presenti,
costruire un ambito internazionale, ossia mettere in comune, in modo
graduale, delle porzioni di sovranità nazionale su alcune questioni
oggetto di una decisione comune, revocabile in base a condizioni fissate
in anticipo.
L’altro termine dell’alternativa consiste
nell’evolvere gli ambiti statali verso insiemi di sovranità popolare
più allargata. Non bisogna confondere tuttavia questa idea con quella
dei raggruppamenti regionali fondati sul libero scambio e sulla “concorrenza
libera e non falsata”. Quello che fa la differenza è l’esistenza
o meno di meccanismi di regolazione politica basati su fondamenta democratiche,
che siano orientate a fare da contrappeso al mercato.
L’Unione Europea, che sarebbe potuto
entrare teoricamente a far parte di questa categoria, è al contrario
un attore della mondializzazione libellista, una vera macchina per liberalizzare.
Dunque un obbiettivo primario per un controffensiva smondializzatrice.
Una “Grenelle” dell’Unione Europea per fare saltare
il catenaccio europeo
Dato che le decisioni europee sovrastano
e delimitano tutte le altre e che il 75% delle leggi che ci guidano
sono solo trasposizioni delle iniziative decise dagli enti dell’Unione,
la questione europea si trova in prima linea per ogni fase rivolta alla
smondializzazione.
In vista delle elezioni presidenziali
e legislative, il cittadino deve sapere di quali iniziative quel partito
o quel candidato vorranno cortesemente dotarsi per realizzare un progetto
serio di trasformazione sociale, e quindi incompatibile con il Trattato
di Lisbona.
In caso di blindatura delle istituzioni
europee, se sono disposti a prendere decisioni unilaterali per una rottura
[8] o almeno per imporre un negoziato, o se vorranno minacciare di dargli
una scadenza annunciata in anticipo? Il coro di proteste della Commissione,
della Corte di Giustizia e della maggior parte dei dirigenti dell’UE
potrebbe essere compensato velocemente dalla convocazione di numerosi
movimenti sociali nei diversi paesi, che farebbero a loro volta pressione
sui rispettivi governi.
Tutto quello che rende l’Unione Europea
un attore della mondializzazione libellista dovrebbe essere messo in
discussione: la libertà di circolazione dei capitali; il libero scambio;
l’ appartenenza alla zona euro; i piani di “salvataggio”;
i poteri della Commissione e della Corte di Giustizia del Lussemburgo;
lo statuto della Banca Centrale Europea; il dumping sociale,
fiscale ed ecologico; la primazia della concorrenza, ecc. Per andare
verso un tipo di “Grenelle” versione 1968 a livello europeo.
Si obietterà, non senza ragione, che
ciò tutto questo farebbe precipitare l’UE in una turbolenza senza
precedenti e i cui sbocchi non sono prevedibili in anticipo. Quello
che in compenso è garantito in anticipo dall’assenza di correzione
di traiettoria della struttura è l’austerità perpetua, l’esplosione
delle disuguaglianze e della precarietà, la frana accelerata del tessuto
sociale, la spinta verso l’estrema destra e la xenofobia.
I liberisti non hanno alcuna considerazione
per questi argomenti e hanno fatto già le loro scelte, per proteggersi
dai timori di maggiori agitazioni sociali. Per pusillanimità, per confusione
mentale tra nazione e nazionalismi e per beato europeismo, la maggioranza
della sinistra socialdemocratica e di una parte della sinistra critica
sembra ben disposta a fare lo stesso, ma per mancanza di analisi. Liberano
così un vasto spazio per le forze che non vogliono farsi chiudere in
una trappola di finte alternanze.
Note:
(Per la stesura di questo testo, ho
utilizzato alcune fonti, articoli e opere anteriori. In modo particolare,
la mia analisi su “Manière de voir” n° 32, novembre 1996)
; un’intervista rilasciata al M’PEP «Que faire de l’Union
européenne» dell’11 giugno 2011; e un articolo pubblicato su
Politis del 7 luglio 2011.)
[2] ALTERMONDIALISME ET POST-ALTERMONDIALISME
– Appelle Final
[3] Et maintenant… démondialiser
pour internationaliser
[4] Qui a peur de la démondialisation?
[5] Su questo argomento potete leggere
il lavoro molto documentato di Gustave Massiah, Une stratégie altermondialiste,
La Découverte, Parigi 2011.
[6] Paradossalmente l’altromondialismo
e rinforza, controvoglia, questo argomento. Ha una presenza “sovranazionale”
molto forte, in parte grazie ai media. La sua presenza europea,
fuori dalla rete europea di Attac, è marginale come è stato confermato
dal declino dei Forum Sociali europei e dal fatto che il movimento degli
Indignados si è sviluppato al di fuori di essa. E non parliamo del
livello nazionale: in tutta la Francia, nel gennaio 2008 al massimo
3 o 4.000 persone hanno partecipato alla Giornata Mondiale di Mobilitazione
e di Azione convocata dal Consiglio internazionale del FSM. L’anno precedente
José Bové, figura emblematica del movimento altromondialista, aveva
ottenuto il 1,32% dei voti per le elezioni presidenziali.
[7] Nell’immediato, aspettando una
prossima sintesi critica delle differenti proposte, consigliamo ai lettore
i testi di questi autori, così come il libro di Jean-Luc Mélenchon,
“Qu’ils s’en aillent tous”. Il candidato del fronte di
sinistra all’elezione presidenziale non utilizza la parola “smondializzazione”,
ma alcune sue proposte si inseriscono in questa logica.
[8] In particolare si invoca il Compromesso di Lussemburgo del gennaio 1966, imposto dal Generale de
Gaulle ai suoi partner dell’Europa a Sei dell’epoca, chiamato anche
la politica della “sedia vuota”. Con questo si vuol far passare
la gestione degli aspetti comunitari dalla procedura della maggioranza
qualificata (è il caso del mercato interno, e dunque delle liberalizzazioni
in senso generale) alla regola dell’unanimità. Ciò comporta un diritto
di veto.
Fonte: L’heure de la démondialisation est venue
24.08.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE