DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
A differenza di altri io ho avuto sempre una certa simpatia e anche stima per l’onorevole Giulio Andreotti. Ho incontrato il “divo Giulio” solo in due occasioni. Nel 1980 lavoravo per Il Settimanale e mi ero messo in testa di fare un’inchiesta sui danni che aveva provocato all’Italia l’aver fissato la capitale a Roma e avanzavo la proposta protoleghista di spostarla altrove.
Fra i personaggi da sentire mi sembrava indispensabile Giulio Andreotti, politico già allora di lunghissimo corso e oltretutto romano doc. Ma disperavo di arrivarci, Il Settimanale era un piccolo giornale. Telefonai alla segretaria, la mitica Enea, che mi chiese il tema dell’intervista, il tempo che mi occorreva e quello che avevo per andare in pagina.Mi disse che mi avrebbe fatto sapere entro una mezz’ora. E dopo mezz’ora mi chiamò dicendomi che l’onorevole Andreotti mi avrebbe ricevuto per 40 minuti in un centro diocesano di Metanopoli vicino all’aeroporto perché subito dopo sarebbe dovuto ripartire per Roma. La cosa mi stupì: era un modo di fare alla tedesca, non all’italiana. In Italia, almeno allora, se volevi intervistare un personaggio politico dovevi passare per tre o quattro portaborse.
In Germania anche quando devi intervistare un importante ministro la prassi è quella seguita da Andreotti. Non è solo una questione di bon ton politico, ma di civiltà e di stile. Incontrai Andreotti in questo centro diocesano. Era accompagnato da una piccola corte. Entrammo in una grande sala spoglia dove c’era solo un piccolo tavolo in legno e ci sedemmo l’uno di fronte all’altro mentre la corte rimaneva rispettosamente sulla soglia.
Andreotti fece un lieve cenno con la mano, la porta si chiuse e rimanemmo soli. Ascoltai una magistrale lezione sulla storia d’Italia, di Roma, delle Istituzioni repubblicane, della Pubblica Amministrazione, della burocrazia, del diritto e, insomma, di tutto ciò che riguarda i gangli vitali di uno Stato.
Il secondo incontro fu casuale, ma divertente e non privo, anch’esso, di un certo significato. Un pomeriggio ero all’ippodromo romano delle Capannelle e camminavo chino sul giornale Il Cavallo per vedere chi puntare alla corsa successiva, quando mi scontrai con un uomo anziano che stava facendo la stessa cosa. Gli caddero gli occhiali, mi chinai a raccoglierli e, rialzandomi, glieli porsi, scusandomi. Solo allora mi accorsi che era Giulio Andreotti. Solo. Non vidi alcuna scorta. Ce l’avrà anche avuta, ma se c’era stava a debita distanza. Si scusò a sua volta e rimise la testa nel giornale.
Mi piacque che avesse questo vizio delle scommesse. Gli uomini senza vizi sono pericolosi. Negli ultimi anni gli mandavo i miei libri e anche qualche suo ritratto agrodolce che avevo scritto per i giornali. Lui rispondeva sempre con brevi biglietti, cortesi, vergati con una calligrafia minuta, senile, ma chiarissima. E anche questa è una questione di stile oltre che di buona educazione.
Andreotti è stato un grande ministro degli Esteri. In tempi difficilissimi, quando l’alleanza con gli Stati Uniti era obbligata perché incombeva l’orso sovietico e atomico, è riuscito a fare una politica di appeasement con i Paesi del mondo arabo-musulmano i cui frutti godiamo, in parte, ancora oggi. Questo non è mai piaciuto agli americani e credo che in alcune disavventure del “divo Giulio” ci sia il loro zampino. Ma con Andreotti l’Italia ha avuto, per anni, una politica estera coerente, felpata ma efficace. E non è un caso, come ha notato Sergio Romano, se la politica estera si fa con lo stile di Andreotti e non di Berlusconi.
Andreotti ha avuto sempre la consapevolezza di essere classe dirigente, con responsabilità e doveri che andavano oltre la sua persona. Sottoposto a un durissimo processo durato sette anni, che lo ha spazzato via dalla vita politica, non ha mai parlato di “complotto” della Magistratura in combutta con chicchessia. Perché una classe dirigente consapevole d’esser tale non delegittima le Istituzioni, perché sa che sono le “sue” Istituzioni e che dalla loro disgregazione e dal caos che ne consegue ha tutto da perdere. Insomma si tratta di quel senso dello Stato che Berlusconi non ha e che non ha la maggioranza dell’attuale classe politica.
Andreotti è poi uscito assolto da quel processo per mafia, come da quello per l’omicidio Pecorelli, ma si è ben guardato da mettere sotto accusa i Pubblici ministeri Caselli e Lo Forte, come pretendeva quell’irresponsabile narciso di Cossiga. Ha, al contrario, ammonito, mentre si scatenava la canea “garantista” dei berluscones, a non fare il processo ai giudici. In quel processo è stato anche accertato che Andreotti ebbe effettivamente rapporti con la mafia prima del 1980.
Questo può scandalizzare Marco Travaglio, non chi, come me, ha qualche anno di più e sa che rapporti con la mafia in Italia li hanno avuti tutti, anche l’integerrimo Ugo La Malfa attraverso la sua “longa manus” in Sicilia, Gunnella. Quella dei rapporti fra i politici e Cosa Nostra è una tabe che ci portiamo dietro da quando la mafia aprì le porte della Sicilia alle truppe americane e non riguarda certo il solo Andreotti.
Se fosse nato in un altro Paese Giulio Andreotti sarebbe stato un grande statista. In Italia ha potuto esserlo solo a metà, dovendo impegnare l’altra metà negli intrighi, spesso loschi, che caratterizzano la vita politica italiana. Ma nell’ora della tua morte noi ti salutiamo “divo Giulio” con rimpianto. Con te se ne va una lunga stagione della politica italiana e, visto quello che è venuto dopo, non certo la peggiore. Se esiste quel Dio in cui tu credevi, andando prestissimo ogni mattina alla Messa, ti sarà sicuramente benevolo.
Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
7.05.2013