DI ALAIN DE BENOIST
Il voto con cui i francesi hanno in massa respinto il progetto di trattato costituzionale che era stato sottoposto loro per referendum è senza alcun dubbio un voto storico. Ma non è storico solo per il risultato: 55% di “no” contrari a un testo confuso in cui si potevano contemporaneamente trovare cose positive, ma anche e soprattutto orientamenti generali inaccettabili. Lo è tanto più perché ha di nuovo fatto emergere, in modo clamoroso, il divario che divide oggi il popolo dalla classe politico-mediatica e dai suoi supposti “rappresentanti”.Il 28 febbraio scorso, i deputati e i senatori francesi riuniti in Congresso a Versailles avevano adottato con il 91,7% dei suffragi il progetto di legge costituzionale preliminare per la ratifica del trattato. Nel caso in cui il progetto fosse stato sottomesso in Francia solo al voto del Parlamento, come si è verificato in Italia, in Germania e in Austria, il testo sarebbe stato dunque adottato con più del 90% dei voti. Ora, esso è stato respinto dal 55% degli elettori, con un tasso di partecipazione allo scrutinio del 70% e uno scarto tra i “sì” e i “no” di 2,5 milioni di voti. 90% da un lato, e 55% dall’altro: il facile confronto di queste due cifre mostra che la rappresentanza nazionale non rappresenta più nulla.
Tutti i grandi partiti di “governo”, a cominciare dal partito socialista e dall’UMP di Jacques Chirac, si erano in effetti pronunciati a favore del “sì”. Avevano preso la stessa posizione tutti i grandi quotidiani, tutti i grandi settimanali, tutte le grandi reti della radio e della televisione, tutti i grandi editorialisti, in breve tutto ciò che in Francia comanda, si pavoneggia, fa la morale e pretende di parlare a nome dell’opinione pubblica. È tuttavia il “no” che ha prevalso. Si misura così la frattura tra le preoccupazioni dei cittadini e le risposte dell’oligarchia che detiene il potere.
A questo contrasto tra il popolo e le élites si aggiunge la divisione che separa gli elettorati dalla direzione dei loro partiti. Ciò è particolarmente evidente a sinistra. Il partito socialista, la cui direzione si era pronunciata per il “sì”, è stata disconosciuta in massa dagli elettori (55% di no). Si è verificata la stessa cosa per i Verdi (62% di no), che si osti- nano da anni in una alleanza contro natura con i socialisti, e che hanno condotto a favore del “sì” una campagna impercettibile e senza convinzione.
Il segretario generale del PS, Francois Hollande, già noto per la sua mancanza di carisma e di autorità, ha subìto una sconfitta personale che minaccia la sua posizione. Si ritrova a capo di un partito dilaniato, in totale smarrimento, nel quale lo scontro delle ambizioni sta sempre più prendendo il sopravvento sul confronto delle idee e in procinto di affrontare la scadenza presidenziale dell’aprile 2007 nella peggiore delle posizioni, senza una chiara linea politica e senza dirigenti indiscussi.
Il referendum traduce infatti ciò che il centrista Francois Bayrou ha definito una “gravissima crisi francese”. Una crisi non creata dal voto, ma che il voto ha mostrato palesemente.
La frattura non è soltanto politica, ma anche sociologica. L’analisi del voto mostra che il 60% dei giovani, l’80% degli operai e il 60% degli impiegati hanno votato “no”. Ma anche, contrariamente a ciò che si era verificato al momento del referendum sul trattato di Maastricht, che si è comportato nello stesso modo la maggioranza dei salariati, di cui quasi il 56% dei quadri medi (contro il 38% nel 1992). Il “sì” è risultato alla fine vincente solo tra l’alta borghesia, tra i quadri superiori, e i pensionati. Questo cambiamento di direzione di una notevole frazione delle classi medie verso il campo del “no” è un fatto nuovo. Quanto alla distinzione destra-sinistra, essa appare ancora una volta obsoleta, poiché c’erano a destra così come a sinistra dei “sì” e dei “no”.
I sostenitori del “sì”, denunciando il carattere eterogeneo del “no”, del resto hanno chiaramente fatto capire che il “sì” di Valéry Giscard d’Estaing o di Nicolas Sarkozy era “compatibile” con quello di Francois Hollande o di Lionel Jospin.
Ma la cosa più notevole all’indomani del voto è stato constatare che la classe politico- mediatica, che aveva creduto sin dall’inizio che il voto a favore del “sì” era acquisito a priori, non ha apparentemente tratto nessuna lezione dal suo disconoscimento. Invece di fare autocritica, si è semplicemente pentita amaramente di aver fatto ricorso al referendum. Per essere chiari: di aver praticato la democrazia diretta dando la parola al popolo. La conclusione che ne deriva è visibilmente che è necessario dare il meno possibile la parola al popolo, il cui comportamento “imprevedibile” va sempre temuto. Vale la stessa cosa per Jacques Chirac che, essendosi personalmente impegnato con forza nella campagna a favore del “sì” a rischio di incoraggiare gli oppositori alla sua politica a pronunciarsi per il “no”, si è limitato ad annunciare un “nuovo impulso”, ossia la nomina di un nuovo Primo ministro, nel momento in cui ha subìto un incredibile affronto personale e la sua popolarità è in caduta libera, proprio come Silvio Berlusconi, Tony Blair o Gerhard Schroder. È chiaro che Philippe de Villiers, sostenitore del “no”, che reclamava le elezioni anticipate, non abbia potuto fare a meno di citare la celebre frase di Bertold Brecht che diceva, ironicamente, che in caso di divergenza totale tra il popolo e il governo, non ci sono che due soluzioni: cambiare il governo o cambiare il popolo!
Tutto ciò significa, ha scritto il sociologo Jean Baudrillard, «il fallimento del principio stesso di rappresentanza, nella misura in cui le istituzioni rappresentative non funzionano più nel senso “democratico”, cioè dal popolo e dai cittadini verso il potere, ma esattamente al contrario, dal potere verso il basso». Intorno al progetto di Costituzione si è ugualmente svolto, per la prima volta da molto tempo, un vero dibattito, nel quale le informazioni diffuse da internet hanno giocato un ruolo di contro-potere esemplare. Più di un milione di libri sul trattato costituzionale sono stati venduti nelle settimane precedenti il voto, il che ne evidenza la portata. Il 29 maggio il popolo francese ha espresso un voto di insurrezione democratica.
Utilizzando il proprio diritto di disporre di se stesso, il popolo ha manifestato contemporaneamente il suo pessimismo e la sua collera. Non si è pronunciato contro l’Europa, ma contro l’orientamento attuale della costruzione europea. In molti casi il suo “no” è stato un “no pro-europeo”, come ha sostenuto il socialista Jean Luc Mélanchon. Un “no” a ciò che è presentato da anni come l’“impero del Bene”, un “no” all’Europa tecnocratica e alla mondializzazione liberale, cosa che non gli impedirà domani di dire “sì” ad un’altra Europa. L’ultima lezione di questo voto, e certamente non la minore, è che la vittoria globale del “no” è stata possibile solo con la somma del “no di destra” e del “no di sinistra”, poiché nessuno dei due avrebbe potuto accreditare la vittoria a se stesso. Una constatazione su cui meditare.
Alain De Benoist
Fonte:www.eurasia-rivista.org
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17.06.05
Si ringrazia l’Autore per aver accordato il permesso di pubblicazione nel sito www.eurasia-rivista.org.
Da: www.grece-fr.net
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