di Enrico Piovesana
In Afghanistan nel 2002 venivano sperimentate le tecniche applicate nel carcere iracheno
Dopo due anni di insabbiamenti e depistaggi, si sta sgretolando il muro di gomma eretto dall’esercito statunitense attorno alla morte di due prigionieri afgani detenuti nel carcere militare della base aerea Usa di Bagram, una quarantina di chilometri a nord di Kabul.
Dopo due anni di insabbiamenti e depistaggi, si sta sgretolando il muro di gomma eretto dall’esercito statunitense attorno alla morte di due prigionieri afgani detenuti nel carcere militare della base aerea Usa di Bagram, una quarantina di chilometri a nord di Kabul.
La divisione investigativa criminale dell’esercito statunitense ha messo sotto inchiesta 29 soldati americani che all’epoca conducevano gli interrogatori in quella prigione. L’accusa è di aver picchiato e torturato i due prigionieri fino a provocarne la morte.
Ma sono emerse anche altre verità, ancor più inquietanti.
Alla fine del mese di novembre del 2002, Habibullah, 28 anni, e Dilawar, 22 anni, finirono come prigionieri di guerra a Bagram.
Habibullah venne arrestato in quanto fratello di un ex comandante talebano.
Dilawar venne invece preso subito dopo il lancio di alcuni razzi contro una base Usa perché nel suo taxi vennero trovati un walkie-talkie rotto e dell’apparecchiatura elettrica.
Entrambi vennero interrogati, picchiati e torturati per circa due settimane, durante le quali rimanevano spesso in ‘posizione di sicurezza’ nelle loro celle d’isolamento, cioè appesi al soffitto per i polsi. Venivano continuamente picchiati, all’incirca ogni venti minuti, anche da più soldati contemporaneamente, soprattutto sulle gambe e sull’inguine, i posti meno visibili.
Habibullah morì il 4 dicembre, appeso al soffitto della sua cella, per embolia polmonare dovuta ai grumi di sangue provocati dalle percosse ricevute.
Dilawar, già debole di cuore, morì sei giorni do po, il 10 dicembre, in seguito a un infarto, anch’esso attribuito alle percosse.
Poco dopo la morte di Habibullah e Dilawar, per l’esattezza il 22 gennaio 2003, il capitano Carolyn Wood, 34 anni, comandante del plotone d’interrogazione di Bagram e ideatrice di queste pratiche di inchiesta, ricevette una medaglia al valore per il suo “servizio eccezionalmente meritevole”.
Nel luglio del 2003 lei e la sua squadra vennero mandati in Iraq con la missione di insegnare quelle stesse tecniche ai carcerieri della prigione militare Usa di Abu Ghraib, dove la Wood fece affiggere un cartellone d’istruzioni che prescriveva in maniera dettagliata il ricorso alle tecniche sperimentate a Bagram, compresa la sospensione al soffitto e l’utilizzo dei cani.
Questo caso, oltre che per la sua intrinseca gravità, si carica di un grosso significato, perché, come ha commentato Jumana Musa, della sezione statunitense di Amnesty International, “l’impunità di cui hanno goduto i responsabili della morte di questi prigionieri non testimonia solo un’orribile mancanza di rispetto verso il valore della vita umana, ma rappresenta anche un precedente che ha poi costituito la base di successivi analoghi abusi ad Abu Ghraib e in altre strutture detentive militari americane”.
Fino ad ora, l’unico responsabile era stato individuato nella persona del sergente James P. Boland. Ora vengono chiamati in causa altri 28 militari. Si tratta di uomini appartenenti alla Compagnia A del 519esimo battaglione intelligence militare, con base a Fort Bragg (North Carolina) – quella della Wood – e alla 377esima compagnia di polizia militare della riserva dell’esercito, con base a Cincinnati (Ohio). I loro nomi non verranno resi pubblici.
Enrico Piovesana.
www.peacereporter.net
16.10.2004