DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Le diverse conclusioni dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI fotografano abbastanza esattamente non solo l’abissale distanza fra due personalità, ma anche il modo di intendere il loro magistero. Wojtyla non ha rinunciato a esibire la propria sofferenza, a farne uno show, in linea con un pontificato spettacolare, mediatico (gli “eventi”, i jet, i grandi viaggi
transoceanici, la Papa mobile, i “Papa boys”).
Ratzinger la propria sofferenza ha preferito tenerla per sé. E si è dimesso. Già dai primi giorni sono circolate tesi complottistiche per le quali il Papa sarebbe stato costretto alle dimissioni. La verità è molto più semplice ed è quella dichiarata dallo stesso Ratzinger: a 86 anni si sentiva vecchio, stanco, inadeguato, gli mancavano le forze per portare il peso del suo altissimo magistero. Scardinando così, tra l’altro, uno dei tanti falsi miti della Modernità per cui l’età non conta e la vecchiaia non esiste. La vecchiaia invece esiste, eccome, per tutti, anche per un Papa. Ratzinger se n’è reso conto e, virilmente, responsabilmente, razionalmente, da buon tedesco, ne ha tratto le conseguenze. Un atto di coraggio e, insieme, di grande umiltà.
Premesso tutto ciò, le cose più interessanti Joseph Ratzinger le ha elaborate e scritte quando era
ancora cardinale. “Il Progresso non ha partorito l’uomo migliore, la società migliore e comincia a
essere una minaccia per il genere umano”. E nel documento Pro eligendo pontifice aveva affrontato il tema del relativismo sostenendo che esisterebbe “una sorta di dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e lascia come ultima misura il proprio io e le sue voglie”. Affermazione vera ma che si presta a qualche equivoco.
Se c’è infatti un’epoca della Storia in cui domina un pensiero unico, e quindi nient’affatto relativista, è quella che stiamo vivendo. È il pensiero liberaldemocratico che, assieme al nocciolo duro che lo sottintende: il produttivismo nella forma del libero mercato, si pretende come il solo valido e accettabile, dal punto di vista politico, sociale, ma anche morale. Insomma il modello di sviluppo che l’Occidente ha creato e imposto a quasi tutto il pianeta.
È evidente che quando Ratzinger parla di relativismo lo intende in senso morale. Ma questo
relativismo morale dilagante, su cui Ratzinger punta il dito, discende direttamente proprio dal
modello economico e dal suo meccanismo produzione-consumo-produzione basato sul libero
mercato. E il mercato è uno scambio di oggetti inerti che, di per sé, non produce e non può produrre
valori che non siano quantitativi e materialistici. E questo vuoto induce nell’individuo un
indifferentismo, un relativismo morale, per cui una cosa vale l’altra e tutto si può fare. Ma questo
indifferentismo non è libertinismo, che implica una scelta, è un condizionamento pavloviano.
Quelle “voglie” che Ratzinger condanna non sono in realtà espressione di bisogni e di desideri
autonomi, ma sono eterodirette e funzionali al meccanismo produttivo che, per restare in piedi, ha
necessità di creare bisogni, desideri o di enfatizzare e drogare quelli che già ci sono, per poi tradurli
in consumi per il mercato. L’Io con le sue povere “voglie” eterodirette, non è il protagonista
libertino del sistema ma la sua vittima designata. Da Pontefice (mentre lo aveva fatto quando era
nella posizione più defilata di cardinale) Ratzinger non ha mai osato attaccare in modo radicale quel
progresso che è all’origine del relativismo morale, preferendo addossarne la responsabilità
all’individuo.
Forse non ne ha avuto la forza, forse, a differenza del suo predecessore, gli mancava il phisique du rôle per simili battaglie campali. In fondo è stato anche lui vittima dell’epoca dell’immagine dove l’apparire conta più dell’essere. Inoltre mi sembra che Benedetto XVI confonda il relativismo morale con quello culturale che è cosa ben diversa: è il rispetto dei valori altrui senza che ciò significhi non averne dei propri. Comunque sia bisogna dargli atto di aver acceso, soprattutto nella prima parte del suo pontificato, un dibattito intellettuale e culturale di alto profilo che era completamente mancato negli anni di Wojtyla.
Indubbiamente un Papa che si dimette fa colpo. I precedenti sono lontani e rarissimi, oltre a quello, sempre citato, del Celestino V, c’è quello di Gregorio XII nel 1415, ma in un’epoca in cui nella Chiesa regnava una gran confusione fra Papi e Antipapi (ognuno pretendeva di essere quello vero) e se ne contarono fino a tre. Eppoi le dimissioni di Benedetto XVI hanno un significato del tutto inedito: l’ammissione che anche il Vicario di Dio può essere fragile, debole, inadeguato perché troppo vecchio.
Questo ci rende Joseph Ratzinger, che era sempre sembrato distante, più vicino e più umano. Anche se noi, fra i due, avremmo preferito che a dimettersi, e già da tempo, fosse Giorgio Napolitano.
Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
15.02.2013