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ALCUNE RIFLESSIONI SULLA DEMONIZZAZIONE DI PUTIN

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A cura di Davide
Il 21 Settembre 2014
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DI ROBERTO ORSI

blogs.lse.ac.uk

Tempo fa Henry Kissinger ha detto: “La demonizzazione di Putin non è una politica, ma un alibi per l’assenza di una politica”. Per quanto sia autorevole una tale affermazione, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto dei nuovi picchi durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina. In molti modi diversi, si sta facendo strada tra le elite occidentali l’idea che, se il Presidente Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il problema della rinascita della Russia.

L’espressione più esplicita di un tale pensiero, la si trova in un pezzo scritto da Herbert E. Meyer, assistente particolare del Direttore della Central Intelligence Agency ed ex-Vice Presidente del National Intelligence Council della CIA durante l’amministrazione Reagan. Meyer sostiene la tesi che “Il presidente russo Vladimir Putin è una grave minaccia per la pace mondiale”, in sostanza un criminale, e “teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni (il riferimento è alle sanzioni UE) o perché riconoscono i loro errori. I ‘Thugs’ hanno un’alta tolleranza al dolore, e non cambiano il loro comportamento. Vanno avanti finchè qualcuno non gli assesta un colpo mortale.” Senza Putin, Mosca cesserebbe di essere una minaccia per la pace mondiale, poichè la Russia è un “one-man show”. I russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin in un modo o nell’altro; o in modo pacifico, oppure, “se Putin è troppo testardo per riconoscere che la sua carriera è finita, e l’unico modo per tirarlo fuori del Cremlino è in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa – questo andrebbe bene anche a noi”.

Il pensiero di Meyer non è che l’essenza di un esplicito sfogo definitivo dovuto ad una serie di motivazioni che negli ultimi anni hanno travolto i media occidentali. Putin come l’assassino della giornalista Anna Politkovskaya e dell’ex-ufficiale FSB di base a Londra Alexander Litvinenko, Putin come persecutore del gruppo rock delle Pussy Riot, Putin l’“omofobo”, Putin che “vive in un altro mondo”, secondo il cancelliere tedesco Angela Merkel (presumibilmente), Putin che è chiaramente “un lato sbagliato della storia” (secondo il presidente USA Barack Obama). Putin il malato di mente, Putin il nuovo Hitler.

L’analogia con Hitler merita un chiarimento particolare. Da un lato tale analogia è spesso utilizzata: ai suoi tempi anche George W. Bush era Hitler. Anche Saddam Hussein era Hitler. Per quelli contrari alle misure di austerità, anche la Merkel è Hitler. La trasposizione della figura di A. Hitler è ormai superinflazionata.

Dall’altro lato, l’analogia con Hitler sta sostituendo immagini escatologiche più sofisticate che erano in voga in passato in Europa, come la figura dell’Anticristo, simbolo del male assoluto, con la sua venuta vista come segno dell’imminente fine del mondo e del Giudizio Universale. Molti sono stati gli europei etichettati come emissari del diavolo: Napoleone Bonaparte, Federico II di Prussia e Pietro il Grande.

L’identificazione di Putin come manifestazione di un male assoluto metafisico, che giustifica il ricorso a misure estreme, invece di essere semplicemente accennata attraverso semplici metafore e ridotta a una banale questione propagandistica di bassa lega, dovrebbe diventare il centro di una più profonda discussione, e nel contesto della cultura europea non mancano certo modi e maniere per affrontare la questione di una sua eventuale rimozione.

L’assassinio è considerato in molti sistemi giuridici e morali un atto punibile. Tuttavia, non tutte le forme di eliminazione di altri esseri umani sono considerate illegittime e definite come assassinio, come nel caso dell’auto-difesa, o durante uno scontro su un campo di battaglia. La questione intellettuale di prendere di mira dei leader politici non è affatto una novità. E’ possibile distinguere due casi generali. Uno riguarda l’eliminazione di leader politici e militari durante un conflitto bellico. Il secondo riguarda invece l’eliminazione ordinata all’interno da una particolare politica.

Dal punto di vista strategico, quello che è stato definito lo “sciopero di decapitazione” consiste proprio nell’ individuare i centri di comando e di controllo, sia militare sia politico, allo scopo di far precipitare il nemico nel caos organizzativo. Questa posizione ha sostenitori e detrattori, anche se il concetto fa sempre riferimento a scenari di palesi ed evidenti ostilità, e comunque non come una prassi o una ricetta infallibile per la pace interna al paese. Ovviamente, tale operazione finirà con il legittimare atti di ritorsione, aprendo scenari a spirale di violenze indiscriminate con conseguenze imprevedibili.

Come sapranno quei lettori che hanno familiarità con la storia della teoria politica internazionale, c’è stata una sorprendente varietà di opinioni nel pensiero occidentale sulla corretta conduzione della guerra giusta (riflessioni sul cosiddetto “bellum iustum”). Tradizionalmente, le guerre tra nazioni cristiane dovevano essere altamente regolamentate, mentre erano ammessi diversi gradi di guerra senza restrizioni contro gli infedeli.

Nel libro biblico di Giuditta, l’omonima eroina ebrea salva il suo popolo durante l’assedio di Betulia penetrando nel campo degli assedianti, seducendo Oloferne, il generale dell’esercito nemico, e decapitandolo mentre dormiva ubriaco. Come in questo illustre precedente, l’assassinio del leader del nemico sembra essere un atto di disperazione, di solito associato a guerre genocide definitive.

Mentre nasceva una moderna concezione di politica internazionale e globale, che prendeva le distanze da una dicotomia Cristiano/Non Cristiano, Immanuel Kant mise nuovamente in guardia contro questo tipo di pratiche nel sesto articolo introduttivo della sua ‘Pace Perpetua’ – Zum ewigen Frieden (1795). Kant auspica il divieto, nelle guerre, di tutte quelle pratiche che potrebbero rendere impossibile la reciproca fiducia nei futuri accordi di pace, come l’assassinio, l’avvelenamento, la violazione della capitolazione, l’istigazione al tradimento. È interessante notare che il filosofo caratterizza tali azioni come “stratagemmi disonorevoli” (ehrlose Stratagemen) e ne spiega i motivi in due brevi paragrafi che, considerando l’attuale situazione internazionale, meritano di essere citati per intero:

Questi sono stratagemmi disonorevoli. Poiché una sorta di fiducia nella condotta del nemico deve esserci anche nel bel mezzo di una guerra, altrimenti una pace non può mai essere conclusa e le ostilità degenerebbero in una guerra di sterminio (bellum internecinum). La guerra, però, è solo un nostro miserabile espediente per far valere un diritto con la forza, un espediente adottato nell’ambito di un diritto naturale, dove non esiste un tribunale di giustizia che possa risolvere la questione controversa. In circostanze come queste, nessuna delle due parti può essere chiamata un nemico ingiusto, perché un tale discorso implicherebbe una decisione giuridica: è il conflitto che decide, come nel caso del ‘giudizio divino’ dov’ è la ragione. Tra gli stati, tuttavia, non è pensabile alcuna guerra punitiva (bellum punitivum, perché non esiste tra essi un rapporto di inferiore e superiore.

Da ciò ne consegue che una guerra di sterminio, laddove il processo di annullamento interessasse entrambe le parti nello stesso momento, condurrebbe alla pace perpetua solo nel grande cimitero del genere umano. Una tale guerra, e quindi anche l’uso di tutti i mezzi che portano ad essa, devono essere assolutamente vietati. Che i metodi appena citati portino inevitabilmente a un tale risultato, è evidente, per il fatto che queste arti infernali, già vili per se stesse, nel momento in cui sono usate, ben presto finiranno con l’andare oltre la sfera dei conflitti bellici. Prendete, come esempio, l’uso delle spie (uti exploratoribus). Qui si utilizza esclusivamente la disonestà degli altri; ma vizi come questi, una volta preso il via, non si riesce più a sradicarli dalla natura delle cose e diventano normali anche in tempo di pace, dove la loro presenza risulta distruttiva per le finalità di quello stato.

(Kant – La Pace Perpetua – Saggio filosofico – Traduzione in inglese di Mary Campbell Smith, Londra 1917, pagg. 114-115.)

Essere contrari alla demonizzazione del nemico e a un suo assassinio a sangue freddo, non significa sostenere la totale assenza di odio o di conflitto. Al contrario, secondo una vecchia teoria purtroppo troppo poco apprezzata, proprio la guerra senza restrizioni, fin troppo familiare, ad ogni forma di lotta, è in sé contraddittoria, poiché conduce ad una forma di guerra totale. Il punto, invece, è quello di saper riconoscere nel mondo il luogo del conflitto, renderlo ‘produttivo’, ovvero ridurre al minimo il suo potenziale distruttivo e, se possibile, evitare ogni sua sublimazione in forme simboliche. Il punto è quello di limitare e contenere il conflitto, conferendogli una legittimazione all’interno di limiti ben delimitati (la schmittiana Hegung). Ci può essere inimicizia tra la NATO e la Russia, ma non vi è alcuna ragione per trasformarlo in una guerra totale globale. Proprio in questo quadro, la denigrazione del nemico diminuisce la dignità di chi lo denigra e il valore dei suoi sforzi durante il conflitto. Invece di stare lì a ingegnare nuove rappresentazioni denigratorie del nemico che accennano costantemente alla sua subordinazione ontologica, sarebbe bene non scendere in queste forme di demonizzazione, perché il compromesso politico e il dialogo diplomatico restino sempre un’opzione possibile.

E di nuovo, essere contro la demonizzazione del nemico non implica sostenere l’eliminazione di qualsiasi odio. L’odio è una passione umana tra le tante, e fa parte della natura umana stessa. Questo non significa che la cosiddetta “natura umana” sia una cosa fissa, né implica una sorta di antropologia filosofica “pessimista”. L’ambito di questa riflessione, piuttosto limitato, è quello di mettere in guardia contro i pericoli di una forma di ostilità senza restrizioni. Anche il comandamento del Vangelo “Ama il tuo nemico” (Matteo 5,44: ἀγαπᾶτε τοὺς ἐχθροὺς ὑμῶν) è circoscritto al ἐχθρός, cioè all’avversario in questioni private (il latino inimicus), e non esteso al πολέμιος, in latino hostes, o nemico politico. Odiare il proprio nemico politico sembra essere legittimo, ma non è saggio indulgervi eccessivamente, poiché lasciarsi trasportare dalle passioni raramente porta a risultati costruttivi.

Mentre Putin costituisce certamente un avversario temibile per le elite che attualmente governano il mondo occidentale, è proprio per questo che essi dovrebbero apprezzare l’occasione storica di poter dimostrare il loro valore. L’ Umiltà (Bescheidenheit), una delle virtù necessarie ai leader politici, deve comprendere un atteggiamento positivo e disponibile all’ apprendimento da parte di chiunque, compreso, e forse soprattutto, dal proprio nemico. Uomini e donne chiamati a governare le nazioni e condurre gli eserciti devono anche essere coscienti dell’esistenza di un destino comune (fratellanza) che và al di là delle divisioni politiche contingenti.

Una seconda linea di pensiero fa riferimento alla tradizione intellettuale che permette, o addirittura raccomanda come un dovere, l’assassinio di un leader politico ogni volta che questi imponga un dominio tirannico. E’ quindi una questione di politica interna. Ci sono numerosi esempi storici di tirannicidio che hanno generato valutazioni e dibattiti controversi, alcuni dei quali durano fin dall’antichità, come nel caso di Pisistrato di Atene o Giulio Cesare. Tuttavia, il tirannicidio solleva per lo meno due questioni: la prima riguarda la definizione stessa della tirannia, la seconda il suo rapporto con la politica internazionale.

La tirannia va considerata separatamente dalle altre forme di politica, poiché spesso viene confusa con queste. La tirannia, la dittatura, l’autocrazia, l’autoritarismo, il dispotismo, l’assolutismo, sono cose tra loro diverse, nonostante alcune comuni aree di sovrapposizione. Il concetto di tirannia non si limita a far riferimento al caso in cui un individuo o un gruppo concentri nelle sue mani tutto, o la maggior parte, del potere politico in una determinata comunità politica. Si riferisce, in particolare, a una forma autocratica degenerata in cui il potere è esercitato contro il principio del bene comune, al di fuori e/o contro le regole costituzionali stabilite, e con una sistematica crudeltà nei confronti dei propri sudditi, allo scopo di mantenere il potere.

E’ discutibile fino a che punto si possa classificare Putin come un tiranno. Non vi è dubbio che il Presidente russo sia l’individuo più potente nella Federazione Russa. Questo è dovuto in parte alla struttura costituzionale e alle sue tradizioni politiche del paese, con particolare riferimento alle concezioni di Eusebio sull’ordine politico e alle successive elaborazioni dopo Costantino Porfirogenito (De Administrando Impero – ndt: http://homepage.univie.ac.at/ilja.steffelbauer/DAI.pdf ); e in parte alle condizioni politiche eccezionali all’interno delle quali Putin è salito al potere nei caotici anni ’90. La Russia di Putin è certamente uno stato autoritario la cui classe dirigente, un’alleanza in qualche modo eterogenea di intelligence, militari, leader religiosi, magnati e influenti personaggi locali, è sufficientemente coesa da mantenere un efficace controllo del paese, ma non abbastanza ampia da promuovere una più sofisticata prospettiva pluralistica.

Tuttavia, nessuno sta dicendo che Putin sta esercitando il suo potere al di fuori del quadro costituzionale dello Stato Russo, e tantomeno tenendo in ostaggio l’intera popolazione attraverso una violenza sadica e onnipresente. Se non altro, Putin gode di un autentico sostegno popolare, pur tenendo conto dello stretto controllo dei principali mezzi d’informazione da parte del Cremlino. Inoltre, si può sostenere che Putin rappresenta una figura moderata nel panorama della politica russa, e la sua estromissione probabilmente aprirebbe la strada ad altre figure politiche significativamente più radicali.

Osservando la questione del tirannicidio da un punto di vista di politica internazionale, la decisione, unitamente alla responsabilità morale e politica di un atto così estremo, non può che essere presa da coloro che sono soggetti al potere tirannico, non da soggetti esterni. Come detto sopra, fatta esclusione del caso deprecabile di una guerra totale, non vi è alcun motivo per considerare tale atto come un’azione politica raccomandabile. Più in generale, il principio di governo della politica internazionale potrebbe non identificarsi tanto in una regola di non-intervento piuttosto utopica, ma nella convinzione che è compito di coloro che costituiscono una determinata comunità politica prevedere il proprio ordinamento politico e costituzionale, riflettendo le specificità storiche e, in senso lato, antropologiche, nonostante l’ingerenza straniera.

La “celebrazione della diversità”, spesso elogiata, se deve essere presa sul serio, non può semplicemente concepire la cultura come una sorta di folklore, ma deve accettare implicitamente e consentire un pluralismo di forme politiche; poiché le culture si basano spesso su principi fondamentali non solo diversi ma spesso opposti. Questo tipo di pluralismo comporta necessariamente un certo grado di agonismo e di territorializzazione. Come detto in precedenza, questo agonismo deve essere legittimato entro confini specifici, in particolare per quanto riguarda il costante pericolo del massimalismo e della degenerazione in guerra totale.

In conclusione, tornando alla tentazione di accelerare l’eliminazione di Putin, ci sono tanti motivi per respingere questo flusso di pensieri e ritenerli gravemente controproducenti. La demonizzazione di Putin non è una politica sana, non è una pratica moralmente onorevole. Per quanto riguarda la venuta dell’Anticristo e la fine del mondo, nessuno ne conosce l’ora (Matteo 24,36: Περὶ δὲ τῆς ἡμέρας ἐκείνης καὶ ὥρας οὐδεὶς οἶδεν, οὐδὲ οἱ ἄγγελοι τῶν οὐρανῶν οὐδὲ ὁ υἱός, εἰ μὴ ὁ πατὴρ μόνος – dal greco: di quel giorno e ora nessun uomo sa, né gli angeli del Cielo, né il Figlio, ma solo il Padre”). Ricordiamo le parole di Jorge di Burgos, il monaco cieco nel romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa (1980): “L’Anticristo è presente in tutti e per tutti, e tutti sono parte di lui”.


Roberto Orsi è un ricercatore che collabora al Progetto Euro Crisis in the Press. Dottore in Relazioni Internazionali, attualmente membro dell’Unità di Studi sulla Sicurezza del Policy Alternative Research Institute e docente nella Graduate School of Public Policy (GraSPP) dell’Università di Tokyo (Japan)

Fonte: http://blogs.lse.ac.uk/

Link: http://blogs.lse.ac.uk/eurocrisispress/category/roberto-orsi/

9.09.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

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