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ALAIN DE BENOIST, UN PENSATORE OLTRE LA MODERNITA'

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A cura di Davide
Il 2 Febbraio 2014
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benoistDI EDUARDO ZARELLI
ilribelle.com

Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore tanto eclettico quanto coerente, dotato di una grande curiosità culturale, che si manifesta in una voracità di letture e interessi di ogni tipo; è un intellettuale singolare, fuori dagli schemi, talmente dinamico e antisistematico da non tenere in alcun conto il fatto che il suo pensiero, all’apparenza, può anche sembrare contraddittorio. La sua evoluzione è molto rapida e costringe a una continua rincorsa coloro che tentano di catalogarlo politicamente.

Costanzo Preve – filosofo recentemente scomparso, di diversa provenienza teorica, ma amico anticonformista del transalpino – ha imbastito con de Benoist un confronto filosofico e politico, da cui emergono, anche se da punti di partenza differenti, significative convergenze.

Egli ritiene che de Benoist incarni propriamente la figura dell’intellettuale “tipo”; chiaramente, non nel senso che egli rappresenti adeguatamente la categoria sociologica degli intellettuali, in cui è ormai diffuso un desolante conformismo, ma nel senso che incarna la funzione ideal-tipica dell’intellettuale come “sensore” critico dei tempi e della società in cui vive: «Alain de Benoist potrebbe essere definito un pensatore “atipico”. Non è affatto così. […] È invece un pensatore assolutamente “tipico”, nel senso però che hanno dato a questo termine grandi pensatori come Weber e Lukács. Il termine “tipico” non connota affatto una media statistica […], ma connota la “tipicità storica” (storica, non statistica) di un atteggiamento esemplare o, più esattamente, di una reazione esemplare a una situazione storica. […] La “tipicità” di de Benoist […] sta proprio nell’avere capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa»1.

Per Preve, la società contemporanea, a livello cognitivo, è dominata da un’ideologia, che intreccia due formule dogmatizzate, ascrivibili una alla destra e una alla sinistra, intese come categorie assiologiche generiche, non più identificate con concrete forze sociali. Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra è lo stile “politically correct”, imperniato su una parossistica esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito (quando non addirittura a pura chiacchiera). Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”. Tale situazione può, per lui, essere riassunta con una formula: «Idee di destra, valori di sinistra». Ecco allora che l’originalità di Alain de Benoist, ciò che lo qualifica oggi in quella che dovrebbe essere propriamente la funzione intellettuale, consiste nel non essere egli allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: «Valori di destra, idee di sinistra».

In effetti, le espressioni “destra” e “sinistra”, se intese come denominazioni aventi la pretesa di rappresentare adeguatamente dei vettori politici nettamente differenziati, risultano oggi marginali, o addirittura fuorvianti: sono state soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società, che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano, perlomeno sul piano della prassi.

Questo significa che i due concetti andrebbero abbandonati? C’è da chiedersi se tale asse paradigmatico destra/sinistra sia ancora valido, all’interno della riconfigurazione del quadro politico risultante dal venire meno delle direttrici tipiche dell’età moderna. Alain de Benoist risulta essere un pensatore originale, nella sua epoca, perché esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie.

Già nell’aprile del 1995, egli partecipò a un convegno a Perugia, che intendeva fornire un contributo significativo al dibattito sulla valenza delle categorie di “destra” e “sinistra”; in tale occasione, facendo un abbozzo dello scenario che probabilmente sarebbe stato disegnato da una nuova configurazione delle opzioni politiche, de Benoist, dopo avere segnalato l’inadeguatezza della distinzione destra/sinistra, in un qualche modo, paradossalmente, rivalutava tale distinzione; infatti, invece di liquidarla semplicemente – come pareva accingersi a fare, in base allo svolgimento del suo discorso – accennava a un impiego compositivo e sintetico delle due, riconoscendo loro implicitamente il merito di essere ancora in grado di significare qualcosa:

«L’attuale crisi del cleavage destra-sinistra non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra, ma che tale cleavage,così come l’abbiamo conosciuto fino a un periodo recente, ha ormai perso di significato. Riflesso di un’epoca al tramonto, esso ha semplicemente fatto il suo tempo. L’attualità non fa che confermarlo. […] Le linee di frattura sono ormai trasversali: esse passano all’interno della destra come all’interno della sinistra. Esse, senza dubbio, non hanno ancora determinato un’autentica riclassificazione; siamo però, con ogni evidenza, alla vigilia di un processo di ricomposizione di lunga durata. […] Si vedrà allora con chiarezza come dei concetti considerati in passato come contraddittori siano nei fatti complementari. […] Non più “né destra, né sinistra”, piuttosto «e destra e sinistra», assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere. Potrà essere, questo, un modo per non essere più emiplegici o per smettere di essere ciechi. Vale a dire, per difendere non più le idee di destra o di sinistra, bensì le idee giuste»2.

La ricerca metapolitica di de Benoist è diretta quindi a individuare un ambito specifico, in cui collocare la sua prospettiva di valore; ambito, che non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data. La sua svolta intellettuale si è espressa nella scelta stessa del nome da dare alla rivista, che ha cominciato a editare alla fine degli anni ‘80, all’insegna di un anticonformismo intellettuale non preventivamente schierato. Egli ricordava, in un intervento: «Quando ho lanciato la rivista Krisis, la definii una rivista “di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo”. In altre occasioni, mi è capitato di definirmi “un uomo di sinistra di destra”, o ancora un uomo che ha valori di destra e idee di sinistra. Potrei citare altre formule di questo genere»3.

Abbiamo dunque a che fare con una figura intellettuale non catalogabile. Perfettamente innestato in una tradizione culturale, che polemizza con le categorie e gli orientamenti modernisti tipici della cultura francese dominante, figlia dei Lumi, pone un approccio di tipo organicista ai problemi della società e della politica. In questo, a un osservatore superficiale, potrebbe apparire come un nostalgico sostenitore di un utopico bel tempo andato. Non è così; de Benoist, infatti, considera il suo pensiero più postmoderno che antimoderno tout court.

Che la critica alla modernità, almeno nella sua veste più pura e non compromissoria, tenda a identificarsi con le modalità di relazione sociale tipiche delle società premoderne è talmente vero che Alain de Benoist focalizza proprio tale punto, se pur problematizzandolo, proprio in vista di un’attuale messa in discussione della pertinenza stessa dei concetti di destra e sinistra: «La dicotomia destra-sinistra è un’invenzione nel contempo recente e localizzata, che sembra legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare. Non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti. E poiché tali concetti sorgono in Europa solo all’epoca della Rivoluzione francese, bisogna pur ammettere o che ciò che designano non esisteva prima (ma allora essi non hanno niente di immutabile) o che rimandano a realtà che venivano chiamate diversamente (ma allora il problema rimane globale).

Infine, poiché si tratta di categorie moderne, si sarebbe tentati di ritrascriverle in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe «di sinistra» e le società di Ancien Régime (oliste) «di destra». Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una «destra» che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?»4

Dal momento che risulta ben difficile stabilire la soglia precisa della comparsa di quegli elementi che contrassegnano, l’inizio dello sviamento storico rispetto al loro modello normativo di società, finisce per essere più utile considerare allora un tipo ideale weberiano, dunque come un costrutto euristicamente funzionale all’individuazione degli assetti sociali di cui un pensiero critico della modernità sarebbe fautore. Naturalmente tale idealtipo va inteso come un complesso in grado di rappresentare adeguatamente una determinata configurazione di idee in relazione alla società e non immediatamente come uno strumento valido per la descrizione dell’effettiva realtà storico-sociale. In tal senso si possono delineare due modalità contrastive idealtipiche di come viene concepita la configurazione sociale, di cui però una risulterebbe primaria e antecedente all’altra, alla stessa stregua della celebre distinzione di Ferdinand Tönnies fra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft).

La riproposizione del paradigma organicista, del resto, si situa su uno scosceso crinale teoretico, che congiunge due differenti pendii: da una parte, vi è la riaffermazione comparativa di una sostanziale metafora premoderna (la società come corpo organico); dall’altra, invece, l’adozione dei risultati della contemporanea ricerca scientifica coi suoi modelli sistemico-ecologici (la società come ecosistema), posizione postmoderna. Un’ipotesi evocata dalle tesi del fisico Fritjof Capra, non meno credibile di quella concernente “un’anima della natura” formulata da Rupert Sheldrake e ispiratagli da una teoria dei campi morfogenetici, secondo la quale tutti i sistemi autoregolativi si organizzano sotto l’influenza di campi creatori di forme.5

In linea generale, quasi in ogni campo, il punto di vista riduzionistico e meccanicistico deve cedere terreno di fronte alle interpretazioni del mondo, che si richiamano invece a schemi di tipo olistico basati sui concetti di complessità, reciprocità e causalità circolare, i quali tendono a rappresentare l’universo nell’ottica di una perpetua morfogenesi, in cui tutti gli elementi sono solidali. L’immagine del mondo che ne risulta è assai simile a quella degli ecosistemi, la cui capacità rigenerativa si colloca in una prospettiva ben discosta sia dalla concezione meramente lineare del tempo che dalla separazione radicale tra soggetto e oggetto; del resto, tutte le teorie dell’autorganizzazione – siano esse olistiche o sistemiche – ispirano le letture critiche dell’individualismo utilitaristico dominante.

Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna è lo sviluppo economico o “progresso”, consistente in realtà nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali). Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza.

La visione del mondo del modernismo e, in particolare, i paradigmi della scienza e dell’economia servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale. Come è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? È semplice: la scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend. Una ragione per cui gli scienziati accettano il paradigma della scienza, e quindi la concezione del modernismo, è che esso razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono.

È molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta. Dato tutto ciò, è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà.

Edward Goldsmith ricordava con insistenza che l’obiettivo primario di una società ecologica deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del Cosmo (omeostasi).

In molte culture tradizionali esiste una parola, per tale modello di comportamento: gli Indiani dell’epoca vedica lo chiamavano rta; nell’Avesta, il termine è a_a; gli antichi Egiziani lo chiamavano maat; un altro termine indù, in seguito mutuato dai buddhisti, è dharma; i Cinesi lo chiamavano Tao.

Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente. In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del Wu wei (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». Se seguire la Via significa mantenere l’ordine cruciale del Cosmo, si può ritenere che una società lo faccia quando il suo modello di comportamento, o di autogoverno, è omeotelico. L’omearchia è il concetto chiave dell’intera visione olistica di Goldsmith e indica il controllo dei sistemi naturali differenziati da parte di una gerarchia di sistemi più ampia, di cui essi fanno parte. Quando invece il modello di comportamento di una società è eterotelico (il controllo delle parti di un sistema da parte di un agente esterno/estraneo alla gerarchia), si deve ritenere che la società segua l’antiVia, cioè quella che minaccia l’ordine del Cosmo e provoca inevitabilmente la rottura degli equilibri. Quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale. Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera, il progresso (o anti-evoluzione) può essere identificato con il comportamento eterotelico, che sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità.

Non sarà, quindi, una forzatura ritenere l’Alain de Benoist della compiuta maturità, sulla via heideggeriana della dimora dell’Essere così come del mutamento del paradigma dominante, vicino a una prospettiva olistica, nei toni di un Louis Dumont e con un retroterra di rigore e di realismo, che gli deriva dal fatto di essere un erede – dichiarato e orgoglioso – di quella vivace e controversa tendenza culturale, affermatasi tra le due guerre, nota come Rivoluzione conservatrice, che ha tentato di conciliare il mito e la scienza; il suo impegno culturale di rifondazione dei riferimenti filosofico-politici si è evoluto nel tempo seguendo due passaggi, nella consapevolezza dell’inestinguibilità del polemos in una prospettiva comunitaria e pluralista riassumibile in due punti: il primo è l’affermazione della perdita di significato della distinzione tra “destra” e “sinistra”, in favore dell’elaborazione di una nuova cultura; il secondo, la precisazione che la trasversalità tra “destra” e “sinistra” deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi, in cui tale coppia concettuale sia vista in termini di positiva contraddizione e non di mera reciproca negazione.

Potrebbe sembrare che quest’ultima formulazione contenga una sfumatura poco significativa, tuttavia è proprio qui che Alain de Benoist gioca un ruolo metapolitico, essenziale in un’epoca in transizione; infatti, pronunciarsi a favore di una fertile contraddizione tra “destra” e “sinistra” significa che l’asse da esse delineato può solo contribuire a ingenerare nuovi, ulteriori e proficui paradigmi per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Che Alain de Benoist riesca a vincere la battaglia che si prefigge, rinnovando lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico e culturale contemporaneo, è una questione aperta e problematica. Siamo però certi che l’impegno, per quanto ambizioso, è all’altezza della sua intelligenza e che, indipendentemente dall’esito, non modificherà la sua onestà intellettuale, il suo inappuntabile “stile” e il suo nobile e disinteressato modo di “stare al mondo”.

Un pensatore “epocale” oltre il moderno.

Eduardo Zarelli
www.ilribelle.com
2.02.2013

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

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1 C. Preve, Il paradosso de Benoist. Un confronto politico e filosofico, Roma, Settimo Sigillo, 2006, pagg. 47-8.

2 A. de Benoist, “La fine della dicotomia destra/sinistra”, in A. CAMPI – A. SANTAMBROGIO, (a cura di), Destra/sinistra: storia e fenomenologia di una dicotomia politica, prefazione di Antimo Negri, Pellicani, Roma, 1997, pagg. 2-91.

3 A. de Benoist, “Risposta di Alain de Benoist alle critiche di Dominique Venner”, in Diorama letterario, n. 277, maggio-giugno 2006, pag. 16.

4 A. de Benoist, Destra! Sinistra!, in «Diorama letterario», n. 154, Gennaio-Febbraio 1992, pag. 20.

1 C. Preve, Il paradosso de Benoist. Un confronto politico e filosofico, Roma, Settimo Sigillo, 2006, pagg. 47-8.

2 A. de Benoist, “La fine della dicotomia destra/sinistra”, in A. CAMPI – A. SANTAMBROGIO, (a cura di), Destra/sinistra: storia e fenomenologia di una dicotomia politica, prefazione di Antimo Negri, Pellicani, Roma, 1997, pagg. 2-91.

3 A. de Benoist, “Risposta di Alain de Benoist alle critiche di Dominique Venner”, in Diorama letterario, n. 277, maggio-giugno 2006, pag. 16.

4 A. de Benoist, Destra! Sinistra!, in «Diorama letterario», n. 154, Gennaio-Febbraio 1992, pag. 20.

5 R. Sheldrake, La rinascita della natura, Corbaccio, 1994; R. Sheldrake, La Presenza del Passato. La risonanza morfica e le abitudini della natura, Crisalide Edizioni, 2011. Cfr. F. Capra, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982; F. Capra, La rete della vita, Milano, Rizzoli, 2001; F. Capra, La scienza della vita, Milano, Rizzoli, 2002.

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