Adriano Olivetti, l'utopista: intervista a Riccardo Cecchetti

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di LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine

La cover di Adriano Olivetti, un secolo troppo presto, Foto il Becco Giallo

Alla Fiera del libro di Torino, il fine settimana passato, in due date diverse (quindi due presentazioni), ci sono stati due autori che lavorano insieme: sono Riccardo Cecchetti, illustratore, e Marco Peroni, sceneggiatore. Le opere in questione si intitolano Gigi Meroni, il ribelle granata e Adriano Olivetti, un secolo troppo presto, pubblicate da il Becco Giallo. Olivetti ha vinto da poco il “Premio Micheluzzi” per la sceneggiatura al Comicon di Napoli, il salone internazionale del fumetto.

Come mai allora Riccardo Cecchetti e Marco Peroni, autori a quattro mani delle due opere sopracitate hanno due giorni alla Fiera del libro di Torino, in aggiunta per dei fumetti? Un po’ perché la casa editrice è il Becco Giallo, da poco entrata nella sacra famiglia Fandango (quindi tutt’altra potenza di fuoco), un po’ perché queste due graphic novel, due biografie (anche se il sostantivo “biografia” non dice il vero), sono dei veri gioielli. I personaggi narrati si stagliano, prima di ogni altra considerazione, per le loro idee e per i loro valori, con un surplus di malinconia che ricorda quanto essi siano unici e lontani, rilegati nell’ombra del passato remoto.
Ma soprattutto (qui parla il mio lato didattico) sanno incuriosire un pubblico trasversale (metti dai 12 ai 100 anni – 101 già no) proprio per non essere vere biografie disegnate, ma fumetti ispirati in stilnovo metropolitano, in cui la raffinatezza stilistica di chi ci ha lavorato e l’elevazione spirituale (magari non l’amore) dei protagonisti non sono un intruglio amaro, ma un congegno umano, frutto di un perfetto compendio fra la loro storia e i loro pensieri.
Gigi Meroni era un calciatore ribelle, Adriano Olivetti un industriale utopista; del primo, Emiliano Mondonico ha scritto che “fu profeta del futuro come nessun altro nel calcio italiano”, del secondo, lo storico Giorgio De Santillana disse “un Proudhon che ti compra la Underwood”. Visti i tempi bui e che Adriano Olivetti, un secolo troppo presto è l’ultimo uscito (ottobre 2011 ristampato aprile 2012) l’attenzione per ora rimane su questo bel volume. Oltre perché me l’hanno commissionato, certo.
Il libro è un’intervista immaginaria ad Adriano Olivetti ambientata nel futuro, precisamente nel 2061, che una laureanda propone ad Olivetti in quel treno dove, da solo (più di una metafora su tutta la propria esistenza), perderà improvvisamente la vita, anche se, all’atto pratico, Olivetti venne ucciso prima del tempo proprio con il suo isolamento. Esperimento: pensate allo stile Montezemolo, al verbo Della Valle o peggio al pragmatismo Marchionne, ed ascoltate queste parole (riprese dal libro) di un imprenditore scomparso nel ’60: “Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare… un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.
Il passato e il presente, sentite come stride? Al di fuori della retorica che uno può trovarci si deve considerare che Adriano Olivetti fu il primo a ridurre l’orario di lavoro da 48 a 45 ore, mantenendo gli stipendi più alti della media nazionale. Olivetti nelle sue aziende lasciava degli spazi agli operai dove organizzavano riunioni, concerti, incontri letterali nella pausa pranzo, lo stesso Pasolini andò a parlare in una sua fabbrica. Negli stabilimenti c’erano biblioteche, di cui tutta la comunità poteva usufruire.
Olivetti si occupò dell’urbanistica di Ivrea costruendo un quartiere tuttora considerato unico, perché la comunità era sempre al centro dei suoi pensieri, non volendo creare quelle che sono oggi le nostre comunità: un’accozzaglia d’invidiosi pronti ad armare le mani per un posto macchina. Nelle fabbriche c’erano grandi finestre. Olivetti che fu un intellettuale, un politico, un antifascista, un operaio (lavorò da giovane nelle sue aziende), un editore, riuscì a trovare quella che viene chiamata la terza via, fra le posizioni socialiste dell’Unione Sovietica e quelle capitalistiche degli Stati Uniti senza cercare il compromesso ma la sintesi, unendo valori che solitamente si considerano agli antipodi come profitto e solidarietà, produzione e stile, etica ed economia, industria ed agricoltura. Egli era tutte queste cose eppure, anche quando sognava, rimaneva sulla crosta terrestre, con gli uomini.
Immaginatevi che Olivetti assumeva a “terne” di laureati, prendendo un economista, un tecnico ed un umanista proprio per valorizzare l’interdisciplinarità. Dico “immaginatevi”, perché oggi sarebbe un discorso completamente fuori di testa. E costruire questa storia nel futuro come ci propongono Cecchetti e Peroni significa essere ottimisti, sperare in un piccolo rinascimento italiano in cui l’opera di Adriano Olivetti possa essere attualità.

Dopo pochi minuti che sono a pranzo con Riccardo Cecchetti e discettiamo di questi affari, capisco che è innamorato del proprio lavoro e scopro che entrambi siamo dei borderline, il che mi mette di buon umore. Quindi, come tutti i borderline, abbiamo bisogno di barriere. Allora beneficiamo di un senso di responsabilizzazione per il quale ci si deve prendere cura uno dell’altro. “Questo è l’ultimo mezzo di bianco”, dico categorico (senza crederci), ma ecco dall’altra parte la responsabilità, “ok, mi risponde, “facciamo questa maledetta intervista”.

Perfetto. Senti, non è stato un po’ ostico tradurre un personaggio come Olivetti in un fumetto? È un tantinello inusuale…
“Il papà di Marco Peroni ha lavorato alle fonderie Olivetti, Marco oltre ad essere un bravissimo sceneggiatore è uno storico. Il libro su Meroni (Gigi Meroni, il ribelle granata, Becco Giallo, 2010, N.d.R.) per me è stato abbastanza facile, visto che sono un tifoso del Toro, e Gigi Meroni era un personaggio che si ricorda oltre per la sua classe, per esempio, anche per aver, nel 1966, rifiutato un miliardo dall’avvocato Agnelli. Considerando quello che sta succedendo ora nel calcio, un vero anticonformista come Meroni non poteva che andare a pennello. Olivetti in maniera diversa è un marziano dell’imprenditoria e soprattutto oggi, con l’attuale situazione economica e politica, abbiamo considerato lui come un esempio da far conoscere”.

Che difficoltà grafiche hai trovato nella rappresentazione? Forse sbaglio ma i tuoi disegni mi richiamano molto il tratto dei futuristi…
“Devo dire che ho avuto molte difficoltà. Se Gigi Meroni è facilmente rappresentabile perché indossa la maglia e fisicamente era caratterizzabile in quanto magrissimo, capello lungo e baffo alla tartara, Olivetti invece, se entrasse ora nel ristorante, nessuno lo riconoscerebbe. Anche per questo ho disegnato molta urbanistica ma non potevo farlo nel modo classico, altrimenti avrei ottenuto (con tutto il rispetto) una Londra o una New York della Bonelli. Ho fatto questa scelta di usare matita e collage. Io mi sono sempre ispirato a Magdalo Musso, al suo discorso della pittura materica e della ricerca. Al di là del futurismo che in qualche misura ci potrebbe rientrare come effetto del razionalismo, ho voluto creare una sorta di materia facendo varie sovrapposizioni al computer e usando pastelli grassi, acrilici con un azzurro fortissimo che doveva richiamare la speranza”.

Io ne sapevo qualcosa dai tempi dell’università, ma Olivetti, mi rendo conto oggi, è stato forse volutamente oscurato. Leggendo il vostro fumetto mi sono incuriosito e il giorno dopo sono andato in biblioteca a prendere qualche libro sull’industriale di Ivrea. È un effetto che speravate?

“Sai, l’olivettiano è un intellettuale un po’ snob e l’utente medio del fumetto è giovane (non me la chiamare per favore graphic novel, non ce la faccio ancora). Tutti lo conoscono per sommi capi, c’è molta superficialità. Ultimamente nel bar sotto casa a Torino (Riccardo Cecchetti vive a Torino, N.d.R.), quando raccontai che stavo facendo un libro su Olivetti si erano innervositi perché da commercianti lo associavano ai registratori di cassa… Sinceramente io ero scettico ma le mie previsioni sono sempre sbagliate… mi sono ricreduto quando ho visto alla fiera del fumetto di Lucca ragazzi di 20 anni comprare Olivetti. Devo ringraziare Marco Peroni perché, insieme, siamo riusciti a proporre un argomento difficile. Ho deciso di farlo quando Marco mi ha portato sulla tomba di Olivetti; è un prato ben rasato con una croce di legno, senza foto. Quella sobrietà nella morte mi ha impressionato, perché è la stessa che poi ho ritrovato nella sua vita. La famiglia Olivetti mi ha invitato nella sua casa, non c’era nulla di fuori posto, nulla sopra le righe, poche foto, una casa semplicissima, di una persona molto rigida e determinata nelle sue idee”.

Che rapporto esisteva fra quello che era il modo di fare impresa di Olivetti e quello degli altri industriali?
“Pensa che perfino la CGIL si agitò quando dal ’55 Olivetti cominciò a pagare i propri operai il 20 percento in più del contratto collettivo. Ma te lo posso spiegare con delle immagini. Ivrea e Torino, due città vicinissime, con due realtà industriali molto importanti ma diverse. Olivetti fu il primo a domandarsi: perché il profitto non deve coincidere con l’estetica? La vecchia fabbrica di Olivetti è un’immensa vetrata perché la maggior parte degli operai erano contadini e, quindi, non voleva snaturarli rinchiudendoli nelle quattro mura di uno stabilimento. Tutt’intorno alla fabbrica c’erano boschi, giardini, un vero approccio estetico ed umano. Sono andato a vedere l’Ivrea olivettiana, le case degli operai – che ho anche disegnato – sono meravigliose, in cui vedi insieme natura, architettura e design, sembra un film di fantascienza bella, niente Blade Runner. Oggi si parla di impatto ambientale, ma già in quegli anni Olivetti diceva di costruire case al massimo di due piani. Aveva una visione della vita a dimensione d’uomo. Invece, se vieni a Torino a fare un giro in zona Lingotto vedi la triste rappresentazione del mastodontico, con la peggiore edilizia popolare. Anche se non mi piace la parola, vedi la fatiscenza. Le case di Olivetti sono piccole ville con orto e giardino, l’eccellenza dell’architettura razionalista di quegli anni”.

Non a caso egli parlava di smart city, non troppo grandi né troppo piccole…
“Infatti, il principio era far integrare l’alto dirigente con l’operaio nello stesso tessuto urbano e con l’ambiente. Oggi il modello olivettiano dovrebbe essere rivisto a partire dalla visione della comunità, in rapporto con la propria storia (nel caso di Ivrea, le radici contadine) e con la bellezza. Qualsiasi essere umano vive bene se circondato da cose belle, su questo sono assolutista”.

Con la morte nel ’60 di Olivetti c’è stato un rapido declino che raccontate nel libro, puoi dirmi qualcosa?
“Nel 1962, guarda caso, le azioni Olivetti hanno un tracollo. L’alta finanza decide che Olivetti deve sparire. La casa editrice venne assorbita da Mondadori. Basta dire che Valletta, quando svendette il reparto elettronica, disse: ‘finalmente abbiamo estirpato il neo dell’elettronica’, nell’indifferenza dello Stato la cedettero alla General Electric ed era un fiore all’occhiello dello sviluppo italiano. I soliti noti, i Cuccia e i Valletta, fecero il lavoro sporco”.

Qual’è secondo te l’eredità di Olivetti e se c’è qualcuno che in qualche modo, fra gli imprenditori, ti ricorda la figura di Olivetti?
“Triste a dirsi, Olivetti dovrebbe essere il punto di riferimento di almeno una buona fetta degli imprenditori ma, ahimé, in questa perversione del capitalismo bancario (come ti dicevo, post mortem Olivetti fu vittima del peggiore aggiotaggio, IMU, Mediobanca, FIAT), non vedo nessun imprenditore di quel tipo… o almeno… non per tirare l’acqua al mio mulino, ma ci sono piccole realtà come i ragazzi de il Becco Giallo che sono paragonabili per stoicismo ed eroicità ad Adriano Olivetti. Una cosa veramente avvilente fu l’ex ministro – omino di burro – Sandro Bondi che in un libro ha paragonato Olivetti a Berlusconi. Ti dico tutto”. (Riccardo parla di Il sole in tasca. L’utopia concreta di Adriano Olivetti e Silvio Berlusconi, Mondatori, 2009 – imperdibile).

Mi racconti qualcosa della vita di Olivetti che non è finita nel libro?
“Mi sembra nel ’55 o nel ’56, venne una delegazione sovietica in visita alla fabbrica di Olivetti, videro come funzionava, gli spazi, parlarono con i lavoratori, e se ne andarono convinti che fosse un bluff, cioè che si erano organizzati per quei due giorni per mostrare qualcosa di non vero. L’azienda invece a tutti gli effetti funzionava così. Cure mediche gratuite, cure psichiatriche (di fronte alla fabbrica c’era un consultorio per quegli operai che potevano risentire dello stress lavorativo), asili gratuiti in cui il figlio dell’operaio della fonderia era con il figlio del dirigente. Come direttori del personale Olivetti assumeva scrittori, filosofi, disegnatori. Diceva: ‘per me la cultura è un’arma’… Marco Peroni, mentre montavamo questa storia, mi ha detto: ‘Ci pensi, Olivetti avrebbe assunto uno come te a direttore del personale…’. Poi si è ricreduto: Forse uno proprio come te no'”.

Beh, in effetti caro Riccardo…
Chiudo con una delle impressionanti frasi di Olivetti che trovate nel libro di Cecchetti e Peroni: “Il benestante si accorge che la città è inadeguata solo quando la sua auto è ferma in coda… non sa che era già inadeguata per l’operaio che trova lavoro solo a due ore di distanza da casa. Il bello e l’utile anziché conciliarsi, si presentano ancora come strade opposte. Questa divisione va respinta come un ostacolo alla creazione di una vera civiltà”. Non so a quante ore di strada avete il vostro lavoro, ma questa si potrebbe chiamare Rivoluzione. Ora, se vi pare poco, il vostro Olivetti finisce qui, altrimenti fate come me, andate in biblioteca e leggete qualcosa su l’imprenditore utopista. Poi magari rischierete di scriverci articoli lunghissimi come questo, ma sarà solo perché ve ne sarete appassionati.

Luca Pakarov
16.05.2012

http://www.rollingstonemagazine.it/cultura/notizie/adriano-olivetti-lutopista-intervista-a-riccardo-cecchetti/52961

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