A LONDRA E' INIZIATA LA GUERRA CONTRO L'IRAN

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DI MICHEL COLLON

Si chiamava Jack. O Robert. Oppure Hassan. Era contro la guerra e detestava Bush e Blair. Come molti dei Londinesi che, giovedì mattina, stavano andando al lavoro. Non sapeva che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. La maggior parte dei londinesi è contraria all’occupazione in Iraq e aveva votato un sindaco, contrario anche lui. E molte altre vittime, influenzate dai media, semplicemente, non avevano capito la natura economica di questa guerra.
Condannare l’atto barbarico commesso a Londra, significa difendere il ricordo delle vittime. Perché Bush e Blair tenteranno di utilizzare la loro morte per imporre ancora aggressione e sofferenza. Là e qui.
Quello stesso giorno, Bush se l’è presa con l’Iran.
Vittime del terrorismo? Sì. Ma, soprattutto, del grande terrorismo di Stato. Il terrorismo dei più forti che, per restare tali, bombardano e torturano un popolo. La cui unica colpa è quella di voler restare padrone del proprio petrolio, della propria vita e del futuro dei propri figli.
E in questo periodo, a Bagdad è ogni giorno King’s Cross. A causa di Blair. Domande preoccupanti

In questi momenti di emozione intesta e di manipolazione
politico-mediatica dell’emozione, bisogna mantenere il sangue freddo per farsi due domande:
1. Che cosa ci nascondono?
2. A chi giova il crimine?

Che cosa ci nascondono?

Venerdi, un alto funzionario della polizia londinese ha dichiarato: “Nessun segno premonitore avrebbe permesso di intuire cosa sarebbe successo” (Reuters, 8 luglio). Davvero?
Il mondo intero sapeva che dopo New York e Madrid, sarebbe stato il turno di Londra. Da mesi si annunciava lo svolgimento del G8 in Gran Bretagna, un momento propizio, chiaramente. Ora, stranamente, a giugno, i servizi segreti britannici avevano abassato il “livello di allerta” da “arancione” a “giallo”.
Dopo l’11 settembre inoltre, i servizi segreti statunitensi avevano affermato che non avevano presagito e visto niente. Ma varie indagini hanno dimostrato che sapevano molte cose e si erano mostrati stranamente negligenti, per non dire peggio. (v. nello specifico “11 settembre, perché hanno lasciato agire i pirati dell’aria”, Peter
Franssen ed. www.epo.be, 2002).

A chi giova?

Gli attentanti di Londra arrivano al momento giusto per chi va alla guerra. Bush era sempre più in difficoltà a causa del suo evidente fallimento in Iraq. All’interno del suo stesso partito, alcune voci chiedevano il ritiro. Il suo ultimo discorso su “un mondo più sicuro e più libero” non aveva convinto nessuno. E Blair rimaneva isolato in Europa.
La soluzione? “Per unirci, abbiamo bisogno di un nemico comune”, aveva detto recentemente Condoleeza Rice. E come arrivarci? Ecco la risposta di David Rockfeller (dirigente dell’Esso, della Chase Manhattan Bank, ma anche dell’onnipotente Consiglio per le relazioni estere, dove la
crema degli industriali e dei politici del pianeta elabora la strategia generale per la direzione del mondo): “Siamo alla vigilia di una trasformazione globale. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è la grande crisi risolutiva, e le nazioni accetteranno il nuovo ordine mondiale”.
Bush e Blair hanno bisogno del terrorismo, hanno bisogno che le popolazioni si sentano in pericolo. Per legittimare la loro guerra globale, per nascondere che questa fa il gioco esclusivamente delle multinazionali, bisogna fare paura ai cittadini perché sostengano la politica violenta dei loro governanti, come ha mostrato molto bene Michael Moore nel suo film Bowling for Columbine.

Gli attentati di Londra sono pericolosi per la pace. I loro autori non hanno niente in comune con la vera resistenza che se la prende con i militari o con i collaboratori, non con i civili. Assassinare civili innocenti aiuta Blair e Bush a riunire i ranghi, a provocare una falsa identificazione. “Siamo tutti in pericolo” quando, in realtà, la loro guerra si rivolta anche contro la popolazione degli USA e della Gran Bretagna. Ma ci ritorneremo.
Dopo l’11 settembre 2001, in una sola settimana, Bush è riuscito a fare approvare il suo programma di guerra in Afghanistan e in Iraq, preparato da tempo. E, in un tempo record, la sua legge “Patriot Act” offensiva generale contro la libertà negli stessi USA. Un pacchetto di legge talmente imponente e complesso che aveva richiesto almeno un anno di preparazione. Non dimentichiamo che, la sera stessa dell’11 settembre, il ministro statunitense Rumsfeld aveva dichiarato: “Quello che è accaduto oggi basta a convincervi che questo paese deve
urgentemente aumentare le spese destinate alla Difesa e che il denaro per finanziare le spese militari deve essere prelevato, se necessario, dalle casse della previdenza sociale?”. Programmi pianificati da lungo tempo, dunque, dal complesso militare-industriale.
Ecco chi risponde alla domanda “A chi giova il crimine?”. Domani, sicuramente, Blair e anche altri come Saskozy torneranno a spiegarci che “per la nostra sicurezza”, bisogna “prelevare dalla previdenza sociale per aumentare le spese militari” e repressive. In effetti, puntare i riflettori sul terrorismo serve a deviare l’attenzione dal
fallimento delle cosiddette “politiche anti-povertà”.

Chi è responsabile della povertà?

Dopo gli attentati, abbiamo visto Bush uscire dal castello di Glenneagles e rivolgersi alle telecamere, con la voce tremolante, per celebrare “le persone che qui (al G8), cercano il modo di risolvere la questione della povertà in Africa”.
In realtà, se ogni tre secondi un bambino muore di povertà è proprio a causa di Bush e delle multinazionali.
La povertà del terzo mondo non cade dal cielo. È la conseguenza di cinque secoli di brutale saccheggio delle materie prime e, ancora oggi, dei rapporti economici imposti alle colonie, parola che rimane valida. Con i loro rapporti ingiusti, le multinazionali continuano a succhiare le ricchezze del terzo mondo e a scavare una distanza in modo sempre più drammatico.
E quando un paese desidera assicurare il proprio sviluppo nell’indipendenza, quando vuole soltanto trarre profitto dal proprio petrolio, dalle proprie ricchezze naturale o dalla propria mano d’opera, come reagiscono le super potenze? Prima di tutto, tentano di sottometterlo con il ricatto del FMI e della banca mondiale perché quel paese abbandoni le proprie attività, i propri servizi pubblici per la popolazione e affinché diventi una docile pedina delle multinazionali. Se ciò non basta, si passa all’embargo economico, alle guerre civili, alimentate o importate e, alla fine, ai bombardamenti o ai colpi di stato della CIA.

La guerra dei cent’anni

Alla caduta del muro, il capitalismo in trionfo ci aveva promesso un nuovo ordine mondiale fatto di democrazia e di una pace durevole. Ma il primo diritto dell’uomo, quello di poter mangiare, è ancora rifiutato a gran parte dell’umanità. E le guerre statunitensi, dirette o indirette, si sono moltiplicate: Iraq, Jugoslavia, Afghanistam, Congo, Caucaso. E Washington ha già designato i prossimi bersagli: Iran, Siria, Corea, Cuba, Venezuela, Zimbabwe etc.
In realtà, dopo la caduta dell’Unione Sovietica e lo sconvolgimento dei rapporti di forza internazionali, gli USA si sono lanciati in una nuova guerra dei cent’anni, di cui ognuna delle guerre parziali non rappresenta che una tappa. Questa guerra globale persegue tre obiettivi, strettamente collegati:
1. Controllare le materie prime, soprattutto l’energia, e poterne privare i rivali.
2. Smembrare qualsiasi Stato del terzo mondo che sia troppo indipendente.
3. Subordinare le altre super-potenze: Europa, Giappone, Russia.

Questa guerra dei cent’anni per colonizzare nuovamente il pianeta, questa militarizzazione delle relazioni internazionali è, per le multinazionali statunitensi, la sola “soluzione” per sfuggire alla crisi che loro stesse hanno creato.

Come hanno provocato questa crisi?

Impoverendo da una parte i loro lavoratori e dall’altra quelli del terzo mondo colonizzato. Cosa che ha per effetto l’aggravarsi dello scarto delle ricchezze e la rovina di quelli che dovrebbero acquistare i loro prodotti. Circolo vizioso.
Questa crisi economica strutturale è irrisolvibile perché è una crisi dovuta al fossato tra ricchi e poveri, è la crisi inevitabile di un sistema ingiusto. E la guerra non è imputabile al carattere di Bush o della sua équipe, no, è semplicemente una strategia per “uscire dalla crisi” rafforzando il dominio sul mondo e sulle sue ricchezze. La guerra militare è la conseguena delle leggi della guerra economica.
Controllare le materia prime serve ad assicurarsi un vantaggio decisivo nella concorrenza esacerbata tra multinazionali. Chi non approfitta di questo vantaggio non sopravvivrà alla guerra economica.
E poiché i mezzi di guadagno non sono limitati da nessuna legge morale, la guerra è uno di quei mezzi.

Perché attaccare l’Iran?

Perché il prossimo bersaglio è l’Iran?
Perché questo Paese possiede delle importanti riserve petrolifere, perché è la principale potenza della regione che rifiuta di sottomettersi a Israele, perché i recenti tentativi di far capitolare Teheran sono falliti.
Attaccare l’Iran significa in realtà tentare di controllare l’insieme del petrolio in Medio-Oriente, come del resto, in tutto il pianeta.
Per permettere agli USA di esercitare una sorta di ricatto sull’approvvigionamento petrolifero dei rivali: Europa, Giappone, Cina. Chi vuole dominare il mondo, deve controllare tutte le fonti di energia.

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Ma si tratta anche di ostacolare e impedire la costituzione di un’alleanza tra potenze resistenti in Asia. In “La guerre globale à commencé” (La guerra globale è iniziata), proprio dopo l’11 settembre, avevamo scritto: “Certo, il principio fondamentale di ogni politica imperialista è ancora quello di dividere per regnare. Brzezinski continua spiegando che sul continente asiatico gli USA sono attanagliati dalla paura e che la Cina potrebbe essere il pilastro di un’alleanza anti-egemonica stretta da Cina, Russia e Iran”.
Si tratta, chiaramente, dell’ultimo bersaglio della guerra globale, essendo il più vasto mercato del futuro e il più potente tra i Paesi resistenti. Infatti, gli Stati Uniti, per continuare a essere la sola super potenza, hanno già da tempo riconosciuto nella Cina il loro nemico numero uno. Tutto ciò che fanno sul continente asiatico è da valutare in questa prospettiva. Soprattutto l’accerchiamento della Cina, acceleratosi con le basi militare stabilite in Afghanistan e che proseguirà nel corso degli eventi della guerra globale.

Ogni guerra è una guerra contro ognuno di noi

Bush e Blair vogliono farci credere che, con queste guerre, difenderanno il nostro livello di vita, in Europa e negli USA. Che avremmo gli stessi interessi di fronte ai paesi “canaglia”.
Falso. Attaccare l’Iraq ha giovato solo alle multinazionali del petrolio, delle armi, dell’edilizia e della finanza. Così come attaccare la Jugoslavia, andando al di là delle bugie medianiche, non è stato un atto umanitario ma una privatizzazione per mezzo delle bombe. Il vero scopo delle super potenze – attestato dai loro documenti strategici – era quello di assumere il controllo di
un’economia che era rimasta indipendente dalle multinazionali e di una manodopera che voleva mantenere i diritti sociali dell’autogestione.
Distruggendo questi sogni di indipendenza, si lanciava un avvertimento all’Europa dell’est e alla Russia: abbandonate i vostri sogni di sfuggire alle multinazionali! Facendo ciò, si prendeva possesso della manodopera dell’Est. Per stabilirvi fabbriche, per importare i lavoratori polacchi, in concorrenza con i lavoratori occidentali, con l’obiettivo di diminuire i salari e aumentare i benefici.
È per questo che la globalizzazione e la guerra sono due facce della stessa medaglia. La globalizzazione mira a soggiogare tutti i Paesi del mondo alla pressione totale delle multinazionali, sotto il ricatto generalizzato delle condizioni di lavoro. E la guerra è il manganello per chi rifiuta questo ricatto.
Ciò mostra che una guerra di aggressione da parte di Bush e Blair (o, dell’EU, magari, più in là), non fa gli interessi del lavoratori statunitensi o europei. Al contrario, sono proprio i lavoratori a pagare. Per prima cosa, fornendo le vittime, sia come soldati che come bersagli degli attentati, ma anche e soprattutto trovandosi vittime di un ricatto anti-sociale che li farà sprofondare nella disoccupazione o nell’iper precarietà del lavoro.
In sintesi, la guerra di Bush e Blair, è la guerra dei ricchi contro i poveri. Una guerra contro il futuro dell’umanità. Mettere fine alla guerra, mettere fine alla povertà, significa combattere Bush e Blair. Non c’è una via di mezzo.

Prossima fermata Teheran

Dopo gli attentati di Londra, Bush si è affrettato a denunciare la “minaccia iraniana”. Ma, di fatto, sta preprando da molto tempo la sua guerra a questo Paese. Perché le guerre non iniziano dalle bombe; hanno bisogno di una preparazione:
– Militare: preparare la logistica e le basi d’appoggio per l’assalto (argomento sul quale torneremo).
– Mediatica: preparare l’opinione pubblica demonizzando il Paese da colpire.

Questa preparazione mediatica consiste in una propaganda della guerrache fa leva sulle coscienze ma anche sull’inconscio.

Argomento n. 1. Le armi di distruzione di massa. Sì, di nuovo. Da mesi, i grandi media occidentali puntano i riflettori, come Bush, sulla “minaccia nucleare iraniana”. Mentre Israele possiede già duecento testate nucleari clandestine e ha già aggredito tutti i Paesi vicini, il solo pericolo che voglio farci temere è Teheran. Certo, le
armi nucleari sono un flagello da eliminare, ma perché dovremmo fidarci di quelle di Bush e di Sharon? Come possiamo negare a un Paese il diritto di difendersi da un’aggressione? Sappiamo che Bagdad e Belgrado sono state attaccate impunemente, solo perché non avevano
modo di difendersi.
Argomento n. 2. Il “terrorismo islamico”. La storia delle armi aveva ridicolizzato Bush nel caso Iraq, dunque bisogna aggiungere “il terrorismo islamico”. Un tema che ci fa paura “in casa nostra”.
Domani, forse, delle pseudo-rivelazioni dei servici segreti statunitensi o britannici, dandosi il cambio, tenteranno di convincerci che dietro gli attentati c’era Teheran. Proprio come il tentativo di Bush di collegare Saddam ad Al-Qaida.
Argomento n. 3. La democrazia. Visto il fallimento dell’argomento numero 2 nel caso iracheno, i redattori dei discorsi di Bush ci vendono, adesso, la guerra come un argomento di marketing: la democrazia. Si tratterebbe di garantire ai numerosi Paesi attaccati la “libertà”. Buffo, considerando che la famiglia Bush ha costruito la sua fortuna collaborando con Hitler, poi con Bin Laden. E che Bush padre, quando era a capo della CIA, ha protetto i peggiori dell’America latina e non solo. Ma se i media tralasciano questo cupo passato, l’argomento della democrazia funziona ancora.
Sul piano delle libertà, ognuno può pensare quello che crede sui governanti iraniani, ma una cosa è certa: non è quello il problema.
Non è per la bella faccia della democrazia che Bush cerca di fare man bassa in quel Paese, ma solo per l’oro nero.
D’altronde, è credibile che gli Stati Uniti vogliano importare la democrazia in Iran? Nel 1953, un colpo di stato organizzato dalla CIA aveva rovesciato il primo ministro Mossadegh, troppo indipendente sulla questione del petrolio. Poi, i sei successivi presidenti americani, imposero al popolo iraniano la dittatura fascista dello scià Pahlevi, insieme ai terribili seviziatori, della Savak: 300 000 persone torturate in vent’anni. I professorini sembrano soffrire di amnesia!

Smettiamola con le ciance del “né, né” e della “guerra per la
democrazia”! “Né Bush né gli ayatollah”? Assisteremo preso al ritorno di questa penosa parola d’ordine molto diffusa tra una certa rammollita, dopo che ha causato tanto male in Iraq e in Jugoslavia? Nel 2001, denunciavamo l’effetto nefasto degli slogan “Né Bush né Saddam”, “Né la NATO né Milosevic”, “Né Sharon né Arafat”: “Dopo dodici anni, questa posizione dominante nella sinistra intellettuale
europea condanna il movimento pacifista alla passività. Perché pone sullo stesso piano aggressori e aggrediti. Se tutti sono malvagi allo stesso modo, non abbiamo motivo di fare di tutto per arrestare l’aggressione.
Il “né, né” è il cancro del movimento pacifista. Bisogna porvi fine. A minacciare il mondo non è Saddam o Milosevic, è Bush. Non è la Jugoslavia o l’Iraq che ogni giorno condanna a morte 35000 bambini del terzo mondo, sono le multinazionali.
Gli Stati Uniti minacciano la pace in ogni angolo del mondo.
Anteponendo i rimproveri agli USA, corretti o meno che siano, si fa il gioco dell’aggressione. Non spetta ai governi occidentali dirigere i Paesi del terzo mondo e secondo quali interessi. Spetta a quelle popolazioni decidere. Ma se si permette a Washington di occupare quella regione, nessuna lotta sociale e nessuna democrazia diventerà più semplice, anzi. A guadagnarci sono solo le multinazionali”.
(Citazione da : Où en est la Yougoslavie:
La prova più recente è l’occupazione dell’Iraq. Ha risolto uno solo dei problemi del Paese che, anzi, ha drammaticamente aggravato? Speriamo di non sentire più questa litania smobilitante del “né, né”.

Il contro-esempio del Venezuela

Possiamo ancora accordare un briciolo di credito alla “guerra per la democrazia”? Per vederci chiaro, esaminiamo il caso del Venezuela. Lì c’è un presidente, Hugo Chavez, che ha vinto le elezioni nove volte in sei anni. Che fa Bush? Versa diverse decine di milioni di dollari alla CIA (secondo gli stessi documenti statunitensi) per destituire un presidente eletto democraticamente. Con ogni mezzo possibile. 2002:
tentativo di colpo di stato, fallito. 2003: sabotaggio dell’industria petrolifera, fallito. 2004: campagna propagandistica con un budget enorme per tentare di escluderlo attraverso un referendum, fallimento.
Furioso, Bush muore dalla voglia di invadere il Venezuela. Sotto qualsiasi pretesto. Per esempio, “scoprendo” che lì ci sono dei terroristi o decretando che la vicina Colombia è “minacciata”. Ma non può farlo, perché è impelagato in Iraq. Non c’è modo di condurre contemporaneamente due grosse guerre. Di fatto, la resistenza del popolo iracheno salva gli altri Paesi minacciati.

Bush non rimprovera a Chavez l’assenza di democrazia (bisognerebbe andare in Venezuela per valutare fino a che punto la gente del popolo si mobilita per i problemi della vita e del futuro). No, Bush rimprovera a Chavez il fatto che i proventi del petrolio del Venezuela sono “sottratti” per finanziare dei progetti di alfabetizzazione, di
lotta contro la miseria e di cure mediche per i cittadini, anziché essere utilizzati, come avviene altrove, per arricchire la Esso o la Shell. Abbasso Chavez, allora, il ribelle, il “populista”, che dà il cattivo esempio facendo credere che il petrolio appartiene al popolo!
L’esempio del Venezuela prova, se ce ne fosse bisogno, che le guerre degli USA non hanno per obiettivo la libertà o la democrazia, ma solo l’oro nero e il dominio sul mondo. Supponiamo che domani i dirigenti di Teheran si sottometano ala volontà della Esso e della Shell, come fanno i regimi “amici” del Kuwait o degli Emirati. Sentiremmo ancora tutte queste campagne di critica sugli armamenti o sulla concezione della donna?

Dividere attraverso la religione?

In breve, da qualsiasi parte si guardi, nessuno degli argomenti dell’attuale propaganda di guerra – nucleare, terrorismo, dittatura – resiste a un’analisi obiettiva. È per questo che la propaganda si rivolge soprattutto all’inconscio…
Quando si parla di “terrorismo islamico”, si manipola l’opinione pubblica. Si fa crede alla gente che una particolare religione è pericolosa. Anche se a parole, ovviamente, si afferma solennemente che i musulmani sono brava gente, etc. ma l’espressione stessa che lega il terrorismo a una religione è una trappola.
Immaginiamo. Considerato che gli atti di aggressione commessi da Bush e Blair violano sistematicamente il diritto internazionale che possono, giuridicamente, essere qualificati come terrore di Stato, che diremmo che la stampa dei Paesi musulmani venisse a parlarci di “terrorismo cristiano”? Risponderemmo, ovviamente, che la maggior parte dei cristiani nel mondo condanna Bush e che la spiegazione, quindi, è altrove.
In effetti, la guerra globale non è una guerra di religione, ma una guerra economica. Sono Bush e Blair che hanno interesse a dividere i loro oppositori demonizzando una religione. Se il terrorismo è “islamico”, allora ogni musulmano diventa un potenziale sospetto, in aereo, in metro o nella moschea. Non c’è molto da aggiungere. Secoli di disprezzo coloniale, decenni di discussioni sugli arabi che vengono a rubarci il lavoro (quando siamo noi che li abbiamo privati delle loro ricchezze), tutto questo costituisce una rampa di lancio per la demonizzazione dei musulmani. Proprio come erano stati demonizzati gli ebrei negli anni ’30.
L’argomento della “religione pericolosa” serve a dividere i popoli del mondo, ad attirare l’attenzione su fenomeni particolari per nascondere la natura generale della guerra globale. Ma il Venezuela, un paese cristiano, è un altro bersaglio di Bush. Allora?

La guerra contro l’Iran è già iniziata

Domani Bush e Blair “scopriranno”, forse, delle prove del coinvolgimento di Teheran negli attentati. E vorranno agire con delle “rappresaglie”.
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Sarà la campagna psicologica sull’opinione publica secondo le regole classiche della propaganda della guerra. In realtà, la guerra contro l’Iran è già iniziata, come mostra l’ex ufficiale statunitense Scott Ritter, diventato analista militare:
“Il 16 ottobre 2002, il presidente Bush dichiarava al popolo americano: “Non ho ordinato l’uso della forza contro l’Iraq. Spero che non sia necessario”. Oggi sappiamo che era una bugia. Infatti, alla fine dell’agosto 2002, il presidente aveva firmato un ordine che autorizzava i militari americani a cominciare le operazioni militari attive in Iraq. Nel settembre 2002, l’US Air Force, con il supporto della British Royal Air Force, cominciava a bombardare degli obiettivi
all’interno dell’Iraq per indebolire le capacità di difesa anti-aerea e di comando. Nella primavera 2002, il presidente Bush aveva firmato un ordine segreto che autorizzava la CIA e le forze speciali a impiegare unità clandestine in Iraq”.
Sarà lo stesso ora per l’Iran. Ritter sostiene di sì: “Nel momento in cui noi parliamo, aerei americani sorvolano l’Iran, con aerei privi di piloti e altre attrezzature molto sofisticate. Violare lo spazio aereo è già un atto di guerra. Al nord, nel vicino Azerbaijan, l’esercito statunitense prepara la base operativa per una presenza militare massiccia che preannuncia una campagna terreste mirata a impadronirsi di Teheran. L’aviazione statunitense, operando dalle basi in Azerbaijan, a accorciato di molto le distanze da percorrere per
colpire degli obiettivi a Teheran. Infatti, una volta iniziate le ostilità, sarà in grado di mantenere una presenza pressoché costante, 24 ore su 24, nello spazio aereo iraniano” (Pubblicato sul sito di Al-Jazeera).
Strategicamente, l’Iran si trova attualmente accerchiato da basi militari statunitensi disposte su tre fronti: 1 Afghanistan, 2 Iraq, 3 Azerbaijan. Est, Ovest, Nord. Interessante: l’installazione in Azerbaijan è iniziata da molto tempo. Nel 2000, all’indomani della guerra contro la Jugoslavia, scrivevamo: “Un vice segretario agli
affari esteri statunitense si occupa solo del Caucaso. Una visita solenne di Javier Solana dimostra che la NATO è molto interessata a questa regione strategica. La NATO si estende in Caucaso per cacciarne la Russia. La principale testa di ponte statunitense in Caucaso, è l’Azerbaijan. Washington non può installarsi militarmente in modo troppo evidente (ma) affida alla Turchia il compito di formare
l’esercito dellAzerbaijan” (Michel
Collon, Monopoly, p. 114-116
.
Cinque anni dopo, vediamo che le basi militari statunitensi si sono installate e che l’Azerbaijan è stato trasformato in una specie di Israele del Caucaso, per mirare alla Russa ma forse ancora di più all’Iran. Gli strateghi americani calcolano a lungo termine e preparano in anticipo i loro colpi.

Le guerre iniziato sempre prima della data ufficiale

Ritter ha ragione: una guerra di Washington comincia molto prima della sua dichiarazione ufficiale. Bisogna analizzare, al di là dei discorsi ufficiali e mediatici, gli antecedenti e i retroscena delle ultime guerre.
Primo esempio. Ufficialmente, la prima guerra contro l’Iraq comincia nell’agosto del ’90 quando Saddam Hussein occupa il Kuwait. In realtà, un anno prima, il Congresso aveva decretato un embargo (un atto di guerra che non rivela il proprio nome) contro l’Iraq. La decisione di guerra scaturì da un discorso di saddam che chiamava i Paesi del Golfo a unirsi per essere più indipendenti dagli USA. Si rischiava di lasciarsi sfuggire Medio-Oriente. Il seguito non fu altro che una preparazione militare e mediatica.
Secondo esempio. Ufficialmente, gli Stati Uniti e la NATO si impegnano contro i Serbi nel 1995, dopo aver aspettato quattro anni dall’inizio dei combattimenti locali. In realtà, fin dal 1979, la Germania manda i proprio agenti segreti per far esplodere la Jugoslavia e controllare i Balcani. Quanto agli USA, adottano sanzioni contro la Jugoslavia già dal 1990!
Terzo esempio. Ufficialmente, Bush decide di attaccare l’Afghanistan dopo l’11 settembre 2001. In realtà, già un anno prima, gli strateghi del Pentagono sottolineavano la necessità di “cambiare regime” a Kabul, perché i Talebani rifiutavano di firmare l’accordo per un oleodotto statunitense verso l’Asia del sud.
Anche la guerra contro l’Iran è iniziata ben prima del giorno in cui ci verrà annunciata.

I media aiutano Bush?

Ogni guerra è collegata a una guerra dell’informazione, che ha un ruolo decisivo. Si tratta di portare, con ogni mezzo, i cittadini a sostenere la politica dei governanti. Uno dei metodi consiste nel trattare le vittime in modo diverso.
Per i grandi media, i morti non hanno tutti lo stesso peso.
L’impiegato londinese colpito da una bomba mentre andata al lavoro pesa mille volte di più del panettiere di Bagdad ucciso da un missile americano mentre cuoceva il pane.
Lo scorso 1 luglio, un bombardiere B-52 lanciava dei missili teleguidati su un blocco di case nella provincia di Kunar in Afghanistan, uccidendo almeno 17 persone, soprattutto donne e bambini.
Quale uomo politico europeo ha protestato contro questa barbarie?
Quale media ha dato alla sofferenza degli afgani lo stesso valore che ha dato a quella dei londinesi?
È una legge giornalistica inevitabile, vi risponderanno. La famosa “legge del morto chilometro”. Ci si aspetta che vi interessiate di più a qualcuno che è morto nella vostra strada che a dieci che sono morti nella città vicini o a mille che sono morti in un altro continente. Ma ciò che si dimentica di dire, è che molto dipende dal valore attribuito a questo morti dai media che li presentano. Se vi mostrano un’immagine toccante della vittima, se un caro descrive in modo concreto la sa vita e la sua morte, se la sofferenza della famiglia è davvero tenuta in conto, allora una vittima lontana può diventare vicina. Un esempio.
Quando i media occidentali hanno deciso, ne 1991, che dovevano farci piangere per e “vittime di Saddam”, ci hanno propinato insistentemente i pianti della giovane infermiera del Kuwait che raccontava come i soldati iracheni avessero rubato centinaia di incubatrici a Kuwait City, uccidendo così dei neonati, e noi avevamo pianto. Benché fosse lontano.
Ma dopo abbiamo saputo che la ragazza non era un’infermiera, che non era mai stata alla maternità e che mentiva secondo una messa in scena hollywoodiana, perché quelle incubatrici non erano mai state rubate.
Questa bugia mediatica a avuto un impatto enorme, permettendo a Bush padre di fare approvare la sua guerra dall’opinione pubblica internazionale. Ciò dimostra che ciò che conta non è il numero dei kilometri. Ma la decisione mediatica di considerare importanti certe
vittime a dispetto di altre.

Nei periodi di guerra, calda o fredda, i nostri “amici” morti pesano mille volte di più dei nostri nemici, quelli che resistono alle nostre multinazionali. Questo “due pesi e due misure” est in realtà la conseguenza di una visione “etnocentrica”, che fa dell’Europa e degli USA il centro del monto, incaricato di portare la democrazia e al civiltà nel reso del mondo, arretrato e obbligato a mettersi al passo.
Questo schema dissimula il colonialismo e il nostro dominio imperiale sul mondo.
Non svilupperemo ulteriormente il tema, certo importante, del ruolo guerriero dei media. Rimandiamo al testo sui principi della propaganda di guerra: Le droit à l’information, un combat (Il diritto all’informazione, un combattimento)

Non c’è fatalità. È un dato di fatto. Non siamo riusciti a impedire né la guerra contro l’Iraq né quella contro la Jugoslavia né quella contro l’Afghanistan, per non parlare della Palestina o del Congo.
Siamo, in quando movimento pacifista, condannati a perdere sempre?
No, non c’è fatalità. Nel 2003, le manifestazioni contro la guerra, organizzate in tutto il mondo, hanno riunito più gente di quanto non fosse mai successo. E in ogni Paese in cui andiamo, constatiamo che Bush preoccupa sempre di più, che l’ipocrisia dei pretesti di smaschera sempre più, che la rabbia cresce. Ne abbiamo abbastanza
delle guerre!
Certo, ognuno si chiede: a chi gioveranno gli attentati di Londra? E quelli che rischiano di aver luogo a Roma, a Copenaghen o ad Amsterdam? E a Bruxelles, se permettiamo che la NATO si lasci coinvolgere da una complicità maggiore con Bush in Iraq.
A chi gioveranno questi attentati? A Bush e a Blair che ne
approfitteranno per rinforzare i ranghi e per intraprendere nuove guerre all’infinito? O alle forze di pace che potranno dimostrare che ci sono stati morti a sufficienza, a Londra come a Bagdad, e che l’occupazione per il petrolio deve concludersi perché il terrore genera terrore e senza giustizia il mondo non sarà mai in pace.

Qui si dimostrerà i più forte? I loro media o i nostri?
L’aggressività di Bush e Blair non deve ingannare: è un segno di debolezza. La loro unica possibilità di continuare la guerra è quella di dividere i popoli. La loro “forza” si basa sull’informazione mutilata, sulle bugie medianiche di demonizzazione, sulla dissimulazione degli interessi economici, ed è quindi una loro debolezza se ci lanciamo tutti nella battaglia della contro-informazione. La creazione di un’informazione alternativa attraverso Internet, attraverso il lavoro di discussione, paziente, concreto, argomentato, ecco, se lo applichiamo su larga scala, l’antidoto contro la propaganda di guerra. A noi spetta il compito di
costruire la propaganda per la pace!
Questa contro informazione è indispensabile per salvare delle vite umane. Perché i morti di Londra sono le vittime delle guerre perpetrate nel loro nome. E del fatto che le popolazioni occidentali non hanno ancora compreso del tutto la natura criminale di questa occupazione-saccheggio dell’Iraq. Il giorno in cui la presa di coscienza sarà più forte, la consapevolezza metterà fine a questa guerra come mise fine a quella del Vietnam.
Sono troppo forti? Tre esempi recenti mostrano che non lo sono.
1. Aznar ha tentato di imbrogliare durante le elezioni spagnole del 2004 demonizzando l’ETA per gli attentati di Madrid. Ed è stato sconfitto dall’informazione di base: Internet e gli SMS.
2. In occasione del colpo di stato anti-Chavez del 2002, i media pro-USA, quasi monopolistici, hanno sostenuto i golpisti, nascondendo al Paese la resistenza del popolo di Caracas. Ma l’informazione ha circolato comunque anche grazie a Internet, agli SMS, e ai
motociclisti che andavano di quartiere in quartiere.
3. Tutti i media francesi hanno appoggiato il “sì” al referendum sulla costituzione, violando i principi della deontologia giornalistica.
Sono stati battuti da Internet e dalla mobilizzazione di base proprio su Internet.
Questi esempi recenti dimostrano che i media del sistema non sono invincibili e che l’informazione del popolo può rivelarsi più forte.
In questo senso, il movimento belga Stop USA, del quale faccio parte a Bruxelles, ha lanciato delle petizioni indirizzate al primo ministro belga. Con un notevole progetto di Matiz sull’occupazione dell’Iraq.
Il suo testo: ” Disapprovo le guerre di Bush, per il petrolio o per dominare il mondo. E rifiuto di esserne complice. Con il silenzio o la partecipazione, seppure indiretta, del Belgio”.
Facendole firmare dappertutto, coi gruppi di base di Stop USA, notiamo un’ottima accoglienza. Ma anche che la gente è ancora scarsamente informata. Pochi sanno che il Belgio mette a disposizione di Bush il porto di Anversa per il transito delle armi verso l’Iraq, pochi sanno che armi nucleari statunitensi stazionano clandestinamente sul nostro territorio e che l’invio delle nostre truppe in Afghanistan serve a liberare forze americane perché possano aggredire l’Iraq.
Ma quando li informiamo, constatiamo una volontà generale di
diventare più attivi contro le guerre di Bush. Da cui la nostra
responsabilità. Qui, in Europa, bisogna assolutamente aumentare la pressione per isolare Bush e Blair.
Il popolo spagnolo è stato capace di imporre il ritiro delle truppe.
Bisogna andare oltre, con l’informazione, le discussioni e le
petizioni. Affinché nessun governo europeo possa più aiutare la guerra in Iraq, nemmeno in modo indiretto e limitato! Una campagna “Non voglio essere complice” dovrebbe essere organizzata su scala europea.
Se noi tutti ci impegniamo, allora la morte di Jack, di Robert o di Hassan non sarà stata vana.

Michel Collon
www.michelcollon.info/

Bruxelles, 11 luglio 2005
Tratto da:Fonte:www.peacelink.it
Tradotto da Chiara Manfrinato per www.peacelink.it

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