DI FEDERICO DEZZANI
federicodezzani.altervista.org
Il 2016 si preannuncia un anno movimentato: la tensione internazionale, in progressivo aumento sin dal 2011, difficilmente decrescerà ma, al contrario, toccherà lo zenit in coincidenza con l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca che, imprimendo una svolta militare alla situazione mediorientale, incendierà probabilmente le polveri. L’elaborazione di qualche carta è utile a comprendere la strategia di fondo delle oligarchie euro-atlantiche che, abbandonati i sogni di egemonia globale di inizio millennio, hanno ripiegato sino all’attuale ipotesi di un conflitto militare per impedire che il vuoto lasciato dietro di sé sia colmato da Russia e Cina.
Per comprendere la realtà, afferrarne le dinamiche sottostanti ed ipotizzarne gli sviluppi, bisogna sempre partire dagli obbiettivi di fondo di chi occupa la stanza dei bottoni: solo così si può evitare di interpretare i fatti secondo i propri parametri e scadere in analisi autoreferenziali. La corretta comprensione degli attuali avvenimenti necessita quindi dell’interrogativo: qual è l‘obbiettivo strategico delle oligarchie euro-atlantiche? La risposta, può sembrare sproposita, ma non lo è, è il dominio globale, una meta quasi raggiunta nel periodo che intercorre tra il collasso dell’URSS (1991) e la bancarotta di Lehman Brothers (2008).
L’ambiziosa piano di controllare l’intero globo terracqueo si basava su tre cardini: l’inglobamento delle nazioni europee nell’Unione Europea che, in prospettiva, avrebbe dovuto evolversi negli Stati Uniti d’Europa, l’annichilimento della Russia e la sua successiva cooptazione come potenza di secondo rango nella UE/NATO, l’asservimento della Cina al sistema finanziario anglofono ed il suo accerchiamento per terra e per mare, così da neutralizzare le sue capacità di proiettarsi all’estero.
Nel dicembre del 1991 l’Unione Sovietica scompare ufficialmente dalla storia; nel febbraio del 1992 è firmato il trattato di Maastrich che pone le basi della moneta unica e del futuro allargamento dell’Unione Europea; sempre nel 1992, il 14esimo congresso del Partito Comunista Cinese abbraccia ufficialmente “l’economica socialista di mercato”, facendo di Pechino la “fabbrica del mondo”, che produce le merci consumate dagli Stati Uniti e ne finanzia anche l’acquisto, comprando porzioni crescenti del debito pubblico americano.
Nel 1995 c’è il primo allargamento dell’Unione Europea (Austria, Finlandia e Svezia) che spinge i propri confini a ridosso della Russia. Mosca è allora in pessima acque: nel 1998, il cocktail micidiale di privatizzazione selvagge ed ingerenze del FMI, portano il Paese alla bancarotta: nel frattempo, con la prima (1994-1996) e la seconda (1999-2009) guerra cecena, angloamericani e sauditi cercano di espellere i russi dal Caucaso, la storica “porta d’ingresso” da cui Mosca entra nel Medio Oriente. Si procede altresì allo smembramento della Jugoslavia (guerre balcaniche del 1991-1999), così da eliminare uno storico bastione filo-russo nel sud-est europeo. Lo scopo ultimo non è tanto lo smembramento della Russia, entità pluri-nazionale per definizione, quanto la sua riduzione a potenza di secondo ordine, da fagocitare nella UE/NATO. Tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni del 2000, l’ingresso di Mosca nel blocco atlantico è uno scenario concreto, tanto che Silvio Berlusconi insiste nel 2003 per il suo ingresso nell’Unione Europea1 e le ultime voci di una possibile partecipazione all’Alleanza Nord Atlantica si spengono solo nel 20102.
Nel dicembre del 2001 la Cina, con il suo enorme bacino di lavoratori a basso costo, è ufficialmente ammessa al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio: così facendo le oligarchie anglofone consentono a Pechino di diventare la “fabbrica del mondo”, garantendo il rapido arricchimento degli industriali cinesi e lauti profitti per le imprese che trasferiscono lì i loro siti produttivi. In cambio, però, la City e Wall Street pretendono “l’apertura del sistema finanziario” dell’Impero d Centro, ossia la possibilità di estendere anche alla Repubblica Popolare cinese, come nel resto dell’Occidente, il controllo del vitale sistema bancario, strumento principe sin dall’Ottocento con cui le oligarchie anglofone tirano i fili di nazioni e popoli. “U.S., EU, Japan press China on financial services at WTO”3 si legge ancora nel 2011 sull’agenzia Reuters, ricordando come la contropartita per il libero acceso ai ricchi mercati occidentali, fosse la possibilità da parte della finanza anglofona di installarsi stabilmente in Cina.
Dulcis in fundo, sempre negli ultimi mesi del 2001, scatta l’operazione Enduring Freedom, utile agli angloamericani ad installarsi nello strategica regione dell’Afghanistan, già teatro del Grande Gioco tra impero britannico ed impero russo durante il XIX secolo: in verità Kabul è solo la prima tappa di un più ampio disegno egemonico, perché, come viene riferito ad uno sconcertato generale Wesley Clarck, appena dopo l’Undici settembre, l’intenzione è di “take out seven countries in five years, starting with Iraq, and then Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan and, finishing off, Iran”4. Per concludere l’amministrazione di George W. Bush si adopera per attrarre l’India in orbita statunitense, elevandola ad “alleato strategico”, ovviamente in chiave anti-cinese5.
A questo punto abbiamo informazioni a sufficienza per disegnare la prima carta, quella del “piano A”.
Come è ben visibile, il piano “A”, se completamente realizzato, avrebbe garantito alle oligarchie anglofone l’egemonia globale, assicurando loro una fetta del PIL mondiale superiore al 50%, il pieno possesso delle riserve petrolifere mediorientali, una proiezione sull’intero continente euro-asiatico, un’influenza decisiva sulla Cina attraverso il sistema bancario, l’egemonia del Mar Mediterraneo (ridotto a “lago della NATO”) e degli oceani.
Il piano “A” va in fumo per i seguenti motivi:
- l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq si trasforma rapidamente in un pantano, che impedisce gli strategici cambi di regime manu militari in Iran e Siria. Inoltre l’eliminazione di Saddam Hussein, dittatore sunnita di un paese a maggioranza sciita, unita al parallelo mancato intervento in Iran, aumenta esponenzialmente l’influenza regionale di Teheran;
- i rapporti tra le oligarchie anglofone e Vladimir Putin si raffreddano progressivamente ed entrano in crisi già con la guerra in Ossezia (agosto 2008), rimandando sine die l’ingresso della Russia nella UE/NATO;
- la Cina si guarda bene dall’aprire il proprio sistema finanziario alla City ed a Wall Street;
- il capitalismo anglosassone imbocca la via del tramonto con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, palesando che gli angloamericani non hanno più “i dané” per reggere l’impero.
Il primo piano per il dominio globale è quindi archiviato e si passa al successivo.