URBANIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE

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DI CARLO BORDONI
Social Europe

Il fenomeno a cui stiamo assistendo da un po’ di tempo assomiglia sempre più a una rivoluzione industriale invertita. Vaste masse di migranti convergono sulla città, nelle costellazioni di anonimi centri commerciali nelle periferie, tra le intersezioni delle principali vie di comunicazione (autostrade, ferrovie, aeroporti), ma anche nei centri storici degradati.

Provengono non solo dai paesi limitrofi o da quelli in via di sviluppo, ma anche all’interno dello stesso paese: lasciano la campagna, i villaggi e le piccole città dove non c’è lavoro per cercare rifugio nelle grandi città, con la speranza di trovare nuove opportunità per consentire loro un nuovo inizio. Donald Kaberuka, presidente della Banca Africana per lo Sviluppo, nel suo articolo sul Social Europe Journal ha stimato che entro il 2030 oltre 27 miliardi di persone saranno emigrate dal loro paese di origine per stabilirsi altrove, contribuendo ad alimentare le differenze sociali all’interno dello stesso paese.Nelle città è più facile trovare cibo, sostentamento, un qualche alloggio di fortuna, e un minimo di solidarietà che nasce ovviamente tra coloro che condividono la stessa sorte. Due flussi migratori provenienti dall’interno e dall’esterno, due contesti diversi che si stabiliscono negli stessi luoghi e con le stesse comuni motivazioni di base: cambiare per poter sopravvivere. Spinti dal desiderio di soddisfazione di un bisogno, dalla speranza di miglioramento, come risultato del loro trasferimento volontario entrambi diventano poi emarginati sociali. Le persone che, nella propria comunità, avevano una identità, un’esistenza dignitosa anche se povera, e venivano riconosciute e rispettate, si trovano improvvisamente spogliate della loro umanità, rese anonime e viste con sospetto, diffidenza, e, nella migliore delle ipotesi, con compassione. L’emarginazione è il prezzo da pagare per una scelta che è diventata necessaria.

In contrasto con l’urbanizzazione della rivoluzione industriale del XVIII secolo, la migrazione verso le grandi città di oggi non è una scelta fatta dalla necessità di trovare lavoro, ma per disperazione. I centri industriali una volta erano sempre in cerca di forza lavoro: ora non è più così, o, se ci sono offerte, sono soprattutto per i lavoratori altamente qualificati. Quelli che arrivano senza risorse finanziarie e competenze spendibili sul mercato devono adattarsi ad uno stato di svantaggio di povertà. Le città ora assumono la funzione di rifugi che offrono beni di prima necessità a coloro che non hanno più nulla da perdere, una possibilità di vita nel deserto creato dalla globalizzazione, dalla crisi economica, dai profondi cambiamenti che sconvolgono l’ordine sociale e che aumentano le differenze, aprendo voragini di disuguaglianza che non hanno precedenti nella storia umana.

L’allarme viene principalmente dall’Africa e dall’Asia: Kaberuka sottolinea ancora che i centri abitati come Mumbai, Nairobi e Kinshasa sono in realtà piccole cittadine circondate da vaste baraccopoli, “sacche di ricchezza in un mare di disperazione”, dove cui un numero crescente di persone si accumula in cerca di speranza. Questa tendenza non è limitata solo alle città analizzate da Kaberuka, ma riguarda da vicino le metropoli di tutto il mondo, senza risparmiare New York, Tokyo, Londra, Parigi o Roma, e senza alcuna distinzione tra migrazione interna ed esterna.

Non c’è integrazione perché non c’è lavoro. I reietti della società industrializzata venivano tollerati perché rappresentavano una riserva di manodopera pronta da utilizzare quando ce n’era bisogno. Ora, nella società post-industriale, non c’è più la necessità di una forza lavoro di riserva, semmai il problema è come sbarazzarsi dell’eccesso di lavoratori e di sostituirli con le macchine a controllo numerico che stanno diventando sempre più sofisticate. La globalizzazione è un processo di desertificazione che brucia il terreno su cui passa, e che cancella tutte le tracce antropologiche. Per ora, e fintanto che vi saranno differenze di potenziale tra le nazioni non ancora globalizzate, le multinazionali continueranno a trasferirsi e muoversi altrove in cerca di benefici fiscali, di controlli moderati e costi inferiori.

Ma quando il pianeta sarà interamente livellato, ci sarà un’inversione, e qualcosa di simile sta già avvenendo negli Stati Uniti. François Lenglet di questo è certo (La Fin de la Mondialisation, Fayard, 2013): il fenomeno è ancora sporadico e limitato, ma è un segnale di svolta. Ciò, tuttavia, non significa che la globalizzazione è finita o che non ha avuto successo, ma semplicemente che sta completando il suo compito. Un pianeta uniforme e perfettamente indifferenziato, dove può essere conseguito l’obiettivo della parità, almeno da un certo punto di vista.

Le città, dunque, rappresentano l’ultima resistenza all’uniformità, una sorta di “Fort Apache” dove la gente lotta per non soccombere, un luogo sicuro in cui ci sono ancora garanzie per le differenze, dove si coltivano le tradizioni, dove è stata trasferita l’idea di comunità, con tutte le difficoltà che questa mossa comporta, e dove a tutte queste diversità è ammesso di coesistere, concentrate in uno spazio molto limitato, con rispetto reciproco.

Le loro mura sono di pietra, non hanno porte o ponti levatoi, ma cinture multicolori di rifugiati, migranti e persone emarginate che le circondano in cerchie sempre più ampie, per trasformarle in megalopoli costruite sulla miseria, la disperazione e il comfort. Questo sarà il volto delle grandi città di domani: luoghi in cui si ferma l’umanità ferita, in attesa di tornare su un percorso di speranza.

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CARLO BORDONI

Social Europe

Link: Urbanisation and Globalisation

21.03.2014

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