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TRE SEMPLICI IDEE PER METTERE FINE AL SOSTEGNO POLITICO AI CRIMINI ISRAELIANI

A cura di
Il 17 Gennaio 2009
46 Views

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DI JEAN BRICMONT
Réseau Voltaire

Una strategia della società civile contro l’apartheid e la guerra

Mentre Israele prosegue i suoi bombardamenti contro la popolazione palestinese e i paramilitari del generale Mohamed Dahlan aspettano alla frontiera egiziana l’ordine di entrare a Gaza per massacrare le famiglie di Hamas, l’opinione pubblica europea si sente impotente ad agire. Malgrado la loro grandezza, le manifestazioni si susseguono senza effetti sui responsabili politici.
Il professor Jean Bricmont propone una strategia semplice per cambiare i rapporti di forza in Europa e, in conclusione, per mettere fine al sostegno di cui dispone il regime di apartheid israeliano.

Siamo senz’altro milioni ad assistere, pieni di rabbia e impotenti, alla distruzione di Gaza, sommersi dal discorso mediatico sulla “risposta al terrorismo” e il “diritto di Israele a difendersi”. Ma, come fa notare Robert Fisk, le persone che lanciano razzi al Sud di Israele spesso non sono che i discendenti degli abitanti di quella regione da dove sono stati cacciati nel 1948 [1]. Fintanto che questa realtà fondamentale non sarà stata riconosciuta e questa ingiustizia riparata, non sarà stato detto o fatto nulla di serio in favore della pace.

Ma che fare? Organizzare ancora nuovi dialoghi tra ebrei progressisti e musulmani moderati? Aspettare una nuova iniziativa di pace? Oppure nuove dichiarazioni di Ministri dell’Unione Europea?

Tutte queste commedie non sono durate abbastanza? Coloro che vogliono fare qualcosa si attaccano troppo spesso ad esigenze poco realistiche: invocare la creazione di un tribunale internazionale per giudicare i criminali di guerra israeliani o chiedere un efficace intervento dell’ONU o dell’Unione Europea. Tutti sanno bene che nulla di ciò verrà fatto perché i tribunali internazionali, per fare un esempio, non fanno che riflettere i rapporti di forza nel mondo che sono al momento a favore di Israele. Sono questi rapporti di forza che devono cambiare e ciò non può avvenire che a poco a poco. E’ vero che c’è una “urgenza” a Gaza, ma è anche vero che nulla può essere fatto adesso proprio perché il paziente lavoro che avrebbe dovuto essere stato fatto in passato non è stato svolto.

Delle considerazioni fatte qui sopra, due si pongono sul piano ideologico e una sul piano pratico.

1. Disfarsi dell’illusione secondo la quale Israele è “utile”

Molte persone, soprattutto a sinistra, continuano a pensare che Israele sia solo una pedina nella strategia statunitense, capitalista o imperialista, per il controllo del Medio Oriente. Nulla di più falso. Israele non serve praticamente a nessuno, salvo ai propri fantasmi di potere. Non c’è petrolio in Israele o in Libano. Le cosiddette guerre per il petrolio, del 1991 e del 2003, sono state fatte dagli Stati Uniti senza alcun aiuto israeliano e, nel 1991, con l’esplicita richiesta degli Stati Uniti di non intervento israeliano, che avrebbe fatto crollare la loro coalizione araba. Come “alleato strategico” si può trovare di meglio. Non c’è alcun dubbio che le petro-monarchie filo-occidentali e i regimi arabi “moderati” sono disperati nel vedere Israele occupare senza sosta le terre palestinesi e radicalizzare così buona parte delle loro popolazioni. E’ Israele che, grazie alle sue politiche assurde, ha provocato nel contempo la nascita di Hezbollah e di Hamas e che è indirettamente responsabile di gran parte della crescita dell'”islamismo radicale”.

Bisogna anche capire che i capitalisti, presi nel loro insieme (non ci sono solo i mercanti di armi …), guadagnano molto di più in pace che in guerra: basta vedere le fortune realizzate dai capitalisti occidentali in Cina e in Vietnam da quando vi è pace con questi paesi, in confronto all’epoca di Mao e della guerra del Vietnam. Ai capitalisti importa ben poco sapere di quale “popolo” Gerusalemme sia la “capitale eterna” e, se vi fosse la pace, si precipiterebbero in Cisgiordania e a Gaza per sfruttare una mano d’opera qualificata e senza altri mezzi di sostentamento.

In definitiva, qualunque statunitense preoccupato dell’influenza del proprio paese nel mondo vede bene che alienarsi un miliardo di musulmani per soddisfare i capricci d’Israele non è propriamente un investimento razionale per il futuro [2].

Spesso sono coloro che si considerano marxisti a non voler vedere nel sostegno ad Israele niente altro che una semplice emanazione di fenomeni più generali come il capitalismo o l’imperialismo (Marx stesso era molto più sfumato riguardo la questione del riduzionismo economico). Ma non è rendere un buon servizio al popolo palestinese mantenere tali posizioni – in effetti, il sistema capitalistico, che ci piaccia o no, è un sistema troppo robusto per dipendere in maniera significativa dall’occupazione della Cisgiordania; d’altronde questo sistema sta d’incanto in Sudafrica dopo lo smantellamento dell’apartheid.

2. Liberare la parola non-ebrea sulla Palestina

Se il sostegno a Israele non si manifesta principalmente attraverso interessi economici o strategici, perché questo silenzio e questa complicità? Si potrebbe provare indifferenza nei riguardi di quello che avviene “lontano da casa nostra”. Ciò potrebbe essere vero per la maggior parte della popolazione, ma non per l’ambiente intellettuale dominante che straripa di critiche verso il Venezuela, Cuba, il Sudan, l’Iran, Hezbollah, Hamas, la Siria, l’Islam, la Serbia, la Russia o la Cina. E in tutti questi campi anche le più rozze esagerazioni sono correnti e accettate.

Un’altra spiegazione della docilità verso Israele è il “senso di colpa” occidentale nei confronti delle persecuzioni antisemite del passato, in particolare verso gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Al riguardo, viene talvolta fatto notare che i Palestinesi non sono per nulla colpevoli di questi orrori e che non devono pagare per i crimini altrui. E’ vero, ma quello che non viene quasi mai detto e che è però evidente, è che la grande maggioranza dei Francesi, dei Tedeschi o dei preti cattolici di oggi sono anch’essi innocenti quanto i Palestinesi di quello che è accaduto durante la guerra, per il semplice motivo di essere nati dopo la guerra o di averla vissuta ancora bambini. Il concetto di colpa collettiva era già molto discutibile nel 1945, ma l’idea di trasmettere questa colpa ai discendenti è un’idea quasi religiosa.

Ciò che è curioso, d’altra parte, è che al momento in cui la Chiesa cattolica ha abbandonato l’idea del popolo deicida, cominci ad imporsi quella di una responsabilità quasi universale di fronte al giudeicidio. Ma questa “colpa” giustifica un’enorme ipocrisia. Si ritiene che ci si senta tutti colpevoli dei crimini del passato, verso i quali, per definizione, non potevamo fare nulla, ma quasi per niente colpevoli dei crimini dei nostri alleati statunitensi e israeliani che si compiono al giorno d’oggi, davanti ai nostri occhi, e dai quali come minimo ci si potrebbe dissociare con chiarezza. E, anche se viene affermato senza sosta che il ricordo dell’olocausto non giustifica la politica israeliana, è evidente che è tra le popolazioni maggiormente colpevolizzate da tale ricordo (i Tedeschi, i Francesi e i cattolici) che tale silenzio è più forte (contrariamente a neri, arabi e Britannici).

Quanto detto è una banalità, ma una banalità che non è facile a dirsi, perciò bisogna ripeterla fino a quando non sia riconosciuta come tale se si vuole che i non-ebrei possano esprimersi liberamente sulla Palestina. Forse il migliore slogan da innalzare nelle manifestazioni sulla Palestina non è “Siamo tutti Palestinesi” – slogan bene intenzionato ma che non riflette affatto le realtà della nostra situazione e della loro – ma piuttosto: “Non siamo colpevoli per l’olocausto”. In questo, condividiamo effettivamente qualcosa con i Palestinesi.

Ma la principale ragione del silenzio non può essere unicamente il senso di colpa, che è artificiale, ma la paura. Paura della maldicenza, della diffamazione, o di processi in cui l’unico capo d’imputazione è sempre lo stesso, l’antisemitismo. Se non siete convinti, prendiamo un giornalista, un uomo politico o un editore, chiudiamoci con lui in una stanza dove possa verificare che non ci sono telecamere nascoste né microfoni, e domandiamogli se dice pubblicamente tutto quello che pensa veramente d’Israele e, se non lo dice (a mio avviso, la risposta più probabile), perché tace? Perché ha paura di nuocere agli interessi dei capitalisti in Cisgiordania? Di indebolire l’imperialismo statunitense? O, ancora, di danneggiare le quotazioni o il flusso del petrolio? Oppure, al contrario, ha paura delle organizzazioni sioniste, delle loro persecuzioni e delle loro calunnie?

Mi sembra evidente, dopo dozzine di discussioni con persone d’origine non-ebrea, che la risposta giusta è l’ultima. Si tace quello che si pensa dello Stato che si definisce “Stato ebraico” per paura di essere trattati da antisemiti. Questo sentimento è ancora rafforzato dal fatto che la maggioranza delle persone scioccate dalla politica israeliana provano realmente orrore per quello che è successo durante la Seconda Guerra mondiale e sono davvero ostili all’antisemitismo. A causa di tutto ciò, quasi tutti hanno interiorizzato l’idea che il discorso su Israele e, ancor di più, sulle organizzazioni sioniste, costituisce un tabù da non infrangere, ed è questo che mantiene un clima di paura generalizzato. Si può d’altronde notare che in generale sono quelli che in privato danno “consigli d’amico” (stai attento, nessuna mescolanza, non esagerare, islamismo …, estrema destra … Dieudonné *, ecc.) ad essere i primi a dichiarare pubblicamente che non hanno paura di niente e che le pressioni non esistono. Evidentemente, perché riconoscere la paura sarebbe il mezzo migliore per cominciare a liberarsene.

Di conseguenza, la prima cosa da fare è combattere questa paura. Questo non è sempre capito dai militanti della causa palestinese perché, con la loro stessa azione, dimostrano che loro non hanno paura. Spesso si tratta di persone fedeli e che non brigano per posizioni di potere nella società. Tuttavia, essi dovrebbero immaginarsi al posto di coloro che occupano o aspirano ad occupare tali posizioni (e che, di conseguenza, sono in grado di influenzare le posizioni politiche) e che sono, proprio a causa delle loro ambizioni, vulnerabili all’intimidazione. Il solo modo di procedere è creare un clima di “disintimidazione”, sostenendo ogni uomo politico, ogni giornalista, ogni scrittore che osa scrivere una frase, una parola, una virgola, di critica ad Israele. Bisogna farlo a 360°, senza limitarsi a sostenere le persone che hanno una posizione “corretta” su altre questioni (secondo l’asse destra-sinistra), o che hanno posizioni “perfette” sul conflitto.

In conclusione, piuttosto che parlare di “sostegno” alla causa palestinese come fanno molte organizzazioni, sostegno che non otterrà mai, per quanto ciò sia deplorevole, l’adesione della maggioranza della popolazione dei nostri paesi, si dovrebbe presentare la questione palestinese dal punto di vista degli interessi ben compresi della Francia e dell’Europa. In effetti, non abbiamo alcuna ragione di alienarci il mondo arabo-musulmano o di vedere aumentare l’odio verso l’Occidente, ed è per noi catastrofico creare un conflitto di più con quella parte della popolazione “proveniente dall’immigrazione” che spesso simpatizza con i Palestinesi. Al riguardo, notiamo che non è stato predicando un indefettibile sostegno a Israele che i sionisti hanno avuto successo, ma piuttosto con un lento lavoro di identificazione tra la difesa dell’Occidente (in materia di approvvigionamento petrolifero o di lotta contro l’islamismo) e quella d’Israele (si può d’altronde rammaricarsi che molti discorsi di sinistra sull’utilità di Israele per il controllo del petrolio, così come i discorsi laici sull’Islam, rinforzano questa identificazione).

3. Riguardo alle iniziative pratiche, si riassumono in tre lettere: BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni)

L’esigenza di sanzioni è rilanciata dalla maggior parte delle organizzazioni pro-palestinesi [3], ma essendo questo tipo di misure una prerogativa degli Stati, tutti sanno che ciò non si farà a breve termine. Le misure di disinvestimento sono prese sia dalle organizzazioni che hanno denaro da investire (associazioni sindacali, chiese) ed è quindi una decisione che spetta ai loro membri, sia da imprese che collaborano strettamente con Israele e che non cambieranno la loro politica se non in seguito ad azioni di boicottaggio, il che ci porta alla discussione di questa forma di azione, che è rivolta non solo ai prodotti israeliani ma anche alle istituzioni culturali e accademiche di questo Stato [4].

Notiamo che questa tattica è stata utilizzata contro il Sudafrica e che le due situazioni sono molto simili: il regime dell’apartheid e Israele sono (o erano) dei pilastri del colonialismo europeo che accettano a malincuore (contrariamente alla maggior parte delle nostre opinioni pubbliche) il fatto che questa forma di dominazione sia superata. Le ideologie razziste sottostanti ai due progetti li rendono insopportabili alla maggioranza dell’umanità e creano odi e conflitti senza fine. Si potrebbe anche dire che Israele non è altro che il Sudafrica più la strumentalizzazione dell’olocausto.

Nel caso del boicottaggio culturale e accademico, viene talvolta obiettato che ci sarebbero vittime innocenti, bene intenzionate, che desiderano la pace, ecc. argomento d’altronde già utilizzato all’epoca dell’Africa del Sud (e lo stesso argomento potrebbe essere sollevato a proposito dei lavoratori delle imprese vittime del boicottaggio economico). Ma Israele stesso riconosce che ci sono vittime innocenti a Gaza, il che non gli impedisce affatto di ucciderle. Quanto a noi, non proponiamo di uccidere nessuno. L’azione di boicottaggio è perfettamente civile e non violenta; tuttavia, anche una tale azione può provocare danni collaterali, gli artisti e gli scienziati bene intenzionati che sarebbero vittime del boicottaggio.

Questo tipo di azione è paragonabile all’obiezione di coscienza all’epoca della leva obbligatoria o ad una azione di disobbedienza civile – Israele non rispetta alcuna risoluzione dell’ONU che lo riguardi, e i nostri governi, lungi dal prendere delle misure per farle applicare, non fanno altro che rinforzare i loro legami con Israele; abbiamo il diritto in quanto cittadini (la cui opinione, anche non udibile, è probabilmente maggioritaria e lo sarebbe senz’altro se potesse avere luogo un dibattito aperto) di dire NO.

La cosa importante nelle sanzioni, particolarmente a livello culturale, è precisamente il loro aspetto simbolico (e non esclusivamente economico). Ai nostri governi va detto: non accettiamo la vostra politica di collaborazione, e ad Israele che ha scelto di essere uno Stato al di fuori della legge internazionale.

Un argomento frequente contro il boicottaggio è che esso è respinto da Israeliani progressisti e da un certo numero di Palestinesi “moderati” (anche se è sostenuto dalla maggioranza della società civile palestinese). Ma, principalmente, la questione non è di sapere cosa vogliono loro, ma quale politica estera vogliamo noi per i nostri paesi. Il conflitto arabo-israeliano supera di molto l’ambito locale e acquista un senso mondiale: di più, coinvolge il problema fondamentale del rispetto del diritto internazionale. Noi, Occidentali, possiamo perfettamente volere unirci al resto del mondo che rifiuta la barbarie israeliana e già questa è una ragione sufficiente per incoraggiare il boicottaggio.

Jean Bricmont

Figura di spicco del movimento anti-imperialista, Jean Bricmont è professore di fisica teorica all’Università di Lovanio (Belgio). Ha pubblicato Imperialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort? (Editions Aden, 2005).

NOTE

[1] « Remettre dans son contexte le tir de représailles sur Najd (Sderot) », di Um Khalil, The International Solidarity Movement, 15 novembre 2006.

[2] Per una discussione più dettagliata delle vere ragioni dell’aiuto statunitense a Israele, si veda John J. Mearsheimer, Stephen M. Walt, La lobby israeliana e la politica estera degli USA, Asterios, 2007.

[3] « Cessons de tergiverser : il faut boycotter Israël, tout de suite ! », di Virginia Tilley ; « Aucun État n’a le droit d’exister comme État raciste », intervista a Omar Barghouti di Silvia Cattori, Réseau Voltaire, 6 settembre 2006, 6 dicembre 2007. [“Nessuno Stato ha il diritto di esistere come Stato razzista”, Comedonchisciotte.org, 22 gennaio 2008]

[4] Per una buona risposta alle principali obiezioni sollevate a proposito di questa tattica, si veda Naomi Klein, « Israel: Boycott, Divestment, Sanction », The Nation, 26 gennaio 2009 [la versione italiana si trova su http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=6835&lg=it]

* Nome d’arte di Dieudonné M’bala M’bala, attore e umorista francese.
Le sue prese di posizione politiche e le sue affermazioni sugli ebrei e la Shoah hanno provocato numerose reazioni, procedimenti giudiziari e condanne per antisemitismo (Wikipedia.)

Titolo originale: “Trois idées simples pour mettre fin au soutien politique aux crimes israéliens ”
Fonte: www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/article158980.html
11.01.2009

Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS

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