SOTTO L'OCCHIO MIOPE DELLE VIDEOCAMERE

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Monde Diplomatique

Nel Regno Unito, una persona può essere filmata dalle telecamere di videosorveglianza fino a trecento volte in un giorno. Celebrato dappertutto, spesso imitato, questo “modello” di lotta alla delinquenza si trova tuttavia in difficoltà. Secondo quanto confessano i suoi stessi promotori, sarebbe un “completo fallimento”.

Per migliorare in maniera significativa la sicurezza quotidiana, l’efficacia della videosorveglianza non ha più bisogno di essere dimostrata. “Esperienze straniere l’hanno abbondantemente provata, soprattuto nel Regno Unito”. E’ così che Michèle Alliot-Marie, ministra francese dell’interno, giustificava la sua intenzione di far passare le telecamere di sorveglianza nella pubblica via da poco più di ventimila a sessantamila [1].

Con più di quattro milioni di telecamere, il Regno Unito rappresenta il punto di riferimento obbligato per i responsabili politici pronti a saltare sul trampolino dell’insicurezza. Ma offre ugualmente un terreno d’inchiesta privilegiato per i ricercatori il cui lavoro si ostina a mostrare l’inefficacia della video sorveglianza nella lotta alla criminalità. Pubblicato nel febbraio 2005 dal Ministero dell’interno britannico (Home Office), “Assessing the impact of CCTV”, il più esaustivo rapporto dedicato a questo tema, assesta alla videosorveglianza un colpo mortale [2]. Secondo questo studio, la debolezza del dispositivo dipende da tre elementi: la sua messa a punto tecnologica, la dismisura dei suoi obiettivi e … il fattore umano.

Troppo fiduciose in questa nuova tecnologia e desiderose di approfittare delle generose sovvenzioni del governo, le municipalità hanno spesso elaborato i loro progetti di installazione con troppa fretta. Quando la disposizione delle telecamere non è affidata alle cure dei tecnici delle imprese fornitrici, essa si basa su statistiche della criminalità incomplete o troppo generalizzate; da ciò il posizionamento di molte telecamere in zone dove si rivelano pressoché inutili.

Alcune hanno il loro campo visivo ostruito dalle foglie degli alberi, o dall’arredo urbano; e, per una metà dei sistemi studiati, le immagini registrate di notte risultano inutilizzabili, sia perché troppo scure, sia al contrario perché le telecamere vengono abbagliate.

Al di là delle questioni tecniche, gli obiettivi della rete di sorveglianza sono al contempo mal definiti (“ridurre la criminalità”) e troppo ambiziosi, il che impedisce di riflettere sulle azioni specifiche che le telecamere dovrebbero prevenire. Il criminologo Jason Ditton commentava così l’inefficacia del dispositivo installato nel centro di Glagow: “Secondo me, c’è stata una tale pubblicità intorno alle telecamere, presentate come un rimedio-miracolo ancora prima di essere allacciate, che le probabilità di successo erano nulle.” [3] In effetti, ci si aspetta che la videosorveglianza metta fine a furti, svaligiamenti, violenze contro le persone, danni ai veicoli, vandalismo, traffico di stupefacenti, abbandono di rifiuti o disturbo dell’ordine pubblico. Ma questi crimini non sono commessi dalle stesse persone, né per gli stessi motivi, né nelle stesse circostanze, il che impedisce di adottare un’unica soluzione anche se presentata come “tutto in uno”.

Le telecamere, inoltre, hanno difficoltà ad adempiere alla loro missione dato che senza dubbio l’aspetto umano nei sistemi di videosorveglianza è quello più trascurato. Eppure è nelle sale di controllo che in realtà si gioca il loro funzionamento. Ora, non solo nelle sale di controllo il numero degli schermi non corrisponde a quello delle telecamere in azione [4], il che porta a dire che ad ogni istante le immagini della maggior parte delle telecamere non vengono visualizzate, ma è ugualmente illusorio credere che gli operatori possano sorvegliare correttamente più di uno schermo alla volta. Di conseguenza, la maggior parte dei delitti semplicemente sfugge alla loro vigilanza, come testimonia uno di loro: “Non vi posso dire quante cose ci sono sfuggite mentre non guardavamo sugli altri schermi. Effrazioni, furti di automobili, aggressioni sono avvenuti mentre si guardavano altre telecamere .. E’ veramente frustrante.” [5]

D’altra parte, gli operatori non sono professionisti nel mantenimento dell’ordine pubblico. Anche se il codice di condotta precisa che devono essere oggetto di attenzione particolare solamente le persone che manifestano un “atteggiamento sospetto”, questa identificazione resta la parte più carente nella formazione [degli operatori]. In queste condizioni, non è affatto sorprendente che la visione delle immagini venga fatta in larga misura sulla base di pregiudizi verso il carattere a priori criminale di certi atteggiamenti o di certe popolazioni. Uno dei rari studi sull’argomento rivela che l’86% degli individui sorvegliati ha meno di 30 anni, che il 93% sono di sesso maschile, e che i neri hanno il doppio delle probabilità dei bianchi di essere oggetto di un’attenzione particolare [6].

La mancanza di formazione degli operatori pesa anche sulle relazioni con la polizia, che spesso mette in dubbio la loro professionalità e l’esattezza dei loro racconti: a malapena un quarto delle sale di controllo esaminate dagli autori di “Assessing the impact of CCTV” intrattiene relazioni cordiali con le forze dell’ordine. Gli operatori si vedono a volte severamente rimproverati per l’utilizzo delle linee dirette ed invitati a chiamare i numeri pubblici per le emergenze (come il 113).

Infine, guardare gli schermi di controllo si rivela estremamente noioso e ripetitivo. Nelle zone residenziali, Martin Gill e Angela Spriggs hanno contato una media di sei incidenti ogni 48 ore di sorveglianza [7]. Risultato, gli operatori lottano prima di tutto contro la noia: frequenti pause caffé/toilette, lettura di riviste, parole incrociate, sonnolenza e anche … voyeurismo, che rappresenta il 15% del tempo dedicato alla sorveglianza di donne [8].

Tutti questi fattori portano ad un bilancio costi/benefici estremamente debole per le reti di videosorveglianza in termini di arresti per telecamera. Dopo aver passato 592 ore in compagnia di operatori che sorvegliavano il centro di tre città, i sociologi Gary Armstrong e Clive Norris hanno così constatato che, su novecento operazioni di videosorveglianza mirate, la polizia non era intervenuta che 45 volte, per un totale di dodici arresti [9].

Jason Ditton e Emma Short dal canto loro indicano che nel 1995 solamente 290 arresti sono risultati più o meno collegati alle 32 telecamere installate a Glasgow. Non è possibile stabilire con esattezza se tali arresti avrebbero avuto luogo oppure no anche in assenza delle videocamere, ma, anche in questo caso, il rapporto sarebbe di un arresto per videocamera ogni 967 ore di sorveglianza, ossia un arresto ogni quaranta giorni. In altre parole, durante il loro primo anno di funzionamento, le telecamere hanno “visto” meno del 5% degli incidenti che hanno portato ad un arresto nella zona da esse sorvegliata [10].

Spesso presentata come una panacea nel campo della lotta contro la delinquenza, la videosorveglianza è un sistema le cui modalità operative restano molto problematiche. “Una delle principali difficoltà è la confusione, se non addirittura la contraddizione, che esiste rispetto a quello che ci si attende dalla videosorveglianza in città. Da un lato, la capacità delle videocamere di essere testimoni di episodi criminali dovrebbe logicamente aumentare il numero dei crimini e dei reati registrati in questo modo. Dall’altro, la semplice presenza delle telecamere dovrebbe dissuadere i malfattori dall’agire, così diminuendo il numero di crimini e reati registrati.” [11]

La prova del “successo” della videosorveglianza può essere così una diminuzione del numero di reati oppure … un aumento di questi numeri, a seconda che si accetti il criterio della dissuasione o quello della scoperta. La contraddizione tra queste due logiche pone reali problemi di messa in opera di tali sistemi.

Privilegiare la dissuasione presuppone di segnalare al massimo la presenza delle videocamere nelle zone dove sono installate (e spesso ciò è un obbligo di legge). Ma permette ai potenziali contravventori di adattare il loro comportamento di conseguenza, con spostamenti geografici, di tattica o temporali. In sovrappiù, in assenza di una effettiva capacità di perseguire i delitti, il potere d’intimidazione dele videocamere diminuisce rapidamente.

Al contrario, l’uso della videosorveglianza come strumento di scoperta o di registrazione presuppone per operare che i delitti abbiano avuto luogo, e dunque che i contravventori ignorino la presenza delle videocamere. Il che apre la porta a critiche riassunte qui nella lettera di un lettore del Daily Telegraph (17 gennaio 2008): “Come si può sentirsi rassicurati dalla presenza di telecamere? Tutto quello che vogliono dire è che qualcuno potrà guardarvi mentre venite aggrediti, picchiati, stuprati o assassinati.”

In effetti, la lotta contro la flagranza dei reati implica la massima supervisione delle immagini in tempo reale; una comunicazione fluida tra gli operatori e la polizia; e un’eccellente reattività dei servizi di polizia. Ma, in pratica, la scoperta di delitti in tempo reale è rara per ragioni tecniche e per la formazione degli operatori; le relazioni tra operatori e poliziotti dipendono da elementi molto soggettivi, vista l’indeterminatezza istituzionale che le circonda; e la reattività delle forze dell’ordine è in funzione delle loro priorità e del loro budget, che la videosorveglianza … taglia [12].

Se si mira ad un uso retrospettivo delle immagini registrate, si pone allora il problema del loro stoccaggio. In mancanza di spazio, la maggior parte dei sistemi conserva meno del 5% delle immagini filmate, il che rende difficile ottenere degli elementi utilizzabili in sede giudiziaria.

L’insieme di questi fattori forse spiega perché gli studi effettuati nel Regno Unito non hanno trovato alcuna correlazione tra il tasso di crimini risolti e numero di telecamere istallate. Una conclusione interessante in un paese che conta una videocamera ogni quattordici abitanti.

Non per questo si profila la minaccia della società orwelliana. Come sottolineano Gary Armstrong e Clive Norris, “coloro che promuovono la videosorveglianza come la panacea che risolverà ogni problema di delinquenza e di turbe dell’ordine pubblico, come coloro che vedono profilarsi lo spettro di una società di sorveglianza da incubo[dystopian surveillance state], condividono una ingenua fiducia nel potere della tecnologia, che sia benefico o malefico.” [13] Al di là delle questioni etiche che questo dibattito solleva, esiste una certezza: anno dopo anno, la videosorveglianza provoca, in termini di lotta alla criminalità, un grande sperpero di danaro pubblico. Oppure, per riprendere le parole di Mick Neville, responsabile dell’ufficio immagini, identificazioni e investigazioni visive (Viido) della polizia metropolitana di Londra (Scotland Yard): “Un fiasco completo” [14].

NOTE

[1] Nel 2006, esistevano 346.000 videocamere censite dal ministero: il 74% in luoghi o edifici aperti al pubblico, il 18% su mezzi di trasporto e l’8% nella pubblica via in senso stretto.

[2] Martin Gill e Angela Spriggs,
“Assessing the impact of CCTV” (pdf), Home Office Research Study, n. 292, Londra, 2005. CCTV (closed-circuit television) o televisione a circuito chiuso, è la denominazione anglosassone della videosorveglianza.

[3] Jason Ditton, “Glasgow city’s cameras: Hype or Help?” 24 luglio 1999.

[4] Martin Gill et Angela Spriggs, “Assessing…”, op. cit. Alcuni dei sistemi esaminati presentavano un rapporto di 17 telecamere per uno schermo. Nella maggior parte dei casi il rapporto era tra due e cinque a uno.

[5] Gavin Smith,“Behind the screens : Examining constructions of deviance and informal practices among CCTV control room operators in the UK”, Surveillance and Society, vol. 2, nn. 2-3.

[6] Gary Armstrong et Clive Norris,
“CCTV and the social structuring of surveillance” (pdf), Crime Prevention Studies, vol. 10, Monsey (New York), 1999.

[7] Martin Gill et Angela Spriggs, “Assessing…”, op. cit.

[8] Gary Armstrong e Clive Norris, “The unforgiving eye : CCTV surveillance in public space”, Centre for Criminology and Criminal Justice, Università di Hull (Regno Unito), 1997.

[9] Ibid.

[10] Jason Ditton e Emma Short, “Yes it works, no, it doesn’t : Comparing the effects of open-street CCTV in two adjacent town centres, Airdrie and Glasgow”, Scottish Centre for Criminology, Glasgow, 1999, p. 15.

[11] Ibid., p. 13

[12] Dal 1996 al 1998, i tre quarti delle spese del Ministero dell’interno britannico (Home Office) per la prevenzione dei reati è stata così dedicata all’estensione della rete di videosorveglianza. Si veda: Rachel Armitage, “A review of current research into the effectiveness of CCTV systems in reducing crime”, Community Safety Practice Briefing, Londra, maggio 2002.

[13] Gary Armstrong e Clive Norris, The Maximum Surveillance Society : The Rise of CCTV as Social Control, Berg, New York, 1999, p. 9.

[14] The Guardian, Londra, 6 maggio 2008.

Titolo Originale: Sous l’oeil myope des caméras
Fonte: www.monde-diplomatique.fr
Link: http://www.monde-diplomatique.fr/2008/09/LE_BLANC/16294
settembre 2008

Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS

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