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La Redazione

 

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IL RITORNO DEL NE'-NE', ISLAMISMO E ANTISEMITISMO NELLE MANIFESTAZIONI

A cura di
Il 16 Marzo 2009
55 Views

DI JEAN BRICMONT
mondialisation.ca

Questo testo è in parte una risposta all’articolo “Il potere ai «barbuti»? No grazie!” pubblicato in Belgio (Le Soir) in seguito alle manifestazioni su Gaza: http://www.lesoir.be/forum/cartes_blanches/carte-blanche-le-pouvoir-aux-2009-01-14-681417.shtml

Certi movimenti di sinistra o pacifisti hanno una particolarità che consiste, in occasione di un conflitto, a ripiegarsi sul né-né. Nè Milosevic, né NATO, né Bush, né Saddam e oggi si contrappongono Israele e Hamas o Hezbollah. In ogni caso il problema è triplice:

– Si ignorano le differenze nei rapporti di forza

– Si mettono sullo stesso piano gli aggressori e gli aggrediti

– E, questa è la cosa più importante, ci si pone come se noi fossimo al di fuori del conflitto, al di sopra della mischia, mentre è evidente che i nostri governi non lo sono.

Nel caso del conflitto di Gaza, la versione dominante del né-né consiste nel condannare allo stesso tempo i lanci di razzi di Hamas e la risposta di Israele, a volte ritenuta sproporzionata. La parola “sproporzionata” è essa stessa assurdamente sproporzionata di fronte alla differenza delle forze in campo. Da un lato, c’è un esercito nazionale super-sofisticato. Quando questa forza attacca, lo fa per distruggere le infrastrutture e terrorizzare tutta una regione attraverso la dimostrazione della sua superiorità militare. Dall’altra, c’è qualche razzo artigianale lanciato verso Israele senza alcuna speranza di vincere una battaglia, ma piuttosto di segnalare disperatamente che un popolo derubato, imprigionato e dimenticato esiste ancora. I lanci di razzi non sono che un mezzo per bussare alla porta della prigione e l’aggressore è innanzi tutto colui che ha imprigionato ingiustamente un popolo intero, privandolo da decenni di altri mezzi perché venga riconosciuta la sua esistenza. Le persone che lanciano questi razzi su Israele sono spesso i discendenti di coloro che sono stati cacciati dalle loro terre nel 1948. I razzi sono l’eco di questa spoliazione che data ormai da sessant’anni. Fintanto che questo fatto fondamentale non viene riconosciuto, e in Occidente non lo è quasi mai, è impossibile avere una visione realistica della profondità del problema.

In realtà ciò deriva dai principi sui quali Israele è stato fondato, ossia che per alcune persone è legittimo, in virtù di un diritto acquisito alla nascita (essere “ebreo”), occupare la terra di altre persone alle quali le casualità della nascita non hanno dato lo stesso diritto. Che si invochi la Bibbia o l’Olocausto come più diretta giustificazione di questa occupazione non cambia nulla del suo carattere intrinsecamente razzista, cioè in fin dei conti fondato su una importante distinzione tra esseri umani legata unicamente alla loro nascita.

Questo aspetto razzista è evidentemente presente nella mente delle vittime e di tutti coloro che si identificano con loro – soprattutto le popolazioni del mondo arabo-musulmano e di una parte del terzo mondo, per i quali il progetto sionista ricorda dolorosamente precedenti esperienze del colonialismo europeo, ma che in Occidente non viene praticamente mai integrato nel dibattito. E’ necessario sottolineare che si tratta di un razzismo istituzionale, ossia legato alle strutture di uno stato, il che è molto diverso dal razzismo “ordinario”, sfortunatamente molto diffuso, ma spesso passivo, che esiste in molti individui. Ed è il razzismo di stato ad essere in generale considerato di “estrema destra”, “incompatibile con i nostri valori”, “contrario alla modernità e allo spirito dell’Illuminismo”. E’ questo razzismo che ha portato alla condanna generale dell’apartheid in Sudafrica e della sua ideologia. Ma ciò non avviene per il sionismo che è l’ideologia che legittima questo razzismo istituzionale. Disgraziatamente è spesso la sinistra occidentale che, pur essendo generalmente la più pronta a denunciare il razzismo di stato, è la più portata a fare un’eccezione per lo “Stato ebreo”.

Inoltre, l’intero discorso dominante su questo conflitto è indirettamente inquinato dalla visione razzista di partenza:

– Tutte le parti in causa e tutti gli intellettuali o commentatori “rispettabili” devono, prima di ogni altra cosa, riconoscere “il diritto all’esistenza di Israele”, ma l’espressione “diritto all’esistenza della Palestina” è praticamente inesistente. Per quanto riguarda i Palestinesi, il loro Stato, supposto che un giorno ce ne sia uno, deriverà non da un diritto ma da una negoziazione; e, per di più, da una negoziazione con un interlocutore palestinese “responsabile”, sarebbe a dire che riconosca come condizione preliminare ad ogni discussione il diritto all’esistenza del suo avversario, il quale non riconosce affatto a lui lo stesso diritto.

– Una qualunque persona di origine ebraica ha il diritto di installarsi in Israele, ma i non ebrei che sono stati cacciati nel 1948 e i loro discendenti non possono farlo. Anche nei Territori cosiddetti palestinesi, i loro spostamenti da una zona all’altra sono fortemente limitati.

– Deve essere impedito ad Hamas o a Hezbollah di riarmarsi ma Israele può ricevere dagli Stati Uniti, gratuitamente, tutte le armi che desidera.

– Israele è costantemente celebrata come “la sola democrazia in Medio Oriente” ma le elezioni libere dei palestinesi vengono ignorate.

– I Palestinesi devono “rinunciare alla violenza” ma non Israele.

– L’Iran non può avere armi nucleari ma Israele si.

Tutte queste differenze di trattamento in fin dei conti si fondano sull’idea che l’impresa iniziale di colonizzazione sia stata legittima, oppure che ormai appartiene al passato e non è desiderabile riparlarne; ma questi due atteggiamenti tornano a negare l’umanità piena ed intera delle vittime, il che ci riporta alla questione del razzismo. Proviamo ad immaginare quale sarebbe la reazione europea se lo Stato d’Israele fosse stato creato, mettiamo, in una parte dei Paesi Bassi o della Costa Azzurra, facendo fuggire una parte consistente dei suoi abitanti.

Questi due pesi e due misure si ritrovano ad ogni livello del discorso dominante, ad esempio quando si ripete che non bisogna “importare il conflitto” in Francia, come se il fatto che quasi tutta la classe politica accetti di farsi fare la predica, in occasione della cena annuale del CRIF [1], sul suo presunto atteggiamento filoarabo, non costituisse già una “importazione del conflitto”, ma unilaterale, a favore di Israele.

Anche il discorso che stigmatizza l’estrema destra soffre ugualmente di due pesi e due misure: in generale, il discorso riguarda l’estrema destra francese tradizionale, nelle sue diverse varianti, o gli islamici, ma mai il sionismo. Nei fatti, buona parte della sinistra politica e intellettuale adotta, sulla questione della Palestina, una posizione implicitamente razzista che sarebbe considerata di estrema destra se avesse riguardato l’Africa del Sud all’epoca dell’apartheid.

La sinistra spesso attacca in pompa magna un’estrema destra sicuramente sgradevole, ma debole e marginale (è proprio per questo che la si può attaccare), rimanendo, nel migliore dei casi, passiva di fronte ad un’altra estrema destra (il sionismo) che è sostenuta militarmente e diplomaticamente dalla più potente democrazia del mondo.

Un modo per fare tacere le proteste contro la politica israeliana consiste nel denunciare l’antisemitismo nelle manifestazioni così come l’identificazione tra Israele e il nazismo. Evidentemente questo secondo paragone è eccessivo, ma tutti commettono questo genere di eccessi in ogni momento. Quanti “CRS=SS”[2] (ma quanti morti ci furono nel Maggio ’68 in confronto a Gaza)? Oppure Hitlerosevic? O Nasser, l’Hitler del Nilo (nel 1956)? Perché i partigiani d’Israele possono continuamente identificare Hamas o l’Iran con Hitler e l’eccesso inverso dovrebbe essere vietato? Si potrebbe rispondere che è a causa di quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei. Ma questo genere di considerazioni non ha mai impedito di paragonare ai nazisti i Sovietici o i Serbi, che hanno anch’essi molto sofferto durante la guerra. Meno degli ebrei senza dubbio, ma a partire da quale livello di sofferenza gli eccessi diventano inaccettabili? Fondamentalmente, dal momento in cui la nazificazione dell’avversario è la principale arma ideologica dell’Occidente e di Israele, è inevitabile che la stessa arma sia rivolta contro di loro appena se ne presenta l’occasione.

Per quanto riguarda l’antisemitismo, non bisogna dimenticare che la politica israeliana viene fatta in nome di uno Stato che si definisce ebreo, ed è fortemente sostenuta da organizzazioni che dicono di rappresentare gli ebrei (a torto o a ragione). Come si può sperare di evitare che in questo clima molti divengano anti-ebrei? E’ chiedere troppo alla psicologia umana.. Durante la guerra, la maggior parte degli abitanti dei paesi occupati era anti-tedesca (contro i “Boches” [3]), non solamente antinazista. Durante la guerra del Vietnam, gli oppositori erano spesso antiamericani non solamente in contrasto con la politica USA (ed è ancora la stessa cosa adesso riguardo alla loro politica in Medio Oriente). E’ assurdo sperare che la gente si faccia la guerra senza odiarsi, rispettando i diritti dell’uomo e da bravi antirazzisti. E poiché da molto tempo il conflitto è stato importato nel discorso mediatico e nell’azione politica, c’è anche qui una guerra ideologica i cui prevedibili effetti sono esattamente quelli che si deplorano.

Non si può nemmeno chiedere agli oppositori di Israele di distinguere tra ebrei e sionisti quando il discorso dominante non lo fa quasi mai (perlomeno quando questa identificazione consente di presentare Israele come un paese eternamente “vittima” o “paria”).

Ancora, come si può pretendere che una popolazione che è senza sosta demonizzata, ridicolizzata, insultata perché, in quanto musulmana, non avrebbe capito nulla di democrazia, di diritti umani, di diritti delle donne e che sarebbe “ideologica” quando manifesta le sue convinzioni religiose, non reagisca con violenza (almeno verbale) di fronte al massacro di Gaza?

Quanto precede non è una “giustificazione dell’antisemitismo” ma una banale osservazione su un aspetto spiacevole ma piuttosto universale della psicologia umana. Si potrebbe aggiungere che tutti i discorsi di denuncia e di condanna dell’antisemitismo che non considerino il contesto all’interno del quale esso si sviluppa, non servono a nulla e sono senz’altro controproducenti, come lo sono in generale i discorsi moralistici.

La situazione qui da noi è praticamente inestricabile come quella nella Palestina stessa. Sicuramente l’antisemitismo aumenta così come l’identificazione ideologica, in tutti i campi. Siamo incapaci di risolvere la situazione in Medio Oriente, ma si potrebbe almeno cominciare a riconoscere qui da noi la vera natura del problema (il razzismo istituzionale di Israele) e cambiare radicalmente discorso. Bisognerebbe anche mettere fine alle intimidazioni e ai processi (per reati di opinione), fare in modo che ognuno possa dire quello che pensa veramente d’Israele e di chi lo sostiene e stabilire armi uguali nei dibattiti che riguardano il sionismo. Bisognerebbbe anche che la politica francese ed europea venisse determinata indipendentemente dall’influenza di gruppi di pressione. E’ solo così che si può sperare, alla fine, di de-ideologizzare il dibattito e fare regredire l’antisemitismo.

Note del traduttore

[1] Si tratta del Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche in Francia.

[2] La CRS (Compagnie Républicaine de Sécurité), è il corpo di polizia addetto, tra l’altro, all’ordine pubblico in occasione di manifestazioni. Equivalente al nostro Reparto Celere.

[3] E’ il termine dispregiativo con cui in Francia venivano designati i Tedeschi, utilizzato soprattutto durante le diverse guerre che hanno opposto le due nazioni.

Titolo Originale: Sur le retour du ni-ni, l’islamisme et l’antisémitisme dans les manifestations
Fonte: mondialisation.ca
Link: http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=12248
10.02.2009

Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da Matteo Bovis

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