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DI NAFEEZ AHMED

theguardian.com

L’alba dell’era post-carbone segna la fine del vecchio sistema dei combustibili: è ora di accelerare la transizione

Venerdì scorso ho postato un rapporto esclusivo su un progetto di ricerca scientifica promosso dalla NASA presso l’US National Socio-Environmental Synthesis Center (Sesync) che fornisce dei modelli dei rischi di collasso della civiltà, sulla base di un’analisi dei fattori chiave coinvolti nell’ascesa e nella caduta della civiltà passata.

La storia si è diffusa rapidamente ed è stata subito ripresa da altri organi di stampa di tutto il mondo che, però, spesso la riportavano usando titoli piuttosto fuorvianti. “Uno studio della NASA dice che l’umanità è praticamente fregata”, era quello di Gizmodo. Studio finanziato dalla NASA sostiene che la società moderna è condannata, come il dodò”, ha scritto il Washington Times.

Siamo davvero condannati?

Non è la condanna il senso di questo studio, né quello della mie prime ricerche sull’argomento nel mio libro, A User’s Guide to the Crisis of Civilisation: And How to Save It. Piuttosto, quello a cui stiamo assistendo, come ho argomentato in precedenza con maggiore dettaglio, è uno sviluppo dei sintomi interconnessi dell’insostenibilità del sistema globale nella sua forma attuale. Mentre le prove disponibili suggeriscono che l’atteggiamento del “lasciamo tutto com’è” rischia di causare con certezza scenari peggiori, allo stesso tempo l’umanità si trova di fronte un’opportunità senza precedenti per creare una forma di civiltà in armonia con il nostro ambiente e con noi stessi.

Naturalmente, ci sono quelli che arrivano a sostenere che l’umanità è destinata a estinguersi entro il 2030, e che è troppo tardi per fare qualcosa.

Ma, come hanno sottolineato altri scienziati, mentre il numero dei feedback positivi che potrebbero derivare dallo scenario del “business as usualè schiacciante, anche se la cosa è quanto meno dubbia in base ai dati a nostra disposizione, noi riteniamo anche che i sostenitori del fatalismo stanno sistematicamente fuorviando e offuscando la scienza per giustificare la mancanza di speranza.

Ostracismo neoliberista

Poi ci sono quelli sul lato opposto, che hanno abbracciato la crociata personale del diffondere gioia e felicità, fingendo che tutto stia andando a meraviglia, ignorando in ogni momento che i nostri fari della scienza, come la US National Academy of Science, Nature e la Royal Society concordano sulla convergenza, nei prossimi decenni, delle sfide ambientali, agricole ed energetiche senza che ci siano in vista cambiamenti rilevanti.

Quello che suggerisce lo studio interdisciplinare di cui ho parlato la settimana scorsa – come suggerisce anche la precedente ricerca – è che la nostra traiettoria attuale è insostenibile perché la nostra richiesta di risorse e prestazioni ambientali va sempre oltre quanto il pianeta è in grado di offrire. Questo “errore di calcolo” è già stato responsabile di una serie di crisi sovrapposte – il crollo finanziario, la crisi alimentare, l’intensificarsi di rivolte, per citarne solo alcuni -, e le cose sono destinate a peggiorare se non verranno prese misure significative.

Errori di calcolo e disuguaglianza fanno parte dello stesso fallimento

Perché succede questo? Lo studio di Sesync avvalora un argomento che io stesso ho spesso sostenuto: che al centro del nostro modello di civiltà attuale vi è una drammatica disuguaglianza nell’accesso alle risorse della Terra, abbinata a un’ideologia che vede tali risorse come terra di conquista per l’accumulazione di sconfinate ricchezze materiali per una minoranza della specie umana.

La stragrande maggioranza delle risorse mondiali – non solo quelle monetarie, ma anche il suolo e materie prime – è di proprietà di una piccola minoranza di Stati, monarchi, nobili famiglie, banche e imprese. Non è un caso che la Regina di Gran Bretagna – senza dubbio la progenitrice del capitalismo globale contemporaneo prima di essere stata superata dagli Stati Uniti – è la più grande proprietaria del pianeta, con circa 6,6 miliardi di ettari di terreno. Si tratta di un sesto della superficie della Terra. E c’è di peggio: 1.318 imprese posseggono l’80% della ricchezza mondiale e, oltre a ciò, in questo numero ci sono 147 “super multinazionali” che ne posseggono la metà.

Ma oltre a questo, come ha dimostrato un lungimirante rapporto della Chatham House di due anni fa, le risorse si stanno esaurendo e i prezzi stanno aumentando, basandosi sui dati più affidabili. Questo accade, sostiene Chatham House, a causa di una combinazione di stagnazione nella crescita economica e di espansione demografica, con un’intensificazione della domanda e l’aumento dei costi di estrazione delle risorse.

La festa è finita… è il momento di fare le pulizie

Dal 2005 l’indice dei prezzi alimentari del mondo è raddoppiato, rimanendo a livelli record. Ma il drammatico aumento dei prezzi del petrolio non ha aiutato l’industria energetica a tenere alti i profitti. Al contrario, gli investimenti nello sviluppo dei giacimenti e nell’estrazione sono aumentati del 200-300% dal 2000, ottenendo un moderato aumento dell’offerta di petrolio di appena il 12%. Ci sono prove evidenti che l’alba del fracking non rappresenta una nuova rivoluzione per i combustibili fossili, ma piuttosto una “festa di pensionamento“, citando l’analista energetico statunitense Chris Nelder.

Di fronte alla schiacciante molteplicità delle sfide globali da affrontare, è comprensibile un senso di impotenza. Tuttavia, come ho già avuto occasione di dire, è non necessario e controproducente.

Infatti, quello che stiamo affrontando è qualcosa di molto più complesso di uno scenario del tipo “la fine è vicina”: non è la fine del mondo, ma la fine del vecchio paradigma industriale della crescita illimitata sostenuta da quantità illimitate di petrolio – che sta sempre più sfiorando i propri limiti biofisici – e l’emergere di un nuovo paradigma di una civiltà basata su risorse globali condivise.

L’agonia dei combustibili fossili

Come scrive Nelder nel suo ultimo editoriale, ci troviamo di fronte a un bivio potenzialmente eccitante: da un lato l’agonia dell’industria dei combustibili fossili, e dall’altro i segni dell’inesorabile avanzata di un nuovo sistema energetico basato su fonti energetiche rinnovabili. Gli scettici sulle rinnovabili hanno torto, ossessionati nell’osservare le dinamiche economiche incentrate sui combustibili fossili, piuttosto che tentare di comprendere le nuove e particolari dinamiche distribuite.

Citando Nelder:

Dietro alle campagne pubblicitarie sull’abbondanza del petrolio, delle sabbie bituminose e di altre fonti ‘non convenzionali’ di combustibili liquidi c’è una verità nascosta: sono tutte costose. L’impennata dei costi di produzione del petrolio ha di gran lunga superato l’aumento del suo prezzo, perché tutti hanno fatto affidamento su queste risorse marginali per sostenere un aumento della produzione da quando la produzione di petrolio convenzionale ha raggiunto il picco nel 2005. […]

La combinazione perniciosa dell’aumento dei costi di produzione, il rapido declino della produttività dei pozzi, il calo dei progetti per perforazione di nuovi pozzi, e anche i programmi di perforazione fuori controllo che ha causato una saturazione e distrutto la redditività, alla fine hanno presentato il conto.

E non sono solo le compagnie petrolifere che devono affrontare “grosse revisioni nella valutazione delle riserve” (Nelder intende….. Chesapeake Energy, Encana, Apache, Anadarko Petroleum, BP e BHP Billiton). L’energia prodotta dal carbone verrà ridotta di 60 Gigawatt (GW) entro il 2016, “più del doppio” delle previsione del 2012, mentre l’anno scorso le centrali nucleari sono state dismesse a un “ritmo senza precedenti” destinato “ad aumentare”, in gran parte per di problemi di “redditività”.

La prima forza motrice di questa spirale mortifera dei combustibili fossili è:

“[…] la concorrenza dei più economici generatori eolici, solari e a gas naturale, oltre all’aumento dei costi di gestione e di manutenzione. A mano a mano che viene introdotta nella rete sempre più energia rinnovabile, l’economia continua a peggiorare a causa di tutte le strutture ancora dipendenti dalla vecchia generazione di combustibili fossili”.

In Germania, ad esempio, dove il 25% della rete è alimentata da fonti rinnovabili decentrate (oltre il 50% delle quali è di proprietà di cittadini), le tre maggiori utilities, E.ON, RWE, e EnBWe “sono alle prese con quella che l’amministratore delegato di RWE ha chiamato ‘la peggiore crisi strutturale della storia delle forniture energetiche.‘”

Come spiega Nelder, il passaggio obbligato verso i sistemi solari e lo stoccaggio dell’energia costituisce una minaccia “reale, tangibile e attuale” per gli impianti centralizzati:

Il calo dei consumi e l’aumento dell’energia da fonti rinnovabili hanno ridotto dal 2008 il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica del 60%, rendendo sempre meno redditizie le centrali a carbone, a gas e a olio combustibile. L’energia rinnovabile fornisce ormai il 23 per cento della produzione mondiale di elettricità, secondo il National Renewable Energy Laboratory, con capacità raddoppiate nel periodo 2000-2012. Se proseguirà questo ritmo di crescita, le rinnovabili potrebbero diventare la principale fonte di energia elettrica entro il prossimo decennio.

Un nuovo rapporto del Rocky Mountain Institute del Colorado suggerisce che, se le energie rinnovabili continueranno in questa scalata così aggressiva, i “sistemi off-grid ” saranno “le utilities più a buon mercato per l’energia elettrica che viene venduta nella regione nel giro di soli dieci anni.” Un rapporto di Deutsche Bank di fine 2013 ha confermato la stessa cosa, prevedendo che “il solare e le altre fonti rinnovabili sono solo all’inizio dell’era della grid-parity.”

L’ascesa del nuovo sistema di energia pulito e decentrato sta avvenendo più velocemente di quanto previsto nonostante gli enormi stanziamenti governativi destinati alla vecchia industria dei combustibili fossili. Ma è solo un piccolo passo verso un nuovo paradigma post-carbone.

Poiché l’energia è il fulcro di una società, lo sfascio del sistema dei combustibili fossili porterà alla scomparsa del vecchio paradigma. Entro la fine di questo secolo, in un modo o nell’altro, diventerà obsoleto. Tocca a noi stabilire cosa prenderà il suo posto, mentre si avvicinano la fine del vecchio paradigma e le opportunità per esplorare delle valide alternative.

L’ascesa del nuovo paradigma

Il nuovo paradigma emergente si fonda su un’etica fondamentalmente diversa, dove noi non saremo unità disconnesse impegnate nella forsennata conquista consumistica una contro l’altra, ma membri interdipendenti di un’unica famiglia umana. Le nostre economie, invece di pensarle in un contesto di espansione materiale illimitata, vanno considerate come parte integrante di una società più ampia, dove un’attività economica fine a se stessa viene considerata come una patologia, un fatto che corrisponde alla realtà. Al contrario, le iniziative economiche si allineeranno a valori più profondi che ci rendono umani, come la soddisfazione delle nostre esigenze di base, l’istruzione e la scoperta, l’arte e la cultura, la condivisione e il dono, quei valori che, secondo gli psicologi, contribuiscono al benessere e alla felicità molto più che il mero denaro e le cose. E, a loro volta, le nostre società non vanno considerate entità autonome a cui l’intero pianeta deve essere spietatamente soggiogato, ma come intrinsecamente integrate nell’ambiente naturale.

In questo modello le famiglie, le comunità e le città diventano produttrici e consumatrici di energia pulita, e lo stesso vale per il cibo. Da un lato, dobbiamo porre fine alle pratiche sprecone del sistema alimentare industriale esistente, che ogni anno manda al macero un terzo della produzione globale di cibo. Dall’altro, bisogna mettere da parte le tradizionali pratiche energivore di una produzione dominata dalla multinazionali.

In alcuni casi, considerando che almeno il 70% della produzione globale di cibo viene da piccoli coltivatori diretti, vedremo che il passaggio a un’agricoltura agroecologica potrebbe aumentare notevolmente la sostenibilità e le rese. L’agricoltura biologica locale offre un immenso potenziale non solo per l’occupazione, ma anche per le famiglie che possono diventare proprietarie e produttrici nella filiera alimentare esistente, in particolare nei paesi più poveri, e un passaggio verso l’agroecologia potrebbe soddisfare le sfide dell’attuale sistema alimentare globale. Questa opinione non è frutto di fanatici fautori del biologico, ma dei più seguìti studiosi dell’alimentazione, convocati dalla Commissione delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) e dalla Valutazione Internazionale delle conoscenze agricole, scientifiche e tecnologiche per lo sviluppo (IAASTD).

Questo nuovo paradigma della produzione distribuita dell’energia pulita, di un’agricoltura decentrata e di una cooperazione economica partecipativa offre un modello di sviluppo libero dall’imperativo della crescita illimitata e fine a se stessa, guidandoci verso un nuovo modello di democrazia, basato un controllo gerarchico dominante, ma sul decentramento del potere a favore della piccola proprietà e dell’iniziativa locale.

Nel nuovo paradigma le famiglie e le comunità diventano proprietarie del capitale, a mano a mano che si impossessano a livello locale dei mezzi di produzione dell’energia, del cibo e dell’acqua. La democratizzazione dell’economia influenza i poteri politici, garantendo che le decisioni critiche relative alla produzione e alla distribuzione della ricchezza avvengano nelle comunità, da parte delle comunità. Ma un’impresa partecipativa richiede meccanismi commisurati di scambi monetari che siano equi e trasparenti, liberati dalle fantasie e dalle ingiustizie del modello convenzionale.

Nel nuovo paradigma, né i soldi né il credito saranno legati alla generazione del debito. Le banche saranno istituti di proprietà della comunità, pienamente responsabili verso i depositanti, e le speculazioni finanziarie verranno sostituite da forme d’investimento eque, dove i rischi delle banche sono condivisi con i clienti e i profitti suddivisi in modo corretto. La nuova moneta non sarà una forma di debito di denaro, ma, semmai, sarà più strettamente collegata alle attività del mondo reale.

E allo stesso modo, verranno ridefinite le nozioni stesse di crescita, progresso e felicità. Ora sappiamo, grazie alle ricerche di grandi personaggi quali lo psicologo Oliver James e l’epidemiologo Richard Wilkinson, che la prosperità materiale in Occidente non solo ha fallito nel renderci felici, ma ha fatto proliferare le malattie mentali e aggravato le disuguaglianze sociali, che sono scientificamente collegate al crimine, alla violenza, all’abuso di droghe, alle gravidanze delle adolescenti, all’obesità e ad altri sintomi di malessere sociale.

Questo non significa che il progresso materiale non è importante ma, nel momento in cui esso è la forza prevalente della società, diventa disfunzionale. Quindi, forse dobbiamo accettare il fatto che il vecchio paradigma di accaparramento materiale illimitato è in agonia, e che il nuovo paradigma di cooperazione comunitaria è molto più in sintonia con la natura umana e con l’ordine naturale.

Questo nuovo paradigma potrebbe essere ancora nella fase di concezione, come piccoli semi piantati qua e là. Ma, mentre la crisi della civiltà è destinata ad accelerare nel corso dei prossimi decenni, le comunità di tutto il mondo saranno sempre più arrabbiate e disilluse di quelle precedenti. E, in quella disillusione verso il vecchio paradigma, i semi che stiamo piantando oggi fioriranno, offrendo una visione di speranza a cui sarà impossibile resistere.

La crisi della civilità –film documentario – cliccare qui per vedere il video su YouTube.

Come scrissi quattro anni fa:

“Ogni visione di un ‘nuovo mondo’, se dovrà superare le profonde carenze strutturali dell’attuale modello del business as usual, avrà bisogno di sperimentare nuove strutture sociali, politiche ed economiche che favoriscano quanto segue:

1. una diffusa distribuzione della proprietà delle risorse produttive, in modo tale che tutti i membri della società abbiano una diretta partecipazione in imprese produttive agricole, industriali e commerciali, e non che una piccola minoranza monopolizzi le risorse per propri interessi.

2. una partecipazione politico-economica più decentrata attraverso la produzione autogestita e i consigli dei consumatori per facilitare il processo decisionale partecipativo nelle imprese economiche.

3. la ridefinizione del significato di crescita economica, concentrandosi meno sul PIL materiale e più sulla capacità di fornire valori come la sanità, l’istruzione, il benessere, la longevità, la politica e la libertà culturale.

4. la promozione di una nuova infrastruttura distribuita di energia rinnovabile sulla base di modelli di successo.

5. la riforma strutturale della moneta, del sistema bancario e finanziario, comprendente l’abolizione degli interessi e, in particolare, la cessazione della “creazione” del denaro attraverso il debito pubblico a interesse composto.

6. l’eliminazione del sistema dei prestiti senza restrizioni, basato su errati modelli di valutazione del rischio, con meccanismi tali da facilitare una maggiore regolamentazione delle pratiche di prestito da parte degli stessi titolari di depositi bancari.

7. lo sviluppo di strutture politiche di base partecipative, parallele, transnazionali e orientate verso la comunità, che facilitino la governance comune, insieme a un maggiore coinvolgimento popolare nelle istituzioni politiche tradizionali.

8. lo sviluppo dal basso di istituzioni economiche partecipative parallele transnazionali e orientate verso la comunità, per facilitare la nascita di mezzi di comunicazione equi e alternativi di scambi e prestiti tra il Nord ed il Sud.

9. l’affermazione di un paradigma scientifico e di una visione del mondo ‘post-materialista’, che riconoscano che le intuizioni d’avanguardia della fisica e della biologia smontano le tradizionali concezioni meccanicistiche dell’ordine naturale e puntano a una comprensione più olistica della vita e della natura.

10. l’affermazione di un’etica ‘post-materialista’ che riconosca che i valori progressisti e gli ideali come la giustizia, la comprensione e la generosità sono più favorevoli alla sopravvivenza della specie umana, e quindi più in armonia con l’ordine naturale rispetto ai convenzionali comportamenti ‘materialisti’ associati al consumismo neoliberista.”

E come scrissi l’anno scorso:

“Non possiamo permetterci il pessimismo e il fatalismo. Ce n’è anche troppo in giro. Il nostro compito è quello di lavorare insieme per creare dei contesti plausibili e vivibili, e iniziare a costruire questi contesti ora, partendo dal basso.”

Dr Nafeez Ahmed è il direttore esecutivo dell’Istituto per le ricerche e lo sviluppo delle politiche e autore di Guida alla Crisi della Civiltà: e a come salvarla”, oltre ad altri libri. Seguitelo su Twitter: @nafeezahmed

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NAFEEZ AHMED
The Guardian

Link: The global Transition tipping point has arrived – vive la révolution

18.03.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

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