DI GERARD COURTOIS
lemonde.ft
Confusione su ciò che è legittimo, disprezzo per la democrazia sociale, oblio della morale pubblica nutrono la diffidenza dei cittadini verso il capo dello Stato. Intervista di Gérard Courtois allo storico Pierre Ronsavallon.
In “La Contre-Démocratie” (2006) lei ha analizzato la dissociazione tra legittimità dei governanti e fiducia dei governati. Quello che è successo in Francia in questi anni conferma questo divario?
Si, la diffidenza si è rafforzata. Innanzitutto per ragioni strutturali. In primo luogo, la fiducia può essere definita come la capacità di fare una ipotesi su comportamenti futuri. Quando si era in un mondo politico organizzato attorno a grandi partiti, a programmi ben stabiliti e a dibattiti su idee definite, l’avvenire politico era relativamente prevedibile. Adesso siamo ormai in un mondo maggiormente determinato dal gioco delle personalità. Questo cambia da cima in fondo l’esercizio della fiducia, ossia della prevedibilità.
Nella foto: incidenti a Lione, 19.10.2010
Il secondo elemento è che il mondo della nuova rivoluzione industriale e della globalizzazione nel quale siamo entrati è un mondo molto più incerto, più mobile, più diffuso, dunque più inquietante. Da due anni a questa parte, la crisi finanziaria ed economica ha accentuato questa pericolosità. Questo pesa su ogni campo decisionale, che sia economico o politico e fino alle decisioni individuali e alle scelte personali. Viviamo quindi in un mondo più minaccioso e meno regolato.
Si tratta di un quadro comune a tutti i paesi democratici. Quale è la situazione francese?
Una seconda causa di sfiducia è più specifica dell’universo politico: è la dissociazione tra una democrazia dell’azione e una democrazia elettorale. Lo scopo della democrazia elettiva è di scegliere una persona o di cacciarne un’altra, perché le elezioni sono tanto delle “diselezioni” che delle scelte positive. Ma questo funziona più o meno bene nei differenti paesi. A questo proposito, le presidenziali del 2007 sono state in Francia un momento riuscito di democrazia elettorale: il contrasto tra le personalità dei candidati, le immagini e i programmi erano sufficientemente caratterizzati perché gli elettori avessero la sensazione di effettuare una scelta che avesse un senso; anche i linguaggi e i progetti erano fortemente incarnati.
Ma la democrazia dell’azione è di altro ordine. Deve impiegare un linguaggio del tutto differente. Mentre la democrazia delle elezioni si esprime sul registro della volontà e della vicinanza, la democrazia dell’azione, al contrario, si confronta con la complessità e la costrizione. La natura della retorica elettorale è di dire “Yes, we can” e di convincere che la politica possa molto, mentre nell’azione si deve invece essere più realisti e ammettere che la politica può molto meno. Questa democrazia dell’azione acquista subito senso se si tratta anche solo di nominare alcune persone in determinati posti dell’apparato dello Stato, e sappiamo che questo è un potere essenziale del presidente della Repubblica. Ma, al di là di questo esempio, le cose sono meno evidenti.
Al di là della retorica, questo pesa sul modo di governare?
La democrazia elettorale mette l’accento sulla personalizzazione, l’incarnazione e la semplificazione: è una democrazia polarizzata. Al contrario, nel quadro della democrazia di decisione o di regolazione, le cose sono del tutto differenti. Perché funzioni bene deve accettare la demoltiplicazione delle istanze di dibattito e di controllo, assumere la complessità dei problemi e delle interazioni. Ora, le istituzioni francesi a questo proposito ci pongono in una situazione singolare: la crescente “presidentalizzazione” rafforza senza tregua la tendenza all’incarnazione e alla polarizzazione. Di colpo, ingenera quasi automaticamente diffidenza e abbandono civico.
Se ne vede la traduzione nell’ordine costituzionale: l’allargamento del potere del Parlamento e quello dei diritti dei cittadini, attraverso la questione prioritaria della costituzionalità, hanno potuto dare la sensazione che si facesse più spazio all’intervento del diritto. Ma non si tratta che di concessioni alla democrazia liberale. Perché, nello stesso tempo, il potere non ha smesso di sacralizzare il principio maggioritario: ad esempio, nominando direttamente i presidenti della televisione pubblica o imponendo una determinata visione del ruolo delle procure della Repubblica.
Lo sbocco della visione sarkosiana è che la democrazia significa: “Dato che sono stato eletto, io sono la volontà generale“, il che mi sembra difficilmente accettabile. Uno dei principali problemi dell’attuale esercizio del potere è quello di proiettare una pericolosa visione della democrazia, che mi pare avvicinarsi su certi punti alle teorie della “democrazia sovrana” di Putin o rimandare alla filosofia politica del Secondo Impero, che invoca l’appoggio delle masse al plebiscito per dichiararsi la sola detentrice dell’interesse generale. Perché in democrazia nessuno può pretendersi unico proprietario dell’interesse pubblico e incarnare la volontà generale.
Bisogna distinguere due tipi di legittimità?
Assolutamente. Questa filosofia della “democrazia” non fa la distinzione, essenziale, tra legittimazione delle persone attraverso l’elezione, d’ordine procedurale, e la legittimazione delle loro azioni, d’ordine sostanziale. L’elezione dà una legittimità a governare per la durata del mandato ed è una buona cosa per non essere ostaggio della democrazia d’opinione. Ma la legittimità si gioca anche sul terreno del contenuto delle decisioni. E’ questo che l’attuale potere presidenziale non accetta; confonde permanentemente legittimità di nomina e legittimità di decisione. E’ un grande errore: la legittimità non è semplicemente dello stesso ordine di uno status acquisito una volta per tutte, è una qualità che deve essere messa alla prova, che deve costruirsi in permanenza.
Questo errore influenza l’insieme del funzionamento democratico nella Francia di oggi. Fuori dal potere presidenziale stesso, si vede bene, ad esempio, che vengono istituite autorità di regolazione per rispondere a un tipo di domanda sociale, ma ci si rifiuta di trarne le conseguenze nell’azione.
Ad esempio?
L’idea che non serva un’autorità indipendente per nominare i presidenti delle reti televisive è una terribile regressione. Ahimè, sono anche costretto a constatare che in questo affare la sinistra era indignata ma che non aveva una teoria a supporto della sua indignazione.
Quale è il ruolo del popolo?
Nelle democrazie, il popolo è introvabile per definizione. E’ multiforme, in perenne ricomposizione. Bisogna quindi cercare di afferrarlo in maniera plurale: attraverso principi che l’uniscano, attraverso la sua manifestazione elettorale numerica, o ancora attraverso le forze sociali vive che in certi momenti gli danno un volto. Si tratta di altrettante espressioni del popolo che devono trovare la loro specifica rappresentazione.
Queste forze sociali non sono pericolosamente indebolite in Francia?
Quello che mi colpisce enormemente è che oggi si considera che non ci sia più legittimità nella democrazia sociale. Il fatto che una riforma come quella delle pensioni sia stata pilotata dall’Eliseo con il solo avallo della maggioranza parlamentare è un modo di procedere che segna, su un argomento così importante, una rottura storica con le pratiche della democrazia sociale in Francia. Compresa quella messa in atto dalla destra nel 2003.
Come spiega questa assenza di negoziazione?
Nella visione di Sarkozy, i sindacati sono istituzioni particolari della società civile mentre il potere di Stato si considera il solo rappresentante della generalità sociale. Beh, non è vero. La democrazia sociale vuol dire che, per ragioni di vicinanza e storiche, c’è una forma di rappresentazione del mondo sociale organizzato (i sindacati), ma anche del mondo sociale diffuso (le manifestazioni), che merita legittima rappresentazione democratica. Ora si fa come se la legittimità elettorale assorbisse ogni altra forma di legittimità e di rappresentazione. C’è quindi una presunzione da combattere, non solo nei confronti delle decisioni prese, ma nei confronti del metodo messo in atto e delle pretese che esso interpreta. E’ questo che mi sembra estremamente grave. Anche pericoloso, perché ciò rafforza questa specie di svuotamento della vita sociale tra il superpotere del vertice e una società atomizzata che non si vuole vedere esistere attraverso queste organizzazioni intermediarie come i sindacati o le associazioni. In fin dei conti, c’è una sorta di sovrapposizione d’impotenza e di onnipotenza al vertice del potere.
Però i leader sindacali ammettono che raramente la porta del presidente della Repubblica è stata così aperta ….
Ma questa è comunicazione. La porta è aperta ma non si tratta di considerazione istituzionale. I sindacati non sono considerati come attori importanti della democrazia francese. Non si tratta affatto di una strategia di empowerement, in base alla quale i sindacati possano giocare meglio il loro ruolo. E’ una strategia di avviluppo e di neutralizzazione. La democrazia non è semplicemente concorrere al vertice del potere sperando che toccherà a un “giacobino benevolo”. Al contrario, consiste nel dare il potere alla gente, nel far discendere il potere, nel farlo circolare nella società.
D’altronde, nel mondo moderno c’è una contraddizione: ci aspetta sempre di più che le persone si facciano carico di se stesse e che siano responsabili in tutti i campi, mentre in politica si assiste ad una sorta di captazione del potere e ad una deresponsabilizzazione degli individui (“Datemi fiducia e mi occupo io di tutto”).
Manchiamo di contropoteri?
Ad ogni elezione i cittadini accumulano speranze, ma allo stesso tempo la democrazia porta sempre più alla diffidenza. Il cittadino cerca di recuperare attraverso forme di contro-democrazia quello che non può ottenere nell’ordine politico. E’ un riflesso perfettamente sano; bisognerebbe in qualche modo istituzionalizzare la diffidenza, se ciò significa che il cittadino non vuole rilasciare assegni in bianco. La democrazia non è la legittimazione di assegni in bianco.
La Francia sembra incapace di attivare riforme con un minimo di deliberazione collettiva. Per quale motivo?
Quando si parla di riforme, si mescolano tre pratiche molto diverse. Prima di tutto, c’è quello che potremmo chiamare un riformismo della spesa, che fa capo ad azioni di categoria, come la riduzione dell’IVA sulle ristrutturazioni che non trova altro limite che nella diminuzione delle finanze pubbliche. Poi, un riformismo della ridistribuzione sul quale la differenza tra destra e sinistra è evidente perché esse non hanno lo stesso progetto di ridistribuzione; l’esempio della riforma fiscale illustra perfettamente da tre anni un tipo di scelta politica in favore di gruppi sociali ben precisi. Questo riformismo della ripartizione esprime semplicemente il legame tra politica e conflitto di classe.
Infine, c’è un terzo tipo di riformismo, quello della ricomposizione, che consiste nel rimodellare delle istituzioni pubbliche d’interesse generale che sono beni comuni, come l’università o la giustizia. Questo tipo di riforme non sono possibili senza, preliminarmente, una discussione sulla filosofia e il ruolo sociale di queste istituzioni. Bisogna organizzare questa discussione. E’ questo che manca molto al giorno d’oggi.
In quale categoria si trova la riforma delle pensioni?
Questa è tanto più complessa in quanto è allo stesso tempo di ridistribuzione (con la questione centrale della giustizia) e di ricomposizione (insieme a questioni di civiltà come il posto di lavoro nella società, il rapporto tra le generazioni, ecc.). Essa tocca il cuore di un progetto di società e avrebbe meritato una decisione collettiva altrettanto approfondita. Tutto ciò è stato spazzato via in maniera alquanto militaresca in favore della sacralizzazione dell’unico problema dell’età di pensionamento.
I rapporti “senza complessi” tra il potere e il denaro non scavano ancora di più il solco della sfiducia nei confronti dei governanti?
Ci sono tre paesi in Europa in cui il potere e il denaro presentano caratteri inquietanti: la Francia, l’Italia e la Russia. C’è in questi tre casi una sorta di legame tra il capo dell’esecutivo e i grandi interessi economici. Come è possibile? Semplicemente perché non interviene più un super-io del servizio pubblico.
Cosa vuole dire?
La Repubblica evidentemente non è mai stata al riparo da connivenze con i grandi interessi economici, ma predominava il sentimento che fosse al di sopra di questo e che gli affari politico-finanziari costituissero dei seri intoppi. Oggigiorno, si assiste ad una perdita quasi ingenua del significato di bene comune, di Stato, di amministrazione dell’interesse generale. E nei tre paesi citati, questo è il risultato della stessa causa: una autosoddisfazione, una presunzione del potere di rappresentare adeguatamente la società, a comportarsi senza complessi.
Al riguardo, il “caso Woerth” è molto significativo di una concezione molto riduttiva del conflitto d’interessi. [1] La difesa del signor Woerth si pone su un terreno giuridico: “Non ho fatto nulla di illegale” non cessa di ripetere. Ma se non si capisce che la morale pubblica non consiste semplicemente nel rispetto della legalità non si capisce l’essenziale. Questa morale implica di essere “al di sopra di ogni sospetto”. La qualità attesa da una personalità politica non è di non essere penalmente colpevole di malversazione, ma di essere al di sopra di ogni sospetto.
E’ necessario che il comportamento delle personalità politiche sia socialmente percepito come una qualità sentita. La filosofia repubblicana dell’interesse generale implica una certa esemplarità nel comportamento. Non si può pretendere d’incarnare l’interesse generale se non ci si distacca dagli interessi particolari in maniera leggibile da parte di tutti i cittadini. La tranquilla indifferenza nei confronti di questa filosofia morale è grave. Mina ogni sentimento di rispetto verso l’autorità.
Pierre Ronsavallon
Professore di storia moderna e contemporanea al Collège de France. Creatore della Fondazione Saint-Simon , ha fondato nel 2002 un nuovo laboratorio intellettuale, “La République des idées”. Autore di numerose opere tra cui “La Contre-Démocratie. La politique à l’age de la défiance” (Seuil, 2006) e “La légitimité démocratique” (Seuil, 2008). Le sue opere sono state tradotte in 22 lingue e pubblicate il 26 paesi. Oltre all’insegnamento,tiene corsi e conferenze nelle università di tutto il mondo.
[1] Nota del traduttore:
Eric Woerth, ministro del Lavoro francese, già ministro del Bilancio ed ex-tesoriere del partito UMP del presidente Sarkozy, coinvolto nei mesi scorsi nel cosiddetto scandalo Bettencourt a proposito di finanziamenti occulti durante la campagna presidenziale del 2007.
Titolo originale: “Le pouvoir contre l’intérêt général”
Fonte: Le Monde
Data: 29 settembre 2010
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Tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS