Idioti digitali

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DI TONGUESSY

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L’effetto Flynn consiste nell’aumento nel valore del quoziente intellettivo medio della popolazione nel corso degli anni, un fenomeno osservato da James R. Flynn. L’effetto è stato da lui rilevato in svariati paesi: per questo motivo l’ha ritenuto indipendente dalla cultura di appartenenza.

Flynn osservò come durante il secolo scorso il valore del quoziente intellettivo fosse aumentato in modo progressivo, con una crescita media di circa 3 punti per ogni decennio.

Purtroppo la tendenza di questa funzione ha subito negli ultimi decenni una brusca inversione di tendenza. Chi se ne è accorto per prima è stato il servizio di leva Norvegese. Il team di scienziati del Ragnar Frisch Centre for Economic Research ha sottoposto test del QI a 730 mila ragazzi norvegesi di 18-19 anni valutati per il servizio militare obbligatorio. Tra i nati dopo il 1975, si è registrato un calo di punteggi medi pari a 7 punti per ogni generazione. Il risultato è confermato da alcuni altri studi, in parte condotti dallo stesso Flynn; secondo alcuni si è registrato un calo del QI britannico di ben 14 punti nel solo decennio 1999-2009.

Le cause? Sembrano legate ai cambiamenti nello stile di vita e nelle abitudini dei ragazzi – cosa e quanto leggono, come trascorrono il tempo libero, che tipo di istruzione ricevono – o anche, secondo Focus, a un mancato adattamento del test del QI all’intelligenza moderna. Cioè l’intelligenza postmoderna è diversa dall’intelligenza moderna, e non si possono fare confronti. Una volta gli adolescenti giocavano a pallone, oggi passano il loro tempo nei social. Due cose così differenti da non poter essere sottoposte allo stesso test del QI. Apoteosi del relativismo.

Il ricercatore Michael Shayer, co-autore assieme a James R. Flynn di un nuovo studio ha affermato che dal 1995 una “grande forza sociale ha interferito con lo sviluppo del pensiero nei bambini, in misura sempre maggiore ogni anno”.

Questa “forza sociale”, spiega Shayer, comprende gli sviluppi della tecnologia, come le console per videogiochi e gli smartphone, che hanno alterato il modo in cui i bambini comunicano tra loro.

Prendete i 14enni in Gran Bretagna. Quello che il 25% di loro riuscivano a fare nel 1994, oggi riesce a farlo solo il 5% “, ha aggiunto citando i test di matematica e scienze.

Quindi quell’enorme differenza, sempre i geni di Focus, sarebbe da imputare non alla montante idiozia digitale, ma alla mancanza di adeguati test. Favoloso, no?

A questo punto dobbiamo tirare in ballo la legge di Moore, il cofondatore di Intel. «La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni).» Si tratta di moltiplicare funzioni e capacità fino al limite fisico che la miniaturizzazione concede.

Nel frattempo la rivoluzione digitale ha determinato e sta determinando la validità di quanto è finora stato reputato sensato. Ne è la prova il test del IQ sopra citato. Mi fa venire in mente il terribile motto della Fiera Internazionale di Chicago del 1933: “Science finds, Industry applies, Man adapt”. La scienza inventa, l’industria applica e l’uomo si adatta, con buona pace di Protagora che affermava che l’uomo (non la scienza né la tecnica) fosse la misura di tutte le cose.

La moltiplicazione tecnologica preconizzata da Moore è diventata oggi la vera pietra di paragone universale attorno alla quale ruotano valori e voleri. Il mondo è diventato sempre più complesso e richiede intelligenze sempre più specialistiche, in un crescendo continuo di complessità sistemiche ogni giorno più difficili da seguire.

Lo conferma anche il Sole24ore: “La complessità a cui dover far fronte nel mondo sviluppato aumenterà per l’innovazione scientifica e tecnologica, per cui sarà richiesta una continua crescita di abilità cognitive. Ma queste stanno diminuendo nel mondo occidentale, dove peraltro le società diventano più vecchie con declino di intelligenza fluida e quindi di capacità di innovazione.”

Quindi mentre le performance tecnologiche sono in aumento, le abilità cognitive diminuiscono. Paradossalmente è questo il vero digital divide del nuovo millennio: l’esclusione dal rutilante mondo digitale non è determinata da carenza di risorse quali condizioni economiche, disponibilità tecnologiche o provenienza geografica ma dal mancato adeguamento del livello in costante crescita delle abilità cognitive necessarie, fenomeno che separa ogni giorno di più l’uomo dalle culture che l’hanno finora sostenuto, alienandolo dalla propria esistenza.

C’è anche chi ha azzardato mettere su assi cartesiani le differenze tra sviluppo cognitivo e tecnologico. Thomas Friedman, saggista pluripremiato Pulitzer, ha dichiarato che la tecnologia ha accelerato più velocemente delle nostre capacità di adattamento. “Viviamo in un mondo in cui una singola persona può ucciderci tutti” ha affermato comparando il 2007 (anno in cui sono comparsi simultaneamente iPhone, Twitter, Facebook, YouTube e altre connettività che hanno consegnato un enorme potere nelle mani di ogni individuo) all’anno dell’introduzione della stampa.
Beh, il grafico che ne risulta è questo:

Grazie alla legge di Moore la tecnologia si è sviluppata ben oltre le nostre capacità di adattamento. A questo punto bisogna riportare il pensiero di Stewart Brand, guru della Silicon Valley: “Puoi cercare di cambiare la testa alla gente, ma perderai solo il tuo tempo. Quello che puoi fare è cambiare gli strumenti che usa. Fallo e cambierai la civiltà”.

Capito? Fai schizzare la tecnologia oltre i limiti del comprensibile e la gente si ritroverà con una black box di cui non capisce nulla ma da cui si fa volentieri manovrare grazie al fatto che è spacciata per fichissima. E’ così che cambia la civiltà, passando da una fase in cui si interagiva con il reale all’attuale periodo di interazione con il virtuale. Sì, il presente (ed il futuro, temo) è digitale. La gente in questo modo, secondo i vecchi canoni analogici, diventa più idiota, e quando questo salta fuori qualche guru ci informa che i test non valgono nulla perché non tengono in considerazione il virtuale, ovvero il potere del digitale. E’ il nuovo che avanza, bellezza!

All’interno di questa farsa non può mancare l’excusatio non petita. Tim Cook, AD di Apple, si lamenta che “le persone stanno troppo tempo sull’Iphone. Non abbiamo mai voluto che le persone esagerassero, pensiamo come aiutarle”. Al cahier des doléances si aggiunge anche la voce di Zuckerberg: “Eravamo nati per migliorare il mondo, c’è invece chi ci usa per peggiorarlo”.

Vi ricordate le lacrime della Fornero? Qui le lacrime scorrono come fiumi. Loro ce l’hanno messa tutta e….sempre nel solito posto.

Wiki ci informa che il test del QI del 1997 prevedeva 14 gruppi di problemi di cui 7 verbali (Informazione, Comprensione, Ragionamento aritmetico, Analogie, Vocabolario, Memoria di cifre e Ordinamento di numeri e lettere). Non deve quindi destare meraviglia se secondo Tullio De Mauro, noto linguista, gli analfabeti funzionali in Italia sarebbero addirittura l’80 per cento, dal momento che “soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”.

I due aspetti, il QI e l’analfabetismo funzionale, sono ovviamente correlati.
Secondo la definizione del rapporto Piaac-Ocse, un analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto quello che legge in maniera acritica, non riuscendo a “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.

Secondo lo Human development report 2009 in Italia il 47 per cento degli individui è analfabeta funzionale, portando le percentuali di De Mauro a valori minori, ma sempre preoccupanti.

La novità consiste nel fatto che mentre una volta venivano dichiarati analfabeti funzionali le persone che non erano in grado di districarsi tra computer, smartphone e web, oggi l’idiozia corre sul filo di una tecnologia sempre più pervasiva che riesce a fare da substrato culturale dove può attecchire qualsiasi pretestuoso comportamento. “Lei è un webete!” di Mentana descrive chi, “già idiota di suo, accende un PC e usa una tastiera” secondo una definizione appropriata.

Ovviamente a fornire tale substrato culturale è stato sguinzagliato un esercito di professionisti tra cui spiccano gli opliti del software, i centurioni dell’hardware che offrono spazi tecnologici dove chiunque può cimentarsi nell’affogare con le proprie mani qualsiasi buon senso, fatto che i legionari di media, social e web non possono che sostenere nel nome di quella moltiplicazione di Moore dei servizi individuali che puzzano di Progresso e Civiltà.

Il meccanismo a spirale che coinvolge tecnologia e idiozia è semplice: quando si dotano le persone di attrezzature che li rendono apparenti principi del virtuale e grazie all’idea che sia strafico usare le nuove tecnologie, queste persone tagliano i ponti con le culture precedenti che avranno avuto sì dei difetti ma almeno offrivano bussole utili ad orientarsi. Mancando quelle bussole mancano ovviamente i valori a cui facevano riferimento, che vengono rimpiazzati da attenzioni verso situazioni che poco hanno a che vedere con il mondo condiviso.

Basti pensare a foto, filmati e commenti assolutamente insensati che intasano i social e che si posizionano in netta contrapposizione rispetto a valori antichi come sobrietà e morigeratezza. E’ il trionfo del solipsismo thatcheriano: non esistono le società, esistono solo gli individui. Vietato parlare di relazioni e di buon senso nella postmodernità dominata dal neoliberismo. Tutto va ricondotto all’individuo, a cui viene consegnato un immenso potere digitale così come sostiene Friedman. Desocializzato e svincolato da ruoli precostituiti, ogni individuo si crede l’ombelico del mondo e si comporta di conseguenza, confortato dalla immensa mole di risorse che il digitale ha messo a sua disposizione.

“I believe that the horrifying deterioration in the ethical conduct of people today stems primarily from the mechanization and dehumanization of our lives” (Sono convinto che l’orribile deterioramento nei comportamenti etici delle persone tragga origine principalmente dalla meccanizzazione e disumanizzazione delle nostre vite) A. Einstein

 

Tonguessy

Fonte: www.comedonchisciotte.org

05.03.2019

 

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