DI NADIA DJABALI
Basta!
I fondi speculativi cominciano ad interessarsi del fondiario. Dal Brasile all’Indonesia, dal Madagascar all’Ucraina si accaparrano milioni di ettari accanto a multinazionali o a Stati ricchi che mancano di terreni da coltivare. La corsa all’accaparramento delle terre sembra essere partita. I piccoli agricoltori espropriati e le comunità autoctone represse sono i primi a subirne le conseguenze. E domani?
Un nuovo problema preoccupa le organizzazioni contadine e non governative: la corsa all’acquisizione di vaste superfici di terra coltivabile lanciata da Stati, da multinazionali e, da qualche mese, da fondi speculativi. L’ONG Grain (per Genetic Resources Action International), con base a Barcellona, ha perciò dato vita ad una quotidiana vigilanza mondiale e ad un blog che recensisce gli articoli di stampa su questo tema.
Redditività del 400%
Attualmente milioni di ettari vengono acquistati o affittati nei paesi poveri da parte di governi, multinazionali e investitori privati. Conseguenza di questo vasto movimento: le terre fertili sono privatizzate e concentrate nelle mani di un solo proprietario con annessa espulsione dei piccoli coltivatori e la scomparsa dei loro mezzi di sussistenza. L’ora è grave, soprattutto considerando che a livello mondiale la fame è la principale causa di mortalità e che essa è legata alle difficoltà di accesso alla terra.
A metà settembre 2008 il direttore generale della FAO, il senegalese Jacques Diouf, ha annunciato che 920 milioni di persone soffrono la fame, contro gli 850 milioni precedenti all’impennata dei prezzi. Il 70% di essi sono contadini. Nello stesso tempo, l’aiuto alimentare internazionale è caduto nel 2008 al livello più basso degli ultimi 40 anni.
Governi, grandi imprese e fondi speculativi non hanno tutti i medesimi obiettivi. I primi – Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, tra i principali – sperano di assicurare la sicurezza alimentare alle loro popolazioni lanciandosi nella produzione di cereali o di carne piuttosto che ricorrere alle importazioni che sono soggette alle fluttuazioni delle quotazioni mondiali. Le multinazionali e i fondi speculativi, aiutati dalla crisi finanziaria, hanno abbandonato i mercati dei derivati per rivolgersi verso questo nuovo eldorado. “In numerose parti del mondo, i prezzi alimentari sono alti e i prezzi delle terre bassi. – spiega l’ONG Grain – Si può dunque chiaramente guadagnare denaro assumendo il controllo dei suoli migliori, vicini alle risorse idriche”. L’orizzonte degli investimenti è in media di 10 anni, naturalmente con l’obbligo di sfruttare la terra e di costruire i silos e le strade necessarie all’esportazione dei raccolti. I ritorni sugli investimenti sono valutati tra il 10 e il 40% all’anno per le aziende situate in Europa e possono raggiungere il 400% in Africa.
Sono i governi che in un primo tempo negoziano gli accordi di “cooperazione agricola” con i paesi fornitori di terre. Il settore privato verrà poi incaricato della messa in opera.
Petrolio in cambio di cibo
La Cina ha così acquisito 2,1 milioni di ettari (l’equivalente della Slovenia) in America del Sud, in Africa, nel Sud-Est asiatico e in Australia. L’Impero di Mezzo vede le proprie superfici agricole scomparire a mano a mano che l’industria avanza e richiede risorse d’acqua sempre crescenti. Con riserve valutarie stimate in 1800 miliardi di dollari, la Cina ha denaro a sufficienza per onorare la trentina di accordi di cooperazione agricola conclusi negli ultimi anni. Dal Kazakhistan al Queenslan (Australia) e dal Mozambico alle Filippine, le imprese cinesi coltivano riso, soia, mais, canna da zucchero, manioca, sorgo, in cambio di tecnologie, di formazione e di fondi per lo sviluppo di infrastrutture.
Le monarchie del Golfo possiedono ormai circa 3 milioni di ettari in Sudan, in Pakistan o in Indonesia. A seguito dell’aumento dei prezzi alimentari sul mercato mondiale ed alla caduta del dollaro, i paesi del Golfo hanno visto, in cinque anni, balzare da 8 a 20 miliardi di dollari i costi delle loro importazioni. L’Arabia Saudita ha annunciato il 23 febbraio scorso di volere investire in Africa del Sud e nelle Filippine per coltivare banane, manghi, ananas, riso, mais e carne bovina.
Queste derrate saranno tutte destinate al mercato saudita. Israele prepara una visita ufficiale in Cambogia per il 16 marzo. “Penso che cerchino terre coltivabili per fare crescere riso e legumi” ha commentato Nguon Meng Tech, direttore generale della camera di commercio cambogiana.
Gentlemen farmers?
L’acquisizione di proprietà da parte delle imprese e dei fondi speculativi è una novità. Questa evoluzione data di qualche mese, da quando sono crollati i mercati finanziari. La Deutsche Bank e Goldman Sachs possiedono aziende agricole e industrie di carne in Cina. La banca d’investimenti Morgan Stanley è proprietaria di 40.000 ettari in Ucraina, il granaio d’Europa. Il fondo speculativo russo Renaissance Capital possiede 300.000 ettari, sempre in Ucraina. L’impresa lituana Agrowill, le svedesi Alpcot Agro e Black Earth Farming investono massicciamente in Russia. Il fondo d’investimento americano Black Rock annuncia la costituzione di un fondo speculativo agricolo da 300 milioni di dollari, di cui 30 milioni dedicati all’acquisto di nuove terre. Il britannico Dexia Capital spera di comprare 1,2 milioni di ettari di steppe russe. La società francese Louis Dreyfuss Commodities, che possiede 60.000 ettari in Brasile, è al momento interessata dall’acquisto o affitto di terre in Nigeria e nell’Africa sub-sahariana. La mappa delle recenti acquisizioni è stata compilata dall’ONG Grain:
“La terra è diventata una risorsa rara. Il cambiamento climatico genera una desertificazione a ritmo accelerato. Centinaia di migliaia di terre arabili spariranno nei prossimi anni – ha spiegato al quotidiano online Mediapart Olivier de Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione. – D’altra parte, la terra coltivata è sfruttata, in conseguenza di un’agricoltura intensiva e del ricorso sistematico a concimi chimici. Parallelamente, aumenta la domanda di materie prime agricole, in ragione dell’aumento della popolazione mondiale, ma anche della modificazione delle abitudini alimentari”. Poiché quello che è raro costa caro, ciò si traduce in previsioni di mercato di un aumento dei prezzi delle derrate alimentari, di fruttuosi investimenti e di una accentuata pressione per ottenere terre agricole.
Manna finanziaria per i paesi del Sud?
I governi dei paesi fornitori di terre vedono questo fenomeno decisamente di buon occhio. Difendono questi progetti spiegando alle loro popolazioni che questa manna finanziaria permetterà la costruzione di strade e infrastrutture. La maggior parte degli accordi di cooperazione comprendono anche programmi di ricerca tendenti a migliorare i rendimenti agricoli. In un contesto di crisi alimentare mondiale, la retorica utilizzata è quella del “win-win” che valorizza le politiche di sviluppo. Ora, qui non si tratta né di sviluppo rurale né di sovranità alimentare, ma di sviluppo agro-industriale. Secondo Grain, quest’ultimo ha “generato povertà e distruzione dell’ambiente e ha esacerbato la perdita di biodiversità, l’inquinamento da prodotti chimici agricoli e la contaminazione delle colture da organismi geneticamente modificati”.
Le cattive notizie non giungono mai sole: la Banca mondiale e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERD) guardano al movimento con molto interesse e consigliano i governi di modificare la propria legislazione fondiaria affinché gli investitori stranieri possano acquisire le terre più facilmente. Eppure, numerosi paesi bersaglio, come è il caso del Kenya, della Tanzania o del Madagascar, sono importatori netti di derrate alimentari. “La Cambogia, che affitta per 600 milioni di dollari al Qatar e al Kuweit, ha beneficiato del Programma alimentare mondiale per 35 milioni di dollari per combattere la fame”, ribadisce Grain.
Il 4% dei proprietari possiede la metà delle terre
Nel Madagascar, 600.000 persone dipendono da aiuti alimentari. Le recenti sommosse che hanno infiammato l’isola sono state scatenate dall’annuncio dell’affitto di 1,3 milioni di ettari – la superficie dell’Ile-de-France – per 99 anni all’impresa sud-coreana Daewoo Logistic, che sperava di produrre 4 milioni di tonnellate di mais e 5 milioni di tonnellate di olio di palma per il mercato sud-coreano. Per ora Daewoo ha sospeso le trattative con il governo e i suoi negoziatori sono partiti senza lasciare l’indirizzo. Per quanto tempo?
L’affare pone il problema della proprietà della terra. In numerosi paesi africani ed anche sud-americani, non esistono titoli di proprietà [1]. I coltivatori corrono quindi il rischio di essere espropriati di una terra che occupano da numerose generazioni. Questi contadini senza terra andranno ad ingrossare le bidonvilles che circondano le grandi metropoli del terzo mondo. “Bisogna esplorare sistemi alternativi di proprietà che, ad esempio, riconoscano i diritti comuni sulle terre. Si potrebbe immaginare che i diritti dei coltivatori siano riconosciuti, per proteggerli dall’espropriazione, vietando loro di vendere la terra senza l’assenso preventivo della municipalità o della comunità”, aggiunge Olivier de Schutter.
A livello mondiale, il 4% dei proprietari fondiari è alla testa della metà delle terre coltivate. Tuttavia, la lunga sfilza di studi prodotti in campo agricolo hanno dimostrato che le piccole coltivazioni sono più redditizie delle grandi coltivazioni industriali. Uno studio ha dimostrato che in Turchia le aziende famigliari di meno di un ettaro producono proporzionalmente venti volte più di quelle superiori ai 10 ettari.
Che ne sarà dei movimenti che lottano per una vera riforma agraria e per il diritto delle popolazioni autoctone? In Cile, ad esempio, gli indios Mapuche si battono da decenni per difendere la foresta, che è il loro unico mezzo di sostentamento. Sono in conflitto con le multinazionali del legname e sono vittime di assassini, di arresti, di torture e di sorveglianza continua. In Indonesia, dove i movimenti contadini vengono criminalizzati, 22 milioni di famiglie sono state cacciate dalla loro terra.
Per ora, Grain si interroga. A lungo termine, quali saranno le conseguenze economiche, sociali e ambientali di questo fenomeno di accaparramento di terre? E’ troppo presto per dirlo. Ma questa nuova tendenza è inquietante, soprattutto se si conoscono i progetti di privatizzazione e di manipolazione genetica delle sementi che caratterizzano certe multinazionali.
NOTE
[1] In Brasile, un progetto di “cartografia sociale” tende, tra l’altro, ad impedire le espropriazioni di comunità indiane o rurali che occupano una zona.
Titolo originale: “ Le fonds spéculatifs s’attaquent à l’agriculture”
Fonte :www.bastamag.net
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20.03.2009
Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS