DA PIAZZA NAVONA ALLA GIUNGLA COLOMBIANA

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blankDI FULVIO GRIMALDI
Mondocane Fuorilinea

LAVATI CON “DIRITTI UMANI” E GALATEO, ANCHE I CAPI GRANDI SI RESTRINGONO. FIGURIAMOCI QUELLI PICCOLI.

Il libro “Mamma, ho perso la
sinistra”: convergenze, obbedienze, connivenze di una Sinistra ex, Malatempora editrice, e il lungometraggio
“L’asse del bene: Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador”, sulle
grandi avanzate dei popoli indio-afro-latinoamericani,
vi hanno risparmiato per qualche mese le intemperanze
di questa rubrica. Ma è proprio il fatto che, descrivendo nel documentario
soprattutto le gloriose conquiste di alcuni stati del Centro- e Sud-America e dei loro capi, recenti avvenimenti in
quell’area e tra quei personaggi mi impongono di
integrare l’apologia con un pensierino critico. Tanto
per ristabilire l’equilibrio con un minimo di onestà intellettuale e di
disponibilità alla critica, anche dei migliori e più cari. Ne parliamo
dopo.

La fattispecie degli integralisti,
veri, non di uno qualunque del miliardo di musulmani,
è immortale. E ahimè spesso sorretta da assoluta buona fede e generosi intenti.
Una volta, in un congresso di Italia-Cuba, si erse
indignato contro il relatore che rilevava, nel quadro di
un’immenso apprezzamento, qualche incrostazioncella burocratica a Cuba, qualche disagio
giovanile, un irriducibile paladino di Cuba si erse a urlare: “Ma che,
sei della CIA?” Analogamente, in un’assemblea dell’Ernesto,
la componente del PRC in cui militavo, una delle campagne considerate più in
gamba osservò che, “forse, Fausto Bertinotti è un po’
anticomunista”. Fu severamente redarguita, come per lesa maestà, dal muselide che guidava il gruppo, Claudio Grassi, il quale dopo aver calmierato per anni l’opposizione
da sinistra al rinnegato in cachmere, per questi
meriti approdò in parlamento e al voto per la distruzione
dell’Afghanistan del welfare. Ieri partecipavo alla riunione di un gruppo
di ottimi compagni del Movimento per la Costituente Comunista.
Nel giro di interventi per rimettere in piedi qualcosa
che assomigliasse a un embrione di rilancio comunista, si levò a parlare un
bravo, appassionato compagno, di non implume età, per dire che “No!
Assolutamente no. Manco per niente  sono stato in Piazza Navona da Di
Pietro. Che c’entro io con Di Pietro!”

E dove eri? “Stavo a casa!”.

 

Il compagno, in
rossissima maglietta e voce tonante, mi faceva sgorgare nella mente quel
personaggio di Carlo Verdone che, facendone il padre, gridava al figlio sbambocciato in hippie, “So’ comunista io! So’
comunista COSI’!”. Il compagno in rossa indignazione alla
mera idea di poter stare sotto un palco di Di Pietro,
merita ogni stima e tutto l’affetto. Anche perché segmento di un filo
rosso che si dipana per tanto tempo, tanti affanni, e tante battaglie. Ma che ha anche finito con l’attorcigliarsi su se
stesso e su tutto, fino a confondere vista, pensieri, prospettive. Intanto il
comunista non spappolato in bertinottismo, grupettarismo autoreferenziale e romanamente
compromissorio, quando c’è una piazza, ci insegnano

Marx, Lenin e il buonsenso, non sta a casa, ma va
dove stanno le masse. Per Gramsci, qualunque esse fossero, visto che al nemico
non si regala nulla e di nessun uomo esiste una versione scontata. Ma poi,
porcaccia la miseria, nella rarefazione delle sinistre, intese a raccogliere i
cocci,  a
rianimare zombie, o a incollare detriti, questo Di Pietro, e Micromega e i girotondini e Travaglio (ottimo in Italia,
pessimo per l’esterno) e Grillo (urlatore contro, dai piedi politici
d’argilla) e Sabina Guzzanti, non avevano sopperito alla grande riunendo
in piazza decine di migliaia, molti con le bandiere rosse, per sputare sulla
banda dei quattro tutto il vomito che la sinistra vera condivide per
l’oscena  marmaglia e urlare tutta
l’opposizione alla sua fascistizzazione mafiosa e imperialista? Perché,
se papà non ci spegne l’incendio della casa perché si sta facendo delle pippe (o le fa alla banda dei
quattro, rifiutiamo l’aiuto del vicino dipietrista?
Ci rendiamo conto che così si sta più vicini agli inviperiti dell’establishment di Musharraf-Veltroni,  di Papadopulusconi

e di quel Catzinger giustamente castigato da Sabina?
Ai pipini sul bagnasciuga che squittiscono di buone
maniere, ai terrorizzati dalle piazze (ultima spiaggia), ai delinquenti punti
nella fedina e nella carriera penale, agli apologeti, costi quel che costi, di
un capo dello Stato che da una vita naviga negli anfratti sottocosta e che
firmerebbe anche una consegna di uova marce, ai chierichetti – altro che
fondamentalisti islamici – di quel Patzinger
che, per come è addobbato, sembra Santa Rosalia in
processione?

 

Nove decimi di quel che veniva esposto in quella piazza, rimbombando nel vuoto della
complicità bipartisan universale con la imperialborghesia,
andava condiviso da comunisti. Ci rendiamo conto che siamo in piena emergenza
rifiuti? Non parlo di Napoli, ma di Papadopusconi e
di Facteltroni (Facta e
Veltroni, per chi avesse chiuso i libri di storia sull’agevolata vittoria
del fascismo). Che è emergenza libertà,
la prima in assoluto, ed emergenza sovranità,
con il paese occupato militarmente dal genocida universale e dai
suoi mercenari indigeni e consegnato imbavagliato all’oligarchia
burocratica pompa-ricchi di Bruxelles? E anche emergenza laicità, con una
classe dirigente a pecorone sotto il pastorale di Matzinger?
E “il manifesto” che fa? Indugia, riflette, sospira, riferisce,
cita. “Liberazione” del buonmanierista Sionetti, famoso per l’ apologo
per il “nostri quattro ragazzi rapiti in Iraq”, l’ho visto
l’ultima volta nelle soddisfatte mani di Olmert.

 

Ingrid Betancourt
non ha esternato che ottima salute, gran forma (confrontatela con i sequestrati
da Uribe), e poi una gragnuola
di cazzate, vergognosi opportunismi, leccate al fantoccio narcofascista
che stermina la sua gente, avallo a una delle massime bufale della
storia latinoamericane, quella della sua liberazione per audace blitz uribesco. Le è sfuggita una sola
cosa del tutto condivisibile, ma magari anche questa di puro opportunismo
gallico: quando ha detto che avrebbe voluto anche lei dare a Materazzi una testata come quella di Zidane.
Solo che Zidane, da prigioniero del calcio è
diventato uomo libero. Lei, da prigioniera di guerriglieri è tornata, sì,
stella dell’oligarchia, ma anche ostaggio dell’oligarchia

criminale filo-yankee. Una signora della buona società
colombiana, quella moderata, sottobraccio al più brutale serial killer del
continente. Ricorda Woytila sul balcone con
Pinochet. Ricorda Joe Ratzinger quando, avvinghiato da Bush, propone gli Usa
come “modello etico del mondo”.

Il personaggio, ormai elevato
all’empireo del mito e dunque decisivo sostenitore del terzo mandato del
macellaio presidente, a dispetto del mare di corruzione, narcotraffico e stragi
paramilitari in cui lo affoga la magistratura, è stato accarezzato anche dal “manifesto”.
“Manifesto” il quale, dopo essersi lavato pure con i detersivi
tossici Hillary e Barack, a  inabissarsi nel mastello dei
simpatizzanti non ci ha messo niente. Del resto non avevano tutti costoro anche
accreditato l’altra mitica vicenda: quella della liberazione delle due
Simone in Iraq, prestatesi davanti al regista Scelli
della C.R.I., a improvvisare una liberazione in diretta? Non avevano condiviso
i lamenti sulla repressione dei monaci tibetani che, poverini, non avevano che
dato fuoco su commissione Usa a qualche negoziante cinese.

 

Sono decenni che voglio bene a Fidel
Castro, che lo ammiro infinitamente, che lo sostengo per ogni dove e contro
ogni depravazione diffamatoria e falsificatrice. Per questo ci ho rimesso anche
il posto di lavoro a “Liberazione” e rimediato la mannaia del Veltrinotti. E’ da quando guidò una rivolta di popolo
per il pane, che ammiro e seguo Hugo Chavez, ne
frequento il paese, la rivoluzione, i fenomenali rivolgimenti sociali e
geopolitici. Chi segue queste mie tiretere lo sa. Milito
in un’associazione che esiste in difesa di Cuba e della sua rivoluzione e
che, analogamente, sostiene i processi di emancipazione dell’America
Latina. Non mi si venga perciò a fare  bucce cretine, come quel fanatico del
congresso di Italia-Cuba. E’ semplicemente
tanto doveroso quanto scontato che da compagno a compagno si pongano  in questione valutazioni divergenti, passi
giusti o falsi. Magari l’uno convince l’altro, o viceversa. Magari
ci si rende meglio conto tutti quanti. E allora, mi sia consentito, e anche se
non lo fosse, ecco alcune domande a coloro che in tanti consideriamo

i nostri comandanti rivoluzionari. Non siamo né alla Lubianka,
né nel salotto di Bertinocchio, né alla mercé di Patzinger.

 

Caro Fidel,

prima hai detto che era tempo che le FARC
la smettessero, poi ti sei corretto e hai negato di voler suggerire a qualcuno
di deporre le armi. E vorrei vedere. In Colombia ci stanno le FARC e un popolo
massacrato. Mica tu. Hai anche opportunamente ricordato, tra non molti, le
mattanze di contadini per mano dell’oligarchia. Hai deplorato le crudeli
condizioni nelle quali si troverebbero i “sequestrati” della
guerriglia, ma non ti sei ricordato di dire qualche parola sugli oltre 500
militanti delle FARC, organizzazione marxista rivoluzionaria, in piedi da mezzo
secolo, che marciscono da anni nelle orrende galere speciali
di Uribe e degli Usa. Sono “ostaggi” i
prigionieri dell’esercito di liberazione colombiano, in maggioranza
esponenti dell’esercito, del narcoparamilitarismo

di Uribe, del regime fascista?  E sono innominabili coloro che, tra tortura e
carcere a vita, pensano alla Colombia e all’America Latina come a una
grande Cuba? E’ crudele la condizione di Betancourt
e degli altri prigionieri e non degna di una menzione quella di chi, anche nel
tuo nome, ha lottato e ha perso?

 

La canea mondiale contro le FARC
– stesso paradigma satanizzante monotonamente
ripetuto contro chiunque intralci la via ai licantropi della resa dei conti
finale – non ha forse ricevuto dalle tue parole, come da quelle di Chavez, che prima riconosce le FARC e poi ne prende le
distanze e gli intima di arrendersi, grande, terribile conforto?

 

Hai opinato che la consegna
incondizionata dei prigionieri delle FARC, senza contropartita (avresti mai
consigliato questo abbandono dei compagni carcerati di
qualsiasi rivoluzione, compresa la tua?) avrebbe potuto aprire il capitolo
della pace in Colombia. Quale pace? La pace di un popolo decimato, di
un’opposizione politica e sindacale massacrata (20mila tra sindacalisti e
oppositori), di un feudalesimo onnivoro, di un mercatismo
draculiano, dei briganti mercenari israeliani e
statunitensi che scovano oppositori per la garrota uribiana, di un parlamento al 30% in carcere o sotto
inchiesta per narcoparamilitarismo, quasi fossimo in
Italia? Tu e Hugo (il quale così ha perso uno sgomento pezzo di sinistra, cosa
non proprio utile nella congiuntura che vede la
IV Flotta USA e gli infiltrati reazionari riattivati
contro la rivoluzione) consigliate alle FARC di intraprendere il processo politico
a scapito di una popolazione contadina che solo dalle FARC ha avuto protezione
contro l’esclusione e le stragi  del regime? Vi siete scordati che non
sono passati molti anni da quando le FARC fecero proprio questa scelta e la
loro Unione Patriottica fu spazzata via come da fosforo bianco USA: 5000
attivisti e simpatizzanti del partito assassinati. C’è proprio da
riprovare, ora, sotto Uribe, sotto Bush. E come se
non verrà la pace. La pace del terrorismo di massa praticato
dal narcofantoccio, non tanto contro le FARC, quanto
contro i poveri, i lavoratori, i giovani del paese. La pace del
sabotaggio terroristico e militare dei paesi progressisti. La pace di un narcostato, come quelli che l’elite finanziaria USA
sta coltivando ovunque: Kosovo, Afghanistan, ora anche Iraq. Chavez ha dichiarato che, dopo averla interrotta anni fa, è
ora pronto a riprendere la collaborazione con gli organismi antidroga
statunitensi. Con quella DEA e quella CIA che della narcoproduzione e del narcotraffico (un triliardo

di dollari all’anno nelle banche USA) hanno fatto la ragione sociale
principale? Non è caduto proprio dalle tue parti, caro Fidel, tre mesi fa, un
aereo Cia con 40 chili di cocaina colombiana a bordo?

 

Ma come, Fidel, hai
combattuto una guerriglia per anni, commettendo anche apparenti errori e
prendendo granchi, a volte corretti dal gran culo. Hai sostenuto i
“fuochi di guerriglia” per tutto il continente e ora auspichi una
pacificazione che porta a un “centrosinistra moderato” e
beneducato, pensandolo possibile con la consegna del più grande movimento
guerrigliero continentale nelle mani di un aguzzino corrotto e venduto, peggio
di Pinochet? E senza una rottura drastica, un totale
rovesciamento? Tutto quello che sta avvenendo di buono in America Latina, cari
Fidel e Hugo, è il frutto di lotte per niente nonviolente e pacifiche. Masse di
popolo con armi improprie (sempre armi sono), con l’avanguardia
dinamitarda dei minatori e la guerriglia annosa degli indigeni, hanno cambiato
la faccia di Bolivia e Ecuador, hanno rimesso nel
palazzo presidenziale te, Hugo, avevano vinto una guerra in Nicaragua (poi
persa “politicamente”), in Messico impegnano,
nell’occultamento generale, i mezzi e i gendarmi dell’usurpatore (
e non si parla ovviamente dei pacificissimi

“zapatisti”). E non basta. Le più grandi difficoltà
all’imperialismo del Nord del mondo, in preda a bulimia da bancarotta,
gliele oppongono le indomabili guerriglie di Iraq e Afghanistan, quella
anch’essa taciuta nelle Filppine delle meretrice degli Usa, Arroyo.
In Nepal, cuore geostrategico dell’Asia
centrale, ha vinto la guerriglia e dopo aver vinto e
spazzato via il regime, solo allora, sono entrati nella politica parlamentare. Si
potrebe andare avanti per ore, nella storia e nel
presente.

 

Penso che Fidel e Hugo dovrebbe
riflettere sulla vicenda Togliatti-Berlinguer-Occhetto-Bertinotti-Veltroni-sinistre
italiane: più ti sposti a destra e più ti si mangiano vivi. Ci saranno a quelle
altezze, consapevolezze che magari noi quaggiù non percepiamo.
Considerazioni relativi alla congiuntura, alla
priorità di un’America Latina rosa e tollerabile per l’impero, ma
almeno non bombardata. Insomma la celebre “ragion di Stato”. Ma
quella, ahinoi, rischia di portarci dritti dritti a Yalta, alla consegna al capitalismo di metà
del mondo nel nome della “coesistenza pacifica”. Bene di governi,
quasi mai di popoli. Pace? Pace degli arresi. Pace che inaridisce i semi
gettati dal Che dappertutto e in Bolivia. Semi rifioriti nelle fucilate tra
golpisti e patrioti a Caracas, nella marcia dei sandinisti, tra gli scoppi dei
candelotti di dinamite degli assalti ai palazzi di La Paz e Quito, sulle
magliette col Che dei guerriglieri libanesi e iracheni.

 

Certe mediazioni, miei comandanti,
non portano bene. Lo diciamo modestamente, intrisi di affetto e solidarietà, ma
lo diciamo dal fondo del pozzo delle  mediazioni. 

Fulvio Grimaldi
Mondocane Fuorilinea
14.07.2008

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