COME HANNO FATTO GLI ECONOMISTI A SBAGLIARE COSI' ?

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DI PAUL KRUGMAN
New York Times Magazine

I.
SCAMBIARE LA BELLEZZA PER LA VERITA’

E’ difficile ora crederlo,
ma non molto tempo fa gli economisti si congratulavano tra loro per
il successo ottenuto dal loro settore. Quei successi – almeno così
credevano – erano sia teorici che pratici e hanno portato ad un’epoca
dorata per il mestiere. Sull’aspetto teorico, essi pensavano di aver
risolto le proprie dispute interne e perciò, in un saggio del 2008
dal titolo “The State of Macro” (vale a dire la macroeconomia, lo
studio delle grandi tematiche come le recessioni), Olivier Blanchard
del M.I.T, ora responsabile economico presso il Fondo Monetario Internazionale,
affermava che “la condizione della macroeconomia è buona”. Le battaglie
di ieri, scriveva, sono finite, e vi è stata “un’ampia convergenza
di visioni”. Nel mondo reale, gli economisti hanno creduto di avere
le cose sotto controllo: “il problema centrale della depressione-prevenzione
è stato risolto” dichiarava Robert Lucas dell’Università di Chicago
nel suo discorso di insediamento nel 2003 come presidente dell’American
Economic Association.

L’anno scorso, tutto si è
spezzato.

Nel 2004, Ben Bernanke, ex docente a Princeton
e ora presidente del consiglio di amministrazione della Federal Reserve,
festeggiò la Grande Moderazione nelle prestazioni economiche nel corso
dei due decenni precedenti, che egli attribuì in parte ad una serie
di politiche economiche migliorate.

Pochi economisti hanno visto
arrivare la crisi attuale, ma questo insuccesso nelle previsioni è
stato il problema minore del settore. Ben più importante è stata la
cecità del mestiere di fronte alla possibilità stessa di disastri
catastrofici in un’economia di mercato. Nel corso degli anni d’oro,
gli economisti finanziari giunsero a credere che i mercati fossero intrinsecamente
stabili – che le azioni e gli altri beni avessero sempre il prezzo
giusto. Non c’era nulla nel modello prevalente che indicasse l’eventualità
del genere di crollo che è avvenuto lo scorso anno. Nel frattempo,
i macroeconomisti si sono divisi sulle proprie opinioni. Ma la divisione
principale è stata tra coloro che insistevano sul fatto che le economie
di libero mercato non sarebbero mai andate fuori rotta e coloro che
credevano che le economie potessero smarrirsi ogni tanto ma che ogni
grossa deviazione dal cammino della prosperità potesse e sarebbe stata
corretta dall’onnipotente Fed. Nessuna delle due fazioni era preparata
a far fronte ad un’economia che è deragliata dai binari nonostanti
tutti i migliori sforzi della Fed.

Negli strascichi della crisi,
le linee difettose del mestiere di economista hanno sbadigliato più
rumorosamente che mai. Lucas afferma che i piani di incentivi dell’amministrazione
Obama rappresentano un’“economia da due soldi” e il suo collega
di Chicago John Cochrane dice che sono basati su “favolette” screditate.
In risposta, Brad DeLong dell’Università della California a Berkeley
parla di “tracollo intellettuale” della Scuola di Chicago e io stesso
ho scritto che i commenti degli economisti di Chicago sono il prodotto
di “un periodo buio” della macroeconomia nel quale il sapere ottenuto
così duramente è stata dimenticato.

Che cos’è successo al mestiere
di economista? E qual è il suo futuro?

Per come la vedo io, la professione
economica è andata fuori rotta perché gli economisti, intesi come
gruppo, hanno scambiato la bellezza, rivestita di matematica di grande
effetto, per la verità. Fino alla Grande Depressione, la maggior parte
degli economisti era aggrappata ad una visione del capitalismo come
un sistema perfetto o quasi. Quella visione non era sostenibile di fronte
ad una disoccupazione di massa, ma i ricordi della Depressione si sono
sbiaditi e gli economisti si sono innamorati di nuovo della vecchia
e idealizzata visione di un’economia nella quale gli individui razionali
interagiscono in mercati perfetti, questa volta addobbati di stravaganti
equazioni. La rinnovata storia d’amore con i mercati idealizzati era
sicuramente in parte una risposta ai venti politici che stavano mutando
e in parte una risposta agli incentivi finanziari. Ma mentre gli anni
sabbatici alla Hoover Institution e le opportunità di lavoro a Wall
Street non sono affatto da disprezzare, la causa principale del fallimento
del mestiere è stato il desiderio di un approccio onnicomprensivo ed
intellettualmente elegante che ha dato, inoltre, agli economisti una
possibilità di sfoggiare le loro abilità matematiche.

Purtroppo, questa visione romantica
e ripulita dell’economia ha portato la maggior parte degli economisti
ad ignorare tutte le cose che possono andare male. Hanno chiuso un occhio
sui limiti della razionalità umana che conduce spesso a cicli di 
espansioni e recessioni; sui problemi delle istituzioni che perdono
il controllo; sulle imperfezioni dei mercati – soprattutto i mercati
finanziari – che possono portare il sistema operativo dell’economia
a subire dei crolli improvvisi e imprevedibili; e sui pericoli creati
quando i regolatori non credono nella regolamentazione.

E’ molto più difficile dire
quale sarà il futuro della professione economica. Ma quello che è
quasi certo è che gli economisti dovranno imparare a convivere con
il disordine. Cioè, dovranno riconoscere l’importanza del comportamento
irrazionale e spesso imprevedibile, far fronte alle imperfezioni spesso
idiosincratiche dei mercati e accettare il fatto che un’elegante “teoria
economica per ogni cosa” sia molto lontana. In termini pratici, questo
si tradurrà in consigli operativi più cauti – e con una minor propensione
a smantellare le salvaguardie economiche nella fiducia che i mercati
risolvano tutti i problemi.
 

II. DA SMITH A KEYNES E
RITORNO

La nascita dell’economia
come disciplina viene di solito accreditata a Adam Smith, che pubblicò
“La ricchezza delle nazioni” nel 1776. Nel corso dei successivi
160 anni si è sviluppata una grande quantità di teorie economiche,
il cui messaggio centrale era: fidatevi del mercato. Sì, gli economisti
ammettevano che c’erano dei casi in cui mercati potevano sbagliare,
dei quali il più importante era il caso degli “effetti esterni”
– costi che le persone impongono ad altri senza pagarne il prezzo,
come gli ingorghi del traffico o l’inquinamento. Ma la supposizione
di base dell’economia “neoclassica” (dal nome dei teorici di fine
diciannovesimo secolo che la elaborarono sulle idee dei loro predecessori
“classici”) era quella che dovremmo avere fiducia nel sistema del
mercato.

Questa fiducia, tuttavia, è 
stata mandata in frantumi dalla Grande Depressione. In realtà, persino
di fronte al crollo totale alcuni economisti insistevano sul fatto che
qualunque cosa accadesse in un’economia di mercato doveva essere giusto:
“Le depressioni semplicemente non sono il male” dichiarava Joseph
Schumpeter nel 1934 – nel 1934! Esse sono, aggiungeva, “le forme
di un qualcosa che deve essere fatto.” Ma molti, e alla fine la maggior
parte, degli economisti passarono alle idee di John Maynard Keynes sia
per una spiegazione di ciò che era avvenuto che per trovare una soluzione
alle depressioni future.

Keynes però, a dispetto di
tutto quello che potreste aver sentito, non voleva che il governo gestisse
l’economia. Egli descrisse la sua analisi nel suo capolavoro del 1936
“Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”,
come “moderatamente conservativa nelle sue implicazioni.” Egli voleva
mettere ordine al capitalismo, non sostituirlo. Ma sfidò il concetto
che le economie di libero mercato potessero funzionare senza un sorvegliante,
esprimendo un particolare disprezzo per i mercati finanziari, che egli
vedeva come dominati da speculazioni a breve termine con poca attenzione
per i fondamentali. E chiedeva un intervento attivo del governo –
stampando altra moneta e, se necessario, spendendo fortemente in opere
pubbliche – per combattere la disoccupazione durante le crisi.

E’ importante capire che
Keynes fece molto di più che uscirsene con delle audaci affermazioni.
La “Teoria generale” è un’opera di profonda e intensa analisi
– analisi che convinse i migliori e giovani economisti del periodo.
Tuttavia, la storia dell’economia dell’ultimo mezzo secolo è, in
buona parte, la storia della ritirata dal keynesianesimo e un ritorno
al neoclassicismo. Il risorgimento neoclassico fu inizialmente capeggiato
da Milton Friedman dell’Università di Chicago, che nel 1953 sosteneva
che l’economia neoclassica funzionava così bene come descrizione
del modo in cui funzionava realmente l’economia da essere “sia estremamente
utile che meritevole di maggiore fiducia.” E per quanto riguarda le
depressioni?

Il contrattacco di Friedman
contro Keynes iniziò con la dottrina conosciuta come monetarismo. I
monetaristi, di principio, non erano in disaccordo con l’idea che
un’economia di mercato avesse bisogno di una stabilizzazione ben ponderata.
“Siamo tutti keynesiani ora”, disse una volta Friedman, anche se
in seguito sostenne che si trattava di una citazione fuori contesto.
I monetaristi, tuttavia, sostenevano che una forma di intervento del
governo molto limitata e circoscritta – vale a dire, incaricare le
banche centrali di mantenere costante la crescita dell’offerta monetaria
nazionale, dell’ammontare del denaro contante in circolazione e dei
depositi bancari – è tutto quello che serve per impedire le depressioni.
In modo splendido, Friedman e la sua collaboratrice, Anna Schwartz,
sostenevano che se la Federal Reserve avesse fatto il proprio dovere,
la Grande Depressione non sarebbe avvenuta. In seguito, Friedman fornì
degli elementi contro qualunque sforzo del governo che portasse la disoccupazione
sotto al suo livello “naturale” (che si crede sia intorno al 4,8
per cento negli Stati Uniti). Le politiche eccessivamente espansionistiche,
egli prevedeva, condurrebbero ad una combinazione di inflazione e di
elevata disoccupazione – una previsione che era nata dalla stagflazione
degli anni Settanta, che fece aumentare molto la credibilità del movimento
anti-keynesiano.

Alla fine, tuttavia, la controrivoluzione
anti-keynesiana andò ben oltre la posizione di Friedman, che appariva
relativamente moderata in confronto a quello dicevano i suoi successori.
Tra gli economisti finanziari, la visione denigratoria di Keynes dei
mercati finanziari come dei “casinò” fu rimpiazzata dalla teoria
del “mercato efficiente”, la quale affermava che, con le informazioni
a disposizione, i mercati finanziari ottenevano sempre il prezzo corretto
dei beni. Nel frattempo, molti macroeconomisti rigettarono completamente
lo schema di Keynes per comprendere le crisi economiche. Per la Grande
Depressione, alcuni ritornarono all’idea di Schumpeter e di altri
apologeti, vedendo le recessioni come una cosa positiva, come una parte
delle regolazioni dell’economia verso il cambiamento. E anche coloro
che non erano disposti a spingersi così in là sostenevano che qualunque
tentativo di combattere una crisi economica avrebbe portato più danni
che benefici.

Non tutti gli economisti erano
disposti a percorrere questa strada: molti divennero dei presunti neo-keynesiani,
che continuavano a credere in un ruolo attivo per il governo. Tuttavia,
essi accettavano in larga parte l’idea che gli investitori e i consumatori
siano razionali e che i mercati, in generale, si comportino sempre bene.

Naturalmente, ci furono delle
eccezioni a queste tendenze: alcuni economisti sfidarono la supposizione
del comportamento razionale, misero in dubbio la convinzione che ci
si possa fidare dei mercati finanziari e sottolinearono la lunga lista
di crisi finanziarie che avevano avuto devastanti conseguenze economiche.
Ma stavano andando contro corrente, incapaci di progredire contro un
autocompiacimento dilagante e, ripensando al passato, ridicolo.
 

III.
FINANZA PANGLOSSIANA 
 
Negli anni Trenta i mercati finanziari, per ovvie ragioni, non godevano
di molto rispetto. Keynes li paragonava a “quei concorsi sui giornali
in cui i concorrenti dovevano scegliere le sei facce più graziose tra
un centinaio di fotografie e il premio in palio sarebbe andato al concorrente
che più si era avvicinato alla media delle preferenze di tutti i partecipanti;
cosicché ogni concorrente non deve scegliere quei visi che trova più
graziosi, ma quelli che pensa che presumibilmente attrarranno la fantasia
degli altri partecipanti.”

E Keynes la considerava una
pessima idea quella di permettere a simili mercati, nei quali gli speculatori
trascorrevano il loro tempo a rincorrersi a vicenda, a dettare importanti
decisioni economiche: “Quando lo sviluppo del capitale di un paese
diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile
che vi sia qualche cosa che non va bene.”

Tuttavia, intorno al 1970,
lo studio dei mercati finanziari sembrò essere stato assorbito dal
dottor Pangloss di Voltaire, il quale insisteva sul fatto che stiamo
vivendo nel migliore dei mondi possibili. La discussione sull’irrazionalità
degli investitori, delle bolle, della speculazione distruttiva era praticamente
sparita dai discorsi accademici. Il settore era dominato dall’”ipotesi
del mercato efficiente” divulgata da Eugene Fama dell’Università
di Chicago, la quale sostiene che i mercati finanziari fissano il prezzo
dei beni in modo preciso considerate tutte le informazioni disponibili
pubblicamente (il prezzo dell’azione di una società, ad esempio,
riflette sempre in modo accurato il valore della società considerate
le informazioni disponibili sui suoi ricavi, le sue prospettive commerciali
e così via). E negli anni Ottanta, gli economisti finanziari, in particolare
Michael Jensen della Harvard Business School, sostenevano che poiché
i mercati finanziari fissavano sempre il prezzo corretto, la cosa migliore
che i capitani d’azienda potessero fare, non solo per loro ma il bene
dell’economia, era massimizzare il prezzo delle loro azioni. In altre
parole, gli economisti finanziari credevano che dovremmo mettere lo
sviluppo del capitale della nazione nella mani di quello che Keynes
aveva definito un “casinò”.

E’ difficile sostenere che
questa trasformazione del mestiere sia stata guidata dagli eventi. E’
vero, i ricordi del 1929 stanno piano piano svanendo ma hanno continuato
ad esserci dei mercati al rialzo, con storie diffuse di eccessi speculativi,
poi seguiti da mercati al ribasso. Ad esempio, nel 1973-4, le azioni
persero il 48 per cento del loro valore. E il crollo borsistico del
1987 in cui il Dow crollò di quasi il 23 per cento in un giorno senza
alcun chiaro motivo, avrebbe dovuto sollevare almeno un po’ di dubbi
sulla razionalità dei mercati.

Quegli avvenimenti, tuttavia,
che Keynes avrebbe considerato come prova dell’inaffidabilità dei
mercati, fecero poco per attutire la forza di una bellissima idea. Il
modello teorico che gli economisti finanziari svilupparono supponendo
che ogni investitore soppesasse in modo razionale il rischio con il
premio – il cosiddetto Capital Asset Pricing Model (CAPM) – è meravigliosamente
elegante. E se si accettano le sue premesse è anche estremamente utile.
Il CAPM non solo vi dice come scegliere il vostro portafoglio ma, cosa
addirittura più importante dal punto di vista dell’industria finanziaria,
vi dice come stabilire un prezzo per i derivati finanziari, titoli su
titoli. L’eleganza e l’apparente utilità della nuova teoria ha
portato una sfilza di premi Nobel per i suoi creatori e molti dei suoi
adepti hanno ricevuto anche riconoscimenti meno prestigiosi. Armati
di questi nuovi modelli e di formidabili abilità matematiche – gli
utilizzi più esoterici del CAPM richiedono computazioni al livello
di uno studioso di fisica – tranquilli docenti delle business school
potevano e sono diventati cervelloni di Wall Street, portando a casa
stipendi di Wall Street.

Per essere onesti, i teorici
della finanza non accettavano l’ipotesi del mercato efficiente solamente
perché era elegante, comoda e redditizia. Essi produssero anche una
grande quantità di prove statistiche, che a prima vista sembravano
fortemente a sostegno. Ma queste prove erano di una forma stranamente
limitata. Gli economisti finanziari rararamente hanno posto la domanda
apparentemente ovvia (anche se la risposta non è così semplice) se
i prezzi dei beni avevano un senso considerati i fondamentali del mondo
reale, come i ricavi. Invece, hanno chiesto solamente se i prezzi dei
beni avevano senso considerati gli altri prezzi dei beni. Larry Summers,
ora principale consigliere economico dell’amministrazione Obama, una
volta prese in giro i docenti di finanza con una metafora sugli “economisti
del ketchup” che “hanno dimostrato che che le bottiglie da mezzo
chilo di ketchup da sempre vengono vendute esattamente al doppio delle
bottiglie da un quarto” e concludono da questo che il mercato del
ketchup è perfettamente efficiente.

Ma nessuna di queste prese
in giro né altre critiche garbate provenienti da economisti come
Robert Shiller di Yale sortirono molti effetti. I teorici della finanza
continuarono a credere che i loro modelli fossero sostanzialmente corretti,
così come molti altri che prendevano decisioni nel mondo reale. Tra
questi non fu da meno Alan Greenspan, che all’epoca era presidente
della Fed e sostenitore da lungo tempo della deregolamentazione finanziaria,
la cui opposizione agli appelli per gestire i prestiti subprime o far
fronte alla crescente bolla immobiliare facevano affidamento in buona
parte sulla convinzione che l’economia finanzaria moderna avesse tutto
sotto controllo. Ci fu un momento significativo nel 2005, durante una
conferenza tenuta in onore dell’incarico di Greenspan alla Fed, nella
quale un coraggioso partecipante, Raghuram Rajan (stranamente dell’Università
di Chicago) presentò un documento nel quale avvisava che il sistema
finanziario si stava accollando dei livelli di rischio potenzialmente
pericolosi. Venne deriso da quasi tutti i presenti – tra cui, a proposito,
Larry Summers, che rigettò i suoi avvertimenti definendoli “fuorviati”.

Nell’ottobre dello scorso
anno, tuttavia, Greenspan stava ammettendo che era in uno stato di “scioccante
incredulità” perché “l’intero edificio intellettuale” era
“crollato”. Poiché questo crollo dell’edificio intellettuale
era anche un crollo dei mercato del mondo reale, il risultato è stato
una grave recessione – la peggiore, sotto molti aspetti, dalla Grande
Depressione. Che cosa dovrebbero fare le istituzioni? Purtroppo la macroeconomia,
che avrebbe dovuto fornire una chiara linea di condotta su come affrontare
un’economia in crisi, stava vivendo il suo stato di subbuglio.
 

IV. IL PROBLEMA DELLA MACROECONOMIA

“Ci siamo trascinati un pasticcio
colossale, abbiamo commesso gravi errori nel controllo di una macchina
delicata, della quale non ne comprendiamo il funzionamento. Il risultato
è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate
per diverso tempo – forse per lungo tempo.” Così scriveva John
Maynard Keynes in un saggio intitolato “The Great Slump of 1930”,
nel quale egli tentava di spiegare la catastrofe che allora stava sorprendendo
il mondo. E le possibilità di ricchezza del mondo andarono veramente
sprecate per molto tempo. Ci sarebbe voluta la Seconda Guerra Mondiale
per porre una conclusione definitiva alla Grande Depressione.

Perché la diagnosi della
Grande Depressione di Keynes come un “pasticcio colossale” all’inizio
era così affascinante? E perché l’economia, intorno al 1975, si
è divisa in fazioni contrapposte sul valore delle idee di Keynes?

Mi piace spiegare l’essenza
dell’economia keynesiana con una storia vera che è utile anche come
metafora, una versione in scala ridotta dei disastri che possono colpire
economie intere. Considerate il duro lavoro della cooperativa di babysitter
Capitol Hill.

Questa cooperativa,  i
cui problemi furono narrati nel 1977 in un articolo sul “The Journal
of Money, Credit and Banking”, era un’associazione di circa 150
giovani coppie che si misero d’accordo nell’aiutarsi a vicenda accudendo
i bambini di un’altra coppia quando i genitori volevano trascorrere
una serata fuori. Per garantire che ogni coppia avesse la sua giusta
quota di babysitting, la cooperativa introdusse una forma di buono:
tagliandi fatti di grossi pezzi di carta, ciascuno dei quali conferiva
il diritto al portatore di una mezz’ora di tempo di accudimento. All’inizio,
quando si entrava nella cooperativa i membri riceveveno 20 tagliandi
che si dovevano restituire quando si abbandonava il gruppo.

Purtroppo, si scoprì 

che i membri della cooperativa, in media, volevano tenere di scorta
più di 20 tagliandi, forse nel caso volessero uscire più volte consecutive.
Come risultato, poche persone voleva spendere il loro buono e uscire,
mentre in molti volevano accudire i bambini così potevano aggiungere
altri tagliandi alla loro scorta. Ma dato che le opportunità di babysitting
si presentavano solamente quando qualcuno voleva uscire la sera, questo
significava che i lavori da babysitter erano difficile da trovare, il
che rendeva i membri della cooperativa ancor più riluttanti ad uscire,
rendendo ancor più scarsi i lavori da babysitter…

In breve, la cooperativa cadde
in una recessione.

Bene, che ne pensate di questa
storia? Non ritenetela sciocca e banale: gli economisti hanno utilizzato
esempi su piccola scala per far luce sulle grandi questioni fin da quando
Adam Smith vide le origini del progresso economico in una fabbrica di
spilli, e hanno ragione a fare così. La domanda è se questo esempio
particolare, nel quale la recessione è un problema di domanda inadeguata
– non c’è abbastanza domanda di babysitter per dare lavoro a chiunque
ne voglia uno – va alla sostanza di quello che accade in una recessione.

Quarant’anni fa la maggior
parte degli economisti avrebbe concordato con questa interpretazione.
Ma da allora la macroeconomia si è divisa in due grandi fazioni: gli
economisti “d’acqua di mare” (principalmente nelle università
americane sulla costa), che hanno una visione più o meno keynesiana
di quelle che sono le recessioni; e gli econonomisti “d’acqua dolce”
(principalmente nelle scuole dell’entroterra), che considerano assurda
quella visione.

Gli economisti d’acqua dolce
sono, fondamentalmente, dei puristi neoclassici. Essi credono che tutta
l’analisi economica degna di nota inizi dalla premessa che le persone
siano razionali e i mercati funzionino, una premessa dissacrata dalla
storia della cooperativa di babysitter. Per come la vedevano, una mancanza
di sufficiente domanda non è possibile, perché i prezzi si spostano
sempre per far corrispondere l’offerta con la domanda. Se la gente
vuole più buoni per il babysitting, il valore di quei buoni aumenterà,
perché valgono diciamo 40 minuti di babysitter invece che mezz’ora
– oppure, in modo equivalente, il costo di un’ora di babysitter
scenderebbe da 2 tagliandi a 1,5. E questo risolverebbe il problema:
il potere d’acquisto dei tagliandi in circolazione aumenterebbe, così
che le persone non sentirebbero la necessità di farne scorta e non
ci sarebbe alcuna recessione.

Ma le recessioni non assomigliano
a quei periodi in cui non c’è abbastanza domanda per dare lavoro
a chiunque voglia lavorare? Le apparenza possono ingannare, dicono i
teorici d’acqua dolce. L’economia sana, nella loro visione, dice
che i fallimenti complessivi della domanda non possono avvenire –
e questo significa che non avvengono. L’economia keynesiana si è
“dimostrata falsa”, dice Cochrane dell’Università di Chicago.

Tuttavia, le recessioni avvengono.
Perché? Negli anni Settanta il macroeconomista d’acqua dolce
di punta, il premio Nobel Robert Lucas, sosteneva che le recessioni
erano causate da una confusione temporanea: i lavoratori e le aziende
avevano problemi a distinguere tra i cambiamenti complessivi nel livello
dei prezzi a causa dell’inflazione o della deflazione dai cambiamenti
della loro particolare situazione di attività. E Lucas ammoniva che
ogni tentativo di combattere il ciclo economico sarebbe stato controproducente:
le politiche attiviste, egli sosteneva, si aggiungerebbero solamente
alla confusione.

Negli anni Ottanta, questa
accettazione fortemente limitata dell’idea che le recessioni siano
una cosa negativa era stata addirittura rigettata da molti economisti
d’acqua dolce. Invece, i nuovi leader del movimento, in special modo
Edward Prescott, che era allora all’Università del Minnesota (potete
capire da dove proviene l’appellativo “di acqua dolce”) sosteneva
che le fluttuazioni dei prezzi e le mutazioni della domanda non avevano
in realtà nulla a che fare con il ciclo economico. Piuttosto, il ciclo
economico riflette le fluttuazioni  nel livello del progresso tecnologico,
che sono amplificate dalla risposta razionale dei lavoratori, che volontariamente
lavorano di più quando l’ambiente è favorevole e di meno quando
è sfavorevole. La disoccupazione è una decisione volontaria dei lavoratori
per prendersi un po’ di tempo libero.

Detta in modo così audace,
questa teoria sembra folle – la Grande Depressione in realtà era
la Granda Vacanza? E, ad essere onesti, penso che sia davvero sciocca.
La premessa di base della teoria del “vero ciclo economico” di Prescott
è stata integrata in modelli matematici costruiti in modo ingegnoso
e che sono stati mappati su dati reali utilizzando sofisticate tecniche
statistiche, e la teoria arrivò a dominare l’insegnamento della macroeconomia
in molti dipartimenti universitari. Nel 2004, rispecchiando l’influenza
della teoria, Prescott condivise un Nobel con il finlandese Kydland
della Carnegie Mellon Univerisity.

Nel frattempo, gli economisti
d’acqua di mare titubavano. Se gli economisti d’acqua dolce erano
dei puristi, gli economisti d’acqua di mare erano dei pragmatici.
Mentre economisti come N. Gregory Mankiw ad Harvard, Olivier Blanchard
al M.I.T. e David Romer all’Università della California a Berkeley,
ammettevano che era difficile riconciliare una visione keynesiana delle
recessioni dal lato della domanda con la teoria neoclassica, essi trovarono
che il concetto che le recessioni siano, in effetti, guidate dalla domanda
sia troppo affascinante da rigettare. Quindi furono disponibili a spostarsi
dalla supposizione dei mercati perfetti o dalla razionalità perfetta,
o da entrambi, aggiungendo sufficienti imperfezioni per adattare una
visione delle recessioni più o meno keynesiana. E nella visione d’acqua
di mare, una politica attiva per combattere le recessioni rimaneva auspicabile.

Ma i presunti economisti neo-keynesiani
non erano immuni ai richiami degli individui razionali e dei mercati
perfetti. Essi tentarono di mantenere il più limitate possibile le
loro deviazioni dall’ortodossia neoclassica. Ciò significava che
non c’era spazio nei modelli prevalenti per cose come bolle e crolli
del sistema bancario. Il fatto che tali cose continuino ad avvenire
nel mondo reale – ci fu una terribile crisi finanziaria e macroeconomica
nella maggior parte dell’Asia nel 1997-8 e una crisi a livello di
depressione in Argentina nel 2002 – non si era rispecchiato nel pensiero
neo-keynesiano comunemente accettato.

In ogni caso, avreste potuto
pensare che le visioni del mondo divergenti degli economisti d’acqua
dolce e d’acqua di mare li avrebbe fatti litigare sulla politica economica.
E’ piuttosto sorprendente come, tra circa il 1985 e il 2007, le dispute
tra economisti d’acqua dolce e d’acqua di mare vertevano principalmente
sulla teoria e non sull’azione. La ragione, credo, è che i neo-keynesiani,
a differenza dei keynesiani originali, non pensavano che la politica
fiscale – le modifiche nelle spesa del governo o le tasse – fosse
necessaria per combattere le recessioni. Essi credevano che la politica
monetaria, amministrata dai tecnocrati alla Fed, potesse fornire tutti
i rimedi di cui l’economia potesse avere bisogno. Ai festeggiamenti
per il novantesimo compleanno di Milton Friedman, Ben Bernanke, un ex
docente più o meno neo-keynesiano a Princeton, e già all’epoca membro
del consiglio di amministrazione della Fed, face questo commento sulla
Grande Depressione: “Avete ragione. L’abbiamo fatto. Siamo molto
dispiaciuti. Ma grazie a voi, non accadrà di nuovo.” Il chiaro messaggio
è che tutto quello di cui si ha bisogno per evitare le depressioni
è una Fed più intelligente.

Finché la politica macroeconomica
fu lasciata nelle mani del maestro Greenspan, senza programmi di incentivi
di tipo keynesiano, gli economisti d’acqua dolce trovarono ben poco
da ridire (essi non credevano che la politica monetaria portasse benefici,
ma non credevano neanche che portasse svantaggi).

Ci sarebbe voluta una crisi
per rivelare quanto poco terreno comune ci fosse e addirittura quanto
panglossiana sia diventata l’economia neo-keynesiana.
 

V. NESSUNO AVREBBE POTUTO
PREVEDERLO

Nelle recenti e commoventi
discussioni economiche, la frase più in voga è diventata “nessuno
avrebbe potuto prevederlo…” E’ quello che si dice riguardo ai
disastri che potevano essere previsti, che avrebbero dovuto essere previsti
e che, per la verità, erano stati previsti da alcuni economisti che
sono stati derisi per i loro tormenti.

Considerate, ad esempio, l’improvviso
aumento e dimunizione dei prezzi dell’immobiliare. Alcuni economisti,
in particolare, Robert Shiller, identificarono la bolla e avvisarono
sulle conseguenza se questa fosse scoppiata. Tuttavia, le principali
istituzioni non riuscirono a vedere l’ovvio. Nel 2004, Alan Greenspan
ignorava i discorsi riguardo ad una bolla immobiliare: “una grave
distorsione dei prezzi a livello nazionale,” dichiarava, era “altamente
improbabile.” Gli aumenti dei prezzi delle abitazioni, diceva Ben
Bernanke nel 2005, “in buona parte riflettono dei solidi fondamentali
economici.”

Come hanno fatto a non vedere
la bolla? Ad essere onesti, i tassi di interesse erano insolitamente
bassi, e questo in parte spiega l’aumento dei prezzi. Potrebbe essere
che Greenspan e Bernanke volessero anche festeggiare il successo della
Fed per aver trascinato fuori l’economia dalla recessione del 2001;
ammettere che buona parte di quel successo dipendeva dalla creazione
di una mostruosa bolla avrebbe raggelato i festeggiamenti.

Ma stava avvenendo qualcos’altro:
una convinzione generale che le bolle non si verifichino. Quello che
colpisce, quando si rileggono le assicurazioni di Greenspan, è come
queste non fossero basate sulle prove – erano basate sulla supposizione
a priori che semplicemente non poteva esserci una bolla nel settore
immobiliare. E i teorici della finanza erano ancor più decisi su questo
punto. In un’intervista del 2007, Eugene Fama, il padre dell’ipotesi
del mercato efficiente, affermava che “la parola ‘bolla’ mi fa
impazzire” e continuava a spiegare perché possiamo fidarci del mercato
immobiliare. “I mercati immobiliari sono meno liquidi ma la gente
è molto prudente quando acquista una casa. In genere quello che vanno
a fare è il loro più grande investimento e quindi si guardano in giro
con molta attenzione e confrontano i prezzi. L’esame delle offerte
è molto dettagliato.”

Sicuramente gli acquirenti
immobiliari in genere confrontano con attenzione i prezzi – cioè,
confrontano il prezzo del loro potenziale acquisto con i prezzi di altre
abitazioni. Ma questo non dice nulla sul fatto se il prezzo complessivo
delle case sia giustificato. E’ di nuovo un’economia ketchup: poiché
una bottiglia da mezzo chilo di ketchup costa il doppio di una bottiglia
da un quarto, i teorici della finanza dichiarano che il prezzo del ketchup
deve essere giusto.

In breve, la convinzione nei
mercati finanziari efficienti ha messo i paraocchi a molti, se non la
maggior parte, economisti sull’emergenza della più grande bolla finanziaria
della storia. E la teoria del mercato efficiente ha avuto inoltre un
ruolo significativo nel far gonfiare all’inizio quella bolla.

Ora che la bolla non diagnosticata
è scoppiata, la vera pericolosità dei beni all’apparenza
sicuri è venuta alla luce e il sistema finanziario ha dimostrato la
sua fragilità. I proprietari di casa americani hanno visto svanire
13.000 miliardi di dollari di ricchezza. Più di sei milioni di posti
di lavoro sono andati persi e il tasso di disoccupazione sembra avviarsi
verso il livello più alto dagli anni Quaranta. Dunque, quale linea
di condotta ha da offrire l’economia moderna nella difficile situazione
di oggi? E dovremmo fidarci?
 

VI. LA POLEMICA SUGLI INCENTIVI

Tra il 1985 e il 2007 si instaurò una
finta pace nel settore della macroeconomia. Non c’era stata alcuna
vera convergenza di vedute tra le fazioni dell’acqua di mare e dell’acqua
dolce. Ma quelli erano gli anni della Grande Moderazione – un lungo
periodo durante il quale l’inflazione veniva attenuata e le recessioni
erano relativamente modeste. Gli economisti d’acqua di mare credevano
che la Federal Reserve avesse tutto sotto controllo. Gli economisti
d’acqua dolce non pensavano che tutte le azioni della Fed portassero
dei benefici, ma erano disposti a lasciare le cose così come stavano.

Ma la crisi pose fine alla
pace fittizia. Improvvisamente le politiche precise e tecnocratiche
che entrambi gli schieramenti erano disposti ad accettare non erano
più sufficienti – e la necessità di una risposta politica più ampia
portò alla ribalta i vecchi conflitti, più intensi che mai.  
  
Perché  quelle politiche precise e tecnocratiche non erano sufficienti?
La risposta, in una parola, è zero.

Nel corso di una normale recessione,
la Fed risponde acquistando Buoni del Tesoro – debito governativo
a breve termine – dalle banche. Questo fa diminuire i tassi di interesse
sul debito del governo; gli investitori in cerca di maggiore tassi di
rendimento si spostano su altri beni, portando anche alla diminuzione
degli altri tassi di interesse, e normalmente questi tassi di interesse
più bassi alla fine portano ad un rimbalzo economico. La Fed ha fatto
fronte alla recessione che è iniziata nel 1990 portando i tassi di
interesse a breve termine dal 9 per cento al 3 per cento. Ha fronteggiato
la recessione iniziata nel 2001 portando i tassi dal 6,5 per cento all’1
per cento. E ha provato a far fronte all’attuale recessione abbassando
i tassi dal 5,25 per cento a zero. 

Ma zero, come si è dimostrato,
non è un valore abbastanza basso per porre fine a questa recessione.
E la Fed non può spingere i tassi sotto lo zero, poiché già a tassi
vicini allo zero gli investitori fanno incetta di denaro contante piuttosto
che darlo a prestito. Quindi, prima della fine del 2008, con i tassi
di interesse sostanzialmente alla soglia che i macroeconomisti chiamano
il “vincolo a zero” mentre la recessione addirittura continuava
ad aggravarsi, la politica monetaria tradizionale aveva perso tutta
la sua trazione.

E ora? Questa è la seconda
volta che l’America deve fronteggiare il vincolo a zero, la precedente
occasione fu durante la Grande Depressione. E fu esattamente l’osservazione
sul fatto che esiste un vincolo inferiore ai tassi di interesse che
ha portato Keynes a sostenere una maggiore spesa da parte del governo:
quando la politica monetaria è inefficace e il settore privato non
riesce ad essere convinto a spendere di più, il settore pubblico deve
prendere il suo posto nel sostenere l’economia. Gli incentivi fiscali
sono la risposta keynesiana alla situazione economica di tipo depressionario
nella quale ci troviamo oggi. 

Tale pensiero keynesiano è alla
base delle politiche economiche dell’amministrazione Obama – e gli
economisti d’acqua dolce sono furiosi. Per circa 25 anni essi hanno
tollerato gli sforzi della Fed per gestire l’economia, ma una vera
e propria rinascita keynesiana era qualcosa di completamente diverso.
Nel 1980 Lucas, dell’Università di Chicago, scriveva che l’economia
keynesiana era così assurda che “nei seminari di ricerca la gente
non voleva più prendere sul serio le teorie keynesiane. L’uditorio
inizava a bisbigliare e a ridacchiare.” Ammettere che, dopotutto,
Keynes aveva ampiamente ragione sarebbe un passo indietro troppo umiliante.

E così Cochrane di Chicago
si è indignato all’idea che la spesa del governo potrebbe attenuare
l’ultima recessione, dichiarando: “Non fa parte di ciò che ognuno
ha insegnato ai laureandi sin dagli anni Sessanta. Quelle [le idee keynesiane]
sono favolette che si sono dimostrate false. In periodi di tensione
è molto rassicurante ritornare alle fiabe che ascoltavamo da bambini,
ma questo non le rende meno illusorie (è un segno di quanto profonda
sia la divisione tra acqua dolce e salata il fatto che Cocharane non
creda che “ognuno” insegni quelle idee che vengono, in effetti,
insegnate in posti come Princeton, l’M.I.T. e Harvard).

Nel frattempo, gli economisti
d’acqua di mare, che si erano consolati con la convinzione che la
grande divisione nella macroeconomia si stesse riducendo, furono sconvolti
nel rendersi conto che gli economisti d’acqua dolce non stavano affatto
ascoltando. Gli economisti d’acqua dolce che inveivano contro gli
incentivi non sembravano studenti che avevano soppesato le argomentazioni
keynesiane e le avevano trovate inadeguate. Piuttosto, sembravano persone
che non avevano idea di cosa trattasse l’economia keynesiana, persone
che stavano risorgendo dalle fallacie pre-anni Trenta nella convinzione
di dire qualcosa di nuovo e profondo. 

E non erano soltanto le idee
di Keynes che sembrava fossero fossero andate dimenticate. Come ha sottolineato
Brad DeLong dell’Univeristà di California a Berkeley nelle sue lamentazioni
sul “tracollo intellettuale” della scuola di Chicago, la posizione
attuale della scuola è quella di un totale rifiuto delle idee di Milton
Friedman. Friedman credeva che dovesse essere utilizzata la politica
della Fed per stabilizzare l’economia piuttosto che i cambiamenti
di spesa del governo ma non affermò mai che un aumento nella spesa
del governo non può, in nessun caso, aumentare la disoccupazione. In
effetti, rileggendo il compendio del 1970 delle sue idee, “Uno schema
teorico per l’analisi monetaria” colpisce quanto questo sembri keynesiano.

E Friedman sicuramente non
aveva mai accettato l’idea che la disoccupazione di massa rappresentasse
una riduzione volontaria dell’impegno lavorativo o l’idea che le
recessioni siano in realtà un bene per l’economia. Tuttavia, la generazione
attuale di economisti d’acqua dolce sta sostenendo entrambe le tesi.
Casey Mulligan di Chicago indica che la disoccupazione è così alta
perché molti lavoratori scelgono di non cercare un lavoro: “I dipendenti
si trovano di fronte a degli incentivi finanziari che li incoraggiano
a non lavorare… l’aumento della disoccupazione è spiegato più
dalle riduzioni nell’offerta di manodopera (la disponibilità della
gente a lavorare) e meno dalla richiesta di manodopera (il numero di
persone che i datori di lavoro hanno bisogno di assumere)”. Mulligan,
in particolare, ha indicato che i lavoratori decidono di rimanere disoccupati
perché questo aumenta le loro possibilità di ricevere un aiuto per
il loro mutuo immobiliare. E Cochrane sostiene che l’alto tasso di
disoccupazione in realtà è una cosa positiva: “Dovremmo avere una
recessione. La gente che trascorre la propria vita a piantar chiodi
nel Nevada ha bisogno di qualcos’altro da fare.”

Personalmente, penso che tutto
questo sia assurdo. Perché dovrebbe esserci una disoccupazione di massa
in tutto il paese per far spostare i falegnami dal Nevada? Qualcuno
riesce a sostenere in modo serio che abbiamo perso 6,7 milioni di posti
di lavoro perché sempre meno americani vogliono lavorare? Ma era inevitabile
che gli economisti d’acqua dolce si trovassero loro stessi intrappolati
in questo cul-de-sac: se partite dal presupposto che la gente sia perfettamente
razionale e i mercati siano perfettamente efficienti, dovete concludere
che la disoccupazione è volontaria e le recessioni sono auspicabili.

Tuttavia, se la crisi ha spinto
gli economisti d’acqua dolce all’assurdo, ha anche portato numerosi
economisti d’acqua di mare a fare un esame di coscienza. Il loro schema,
a differenza della scuola di Chicago, consente la possibilità della
disoccupazione involontaria e la considera una cosa negativa. Ma i modelli
neo-keynesiani che sono arrivati a dominare l’insegnamento e la ricerca
sostengono che la gente sia perfettamente razionale e i mercati finanziari
siano perfettamente efficienti. Per far entrare nei loro modelli qualcosa
che assomigli alla crisi attuale, i neo-keynesiani sono costretti ad
introdure un qualche fattore di correzione che per ragioni non ben specificate
deprime temporaneamente la spesa privata (per certi miei lavori ho fatto
esattamento questo). E se l’analisi su dove ci troviamo oggi si affida
a questo fattore di correzione, quanta fiducia possiamo avere nelle
previsioni dei modelli sul nostro futuro?

La situazione della macroeconomia,
in due parole, non è buona. Dunque, qual è il futuro della professione?
 

VII.
DIFETTI E FRIZIONI

L’economia, come settore,
si è cacciata nei guai perché gli economisti sono stati sedotti dalla
visione di un sistema di mercato perfetto, senza frizioni. Se il mestiere
deve redimersi, dovrà riconciliarsi ad una visione meno allettante
– che un’economia di mercato ha tanti pregi ma è anche piena di
difetti e di frizioni La buona notizia è che non dobbiamo ripartire
da zero. Anche durante il culmine dell’economia del mercato perfetto,
si è lavorato molto sui modi in cui la vera economia ha deviato dall’ideale
teorico. Quello che probabilmente accadrà ora – e per la verità
sta già avvenendo – è che l’economia dei difetti-e-delle-frizioni
si sposterà dalla periferia dell’analisi economica al suo centro.

Esiste già un esempio piuttosto
ben sviluppato del genere di economia che ho in mente: la scuola di
pensiero conosciuta come finanza comportamentale. Chi pratica questo
approccio mette in evidenza due cose. Primo, molti investitori del mondo
reale assomigliano poco ai freddi calcolatori della teoria del mercato
efficiente: sono tutti soggetti al comportamento del gregge, ai periodi
di esuberanza irrazionale e al panico ingiustificato. Secondo, anche
coloro che cercano di basare le proprie decisioni sul freddo calcolo
spesso si rendono conto che non ci riescono, che i problemi della fiducia,
della credibilità e delle garanzie limitate li obbligano ad andare
con il gregge.

Sul primo punto: anche durante
il culmine dell’ipotesi del mercato efficiente, sembrava ovvio che
molti investitori del mondo reale non fossero così razionali come presupponevano
i modelli prevalenti. Larry Summers una volta iniziò un articolo sulla
finanza affermando: “CI SONO DEGLI IDIOTI. Guardatevi attorno.”
Ma di che genere di idioti (il termine preferito nella letteratura accademica
in realtà è “trader rumorosi”) stiamo parlando? La finanza comportamentale,
facendo ricorso al movimento più ampio conosciuto come economia comportamentale,
cerca di rispondere alla domanda mettendo in relazione l’apparente
irrazionalità degli investitori alle inclinazioni note nell’intelletto
umano, come la tendenza a prestare più attenzione alle piccole perdite
rispetto ai piccoli guadagni o la tendenza a trarre conclusioni troppo
alla svelta da campioni esigui (ad esempio, dato che i prezzi delle
abitazioni sono aumentati nel corso degli ultimi anni, presupporre che
continueranno ad aumentare).

Fino alla crisi, i sostenitori
del mercato efficiente come Eugene Fama rigettavano le prove prodotte
a favore della finanza comportamentale come una collezione di “elementi
curiosi” di nessuna reale importanza. Questa è ora una posizione
molto più difficile da sostenere visto che lo scoppio di una grande
bolla – una bolla correttamente diagnosticata da economisti comportamentali
come Robert Shiller di Yale, che l’ha messa in relazione agli ultimi
episodi di “esuberanza irrazionale” – ha messo in ginocchio l’economia
mondiale.

Sul secondo punto: supponete
che esistano, in realtà, gli idioti. Che importanza avrebbe? Non molta,
sosteneva Milton Friedman in un importante articolo del 1953: gli investitori
scaltri faranno quattrini comprando quando gli idioti venderanno e vendendo
quando compreranno e stabilizzeranno i mercati in questo processo. Ma
le seconde fila della finanza comportamentale dicono che Friedman si
sbagliava, che i mercati finanziari a volte sono molto instabili, e
in questo momento quell’idea sembra difficile da rigettare.

Probabilmente l’articolo
più importante su questo filone è stata una pubblicazione del 1997
di Andrei Shleifer di Harvard e Robert Vishny di Chicago, una formalizzazione
della vecchia linea che “il mercato può rimanere irrazionale più
a lungo di quanto voi possiate rimanere solvibili.” Come essi sottolineavano,
gli arbitraggisti – le persone che si pensa acquistino ad un prezzo
basso e vendano ad un prezzo alto – hanno bisogno del capitale per
fare il loro lavoro. E una drastica caduta del prezzo dei beni, anche
se non ha alcun senso in termini di fondamentali, tende ad esaurire
quel capitale. Come risultato, il denaro investito da mani esperte viene
fatto uscire dal mercato, e i prezzi possono entrare in una spirale
al ribasso.

La diffusione dell’attuale
crisi finanziaria sembrava quasi una dimostrazione pratica dei pericoli
dell’instabilità finanziaria. E le idee generali che stanno alla
base dei modelli di instabilità finanziaria si sono dimostrate molto
attinenti alla politica economica: un’attenzione all’esaurimento
del capitale degli istituti finanziari ha aiutato a condurre delle azioni
politiche dopo la caduta di Lehman, e sembra (incrociate le dita) che
queste azioni abbiano evitato con successo un crollo finanziario ancora
più grave.

Nel frattempo, che dire della
macroeconomia? Gli ultimi avvenimenti hanno confutato in modo piuttosto
netto l’idea che le recessioni siano una risposta ottimale alle fluttuazioni
al livello del progresso tecnologico; una visione più o meno keynesiana
è l’unica alternativa. Tuttavia, i normali modelli neo-keynesiani
non hanno lasciato spazio per una crisi come quella che stiamo avendo,
perché quei modelli in genere accettavano la visione del settore finanziario
del mercato efficiente.

Ci sono state alcune eccezioni.
Una linea di lavoro, iniziata nientemeno che da Ben Bernanke con Mark
Gertler della New York University, evidenziava il modo in cui la mancanza
di una garanzia sufficiente potesse ostacolare la possibilità delle
imprese di raccogliere finanziamenti e di perseguire opportunità di
investimenti. Una linea di lavoro correlata, costituita prevalentemente
dal mio collega a Princeton Nobuhiro Kiyotaki e John Moore della London
School of Economics, sosteneva che i prezzi di beni come il mercato
immobiliare possono soffrire di cadute che si autoalimentano e che,
a rotazione, deprimono l’intera economia. Ma finora l’impatto della
finanza malfunzionante non è stato al centro nemmeno dell’economia
keynesiana. Chiaramente, questo deve cambiare.
 

VIII. RIABBRACCIARE KEYNES

Dunque, ecco quello che penso
che debbano fare gli economisti. Innanzitutto, devono affrontare la
scomoda realtà che i mercati finanziari sono ben lontani dalla perfezione
e che sono soggetti ad illusioni eccezionali e alla follia delle masse.
In secondo luogo, devono ammettere – e questo sarà molto duro per
la gente che ridacchiava e sparlava di Keynes – che l’economia keynesiana
rimane la migliore struttura che abbiamo per comprendere il senso delle
recessioni e delle depressioni. In terzo luogo, dovranno fare del loro
meglio per integrare le realtà della finanza nella macroeconomia.

Molti economisti troveranno
questi cambiamenti piuttosto sconvolgenti. Semmai, passerà molto tempo
prima che i nuovi e più realistici approcci alla finanza e alla macroeconomia
offrano lo stesso tipo di chiarezza, completezza e vera e propria bellezza
che caratterizzano il pieno approccio neoclassico. Per alcuni economisti
quella costituirà una ragione per aggrapparsi al neoclassicismo, nonostante
il suo totale fallimento nel comprendere il senso della più grande
crisi economica delle ultime tre generazioni. Tuttavia, questo sembra
essere un buon momento per ricordare le parole di H.L. Mencken: “C’è 
una soluzione facile per ogni problema umano: elegante, plausibile e
sbagliata.”

Quando si parla del problema
del tutto umano delle recessioni e delle depressioni, gli economisti
hanno bisogno di abbandonare la soluzione elegante, ma sbagliata, di
presumere che tutti siano razionali e che il mercato funzioni in modo
perfetto. La visione che emerge mentre la professione ripensa le proprie
basi potrebbe non essere così chiara. Certamente non sarà elegante
ma possiamo sperare che avrà il pregio di essere almeno in parte corretta.
 
 
 

Paul Krugman
Fonte: http://www.nytimes.com/
Link: http://www.nytimes.com/2009/09/06/magazine/06Economic-t.html
02.09.2009

Traduzione a cura di JJULES per www.comedonschisciotte.org 

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