DI THIERRY MEYSSAN
Voltairenet.org
Dall’estate 2006, Thierry Meyssan pronostica il crollo degli Stati Uniti a medio termine seguito dalla loro disgregazione. Questo punto di vista – che ha fatto molto sorridere – trova oggi un inizio di conferma: nulla sembra fermare la crisi finanziaria USA che si trasforma in crisi economica. Secondo questo analista, che è un politologo e non un economista, i vertici economici che si susseguono in questi giorni non hanno come scopo la risoluzione della crisi, ma rappresentano una rivolta degli Stati vassalli per riorganizzare un sistema che, benché agonizzante, continua a portare vantaggio agli Stati Uniti.
[Nella foto, il presidente Bush riceve i ministri delle Finanze del G7, in riga dietro di lui. La messa in scena tende a mostrare che gli alleati si astengono dal contestare la sovranità degli Stati Uniti sul sistema finanziario globale. Per quanto tempo?]
Da quasi due anni, il sistema economico mondiale è destabilizzato da un crac finanziario rimbalzante. In maniera consensuale, tutti gli analisti si accordano al modello imperiale anglo-americano che provoca convulsioni in tutte le economie sulle quali esercita una leadership, se non addirittura una dominazione. In queste condizioni, le risposte pubbliche sono di due tipi. Per la maggior parte degli Stati, si tratta di preservare l’economia nazionale limitando il contagio, ma per Washington, Londra, Parigi e Mosca la posta è differente. Si tratta di sapere se il dollaro resterà la chiave di volta del sistema oppure se sarà riformato, o persino abbandonato, in quanto la questione di un possibile crollo degli Stati Uniti comincia ormai ad essere dibattuta.
Per comprendere gli attuali rapporti di forza, andremo tracciando le tappe di questa crisi. Cominciamo dall’inizio visibile della catastrofe.
La prima crisi dei subprimes (primi tre trimestri del 2007)
Nel corso di tutto l’ultimo decennio, le banche USA hanno moltiplicato le offerte allettanti di credito ipotecario speculativo (subprime). Contando su una crescita permanente dei prezzi immobiliari, esse hanno valutato le ipoteche non secondo il prezzo che il bene immobile aveva al momento della concessione del prestito, ma secondo il prezzo sperato qualora fosse stato venduto prima della fine del credito. I prestatori proponevano così ai consumatori di indebitarsi per acquistare allo stesso tempo la casa, i mobili, l’automobile e le spese scolastiche dei figli impegnando a garanzia del debito la casa. In questo modo poterono trovare un sacco di nuovi clienti che in condizioni normali non avrebbero sottoscritto mutui. I consumatori, quanto a loro, godevano di un evidente miglioramento delle loro condizioni di vita. Anche se non vi era creazione di ricchezza supplementare, ma unicamente creazione di denaro sotto forma di debito, potevano tutti vivere una vita felice nel paese incantato del capitalismo trionfante.
Tuttavia, nel 2006, dopo che le banche avevano fatto il giro dei loro clienti potenziali e la Federal Reserve aveva alzato i tassi d’interesse, la domanda di costruzione degli alloggi cominciò a diminuire. I prezzi si abbassarono. Di colpo, le ipoteche non furono più sufficienti a garantire i crediti impegnati.
In questo periodo, le autorità USA si accanirono a mascherare la situazione economica autorizzando le multinazionali a truccare la loro contabilità e truccando esse stesse i conti della nazione. Le grandi società camuffarono le operazioni su alcuni prodotti finanziari spostandole nelle loro filiali off-shore dando così l’impressione di realizzare profitti a partire da una reale produzione quando invece provenivano dalla speculazione. Al contrario, mentre la produzione nazionale lorda era in forte recessione, il Tesoro statunitense aggiungeva alle sue statistiche i crediti, le obbigazioni e i titoli derivati. Sommando prodotti reali e “prodotti” finanziari l’Amministrazione poteva vantarsi di una crescita continua. Comunque sia, la recessione dell’economia reale impoveriva le famiglie che accedevano alla proprietà. Non potendo pagare le rate dei mutui e non essendo sufficiente il valore dell’ipoteca per saldare il prestito, si comincia ad assistere alle prime espulsioni dei debitori.
Il terremoto arriva nel gennaio 2007. Ownit Mortgage Solutions e Mortgage Lenders Network USA Inc. cessano l’attività, lasciando dietro di loro un buco di 3,4 miliardi di dollari. Il settore nel suo insieme viene destabilizzato, 25 società di prestiti ipotecari falliscono a catena tra cui il leader del mercato, New Century Financial Corporation. Se la classe dirigente e i media non avevano reagito alla perdita della casa di migliaia di famiglie, il fallimento di qualche società finanziaria li risveglia dal sonno.
Il problema si estende presto ai fondi d’investimento. Bear Stearns ne ferma due nel giugno 2007. Il problema si estende anche all’estero. BNP-Paribas sospende la quotazione di tre dei suoi fondi d’investimento.
Questi fallimenti collettivi lasciano a secco le banche. I governi occidentali considerano che non si riuscirà a fermare la crisi dei subprimes. Secondo loro è inevitabile una purga generale e bisogna quindi attendersi altri fallimenti ed espulsioni in massa di nuovi proprietari. Tuttavia, i governi occidentali mettono in atto un piano coordinato per limitare la crisi al settore dei prestiti ipotecari e salvare dal contagio il settore bancario classico. Il 10 agosto la Federal Reserve USA inietta 43 miliardi di dollari per fluidificare il mercato, la Banca centrale europea l’equivalente di 214 miliardi di dollari e la Banca del Giappone l’equivalente di 8 miliardi. L’Australia e il Canada intervengono su scala minore.
Eppure, qualche giorno più tardi, la banca britannica Northern Rock si trova a corto di liquidità. Verrà rimessa in piedi dalla Banca d’Inghilterra prima di essere definitivamente nazionalizzata per garantire i depositi dei piccoli risparmiatori.
In ottobre, Merrill Lynch annuncia perdite colossali, presto valutate intorno a 8,4 miliardi di dollari, e si cerca chi la possa rilevare.
Washington constata che il piano di salvataggio è insufficiente perché il susseguirsi della crisi dei subprime prosciuga nuovamente le banche e obbliga a nuove iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve. Non si può più, quindi, considerare la crisi dei subprimes come una “dolorosa correzione del mercato dei prestiti ipotecari” e non ci si può accontentare di accompagnarla con qualche misura di protezione sociale per chi ha perso la casa. Poiché la dottrina economica del “laissez-faire” impedisce allo Stato di nazionalizzare le abitazioni non pagate, la Casa Bianca fa appello alle grandi banche e chiede loro di creare un “super fondo” di 100 miliardi per assorbire i crediti spazzatura. Ciò sembrerebbe fattibile, nella misura in cui la Federal Reserve ha già inondato il mercato con tale liquidità. In pratica, le banche comprendono presto che non saranno mai rimborsate e si ritirano dal super fondo prima possibile. Contemporaneamente, il Congresso vota una legge che congela provvisoriamente i debiti di molte società di prestito ipotecario per evitare il loro fallimento.
Durante questa prima burrasca, le banche hanno registrato un deprezzamento degli attivi (in altre parole perdite dovute all’insolvibilità di base) di circa 500 miliardi di dollari. Per farci fronte, debbono aprire il loro capitale per 300 miliardi di dollari e diminuire la loro attività di 200 miliardi. Su amabile consiglio dell’Amministrazione Bush, i Fondi sovrani del Golfo arrivano alla riscossa ed entrano a loro rischio e pericolo nelle grandi banche occidentali.
In definitiva, l’effimero super fondo e il congelamento dei debiti interrompono la crisi dei subprimes. Tuttavia, nulla è stato regolato. La crisi riprenderà sei mesi più tardi.
I tumulti per fame (ultimo trimestre del 2007, primo trimestre del 2008)
In conseguenza di questo momento di tregua, i grandi gruppi finanziari si ritrovano con un surplus di liquidità. Decidono di rimettersi al più presto in salute speculando sui mercati a termine: l’oro, il petrolio, i beni alimentari di base. [1]
Ora, il mercato del petrolio è anch’esso in piena ristrutturazione. Allo smisurato appetito delle economie occidentali si aggiunge il recente sviluppo industriale dell’India e della Cina. Sfortunatamente, questo aumento della domanda coincide con un aumento dei costi di produzione. Numerosi giacimenti si esauriscono mentre nuovi pozzi sono sempre più difficili da sfruttare. In quanto mercato speculativo, la quotazione di base non si riferisce al prezzo del giorno ma sulla stima del livello che avrà raggiunto al momento di rinnovare gli stocks. Ne consegue un picco del prezzo del petrolio.
Il mercato dei generi alimentari di base è anch’esso già in piena crisi [2]. Sotto l’effetto delle misure di solvibilità delle economie imposte dal FMI e dalla Banca mondiale, numerosi paesi del terzo mondo hanno ridotto le superfici coltivate e hanno preferito colture speculative a colture di sussistenza. Simbolo di questo cambiamento: la produzione di biocarburanti per far circolare i SUV negli Stati Uniti a detrimento delle colture per alimentazione destinate a nutrire la popolazione locale [3]. A questa crisi strutturale si aggiungono i cattivi raccolti in molti paesi e soprattutto l’aumento dei costi di produzione. In effetti, l’agricoltura contemporanea è una grande consumatrice di fertilizzanti e di pesticidi derivati dal petrolio. Ne segue una crisi alimentare e sommosse per fame in 37 paesi alla fine del 2007 e nel primo semestre del 2008.
Considerato che questi moti minacciano l’equilibrio politico mondiale, la Casa Bianca e il Congresso decidono di stabilizzare i prezzi attraverso interventi dell’USAID [United States Agency for International Development] sui mercati agricoli e con un discreto richiamo all’ordine degli istituti finanziari implicati nella speculazione.
Se la domanda alimentare è stabile qualunque sia il prezzo di vendita, perché non si può vivere senza mangiare, al contrario la domanda di energia è volatile. Si abbassa quando i prezzi sono troppo elevati. E la diminuzione della domanda fa scendere i prezzi, rilanciando così la domanda, ecc. Questo effetto yo-yo dovrebbe aumentare in futuro di pari passo con la rarefazione dei pozzi petroliferi di facile sfruttamento e con l’aumento dei costi di produzione.
Seconda crisi dei subprimes (secondo semestre 2008)
La crisi dei subprimes riprende con l’esaurirsi delle misure provvisorie, nell’estate 2008. Questa volta è attesa e l’Amministrazione Bush si è preparata. La sua strategia consiste da una parte nel lasciare il più possibile i debiti nelle mani degli investitori stranieri e, d’altra parte, nell’informare le società amiche perché approfittino della crisi per assorbire i concorrenti.
Le obbligazioni in titoli USA di tutti i generi, ritenute insolvibili, detenute da investitori stranieri si ripartiscono quindi come segue:
– Giappone: 593 miliardi di dollari
– Cina (inclusa Hong Kong): 580 miliardi di dollari
– Paradisi fiscali: 208 miliardi di dollari
– Regno Unito: 291 miliardi di dollari
– Paesi del Golfo: 174 miliardi di dollari
– Brasile: 148 miliardi di dollari
– Russia: 74 miliardi di dollari
– Svizzera: 45 miliardi di dollari
Tutto questo denaro virtuale è destinato prioritariamente a scomparire, ma in definitiva ci sono 25.000 miliardi di dollari virtuali che rischiano di andare in fumo rimettendo in causa la leadership degli Stati Uniti.
Le perdite delle piccole società che sono state congelate si ripercuotono sulle due principali società di prestiti ipotecari USA garantite dallo Stato federale, Fannie Mae e Freddie Mac. Il tempo di fare i conti e il 7 settembre queste annunciano perdite record che sfiorano i 15 miliardi di dollari. Obbligata ad esercitare la propria garanzia, l’Agenzia federale per gli Alloggi mette le due società sotto amministrazione pubblica controllata. E’ una nazionalizzazione de facto. I creditori di Fannie Mae e Freddie Mac si rassicurano ma i detentori di obbligazioni emesse da questi due giganti si ritrovano in mano carta straccia. Sfortunata, la Banca centrale cinese ne aveva acquistate per 397 milioni di dollari … su suggerimento di Henry Paulson quando era a capo della Goldman Sachs.
Nuovo giro del “gioco della sedia”. La regola del gioco è nota: ognuno cerca di vendere i titoli che sa essere insolvibili e di comprarne altri che si sperano vantaggiosi. Ma è molto difficile valutarne il valore. Gli istituti finanziari dunque si scambiano titoli moltiplicando le plusvalenze ma quando gli inquilini non possono pagare i loro mutui, la società che detiene il credito va in fallimento. Ancora peggio: i giocatori che hanno una migliore tesoreria o che hanno avuto un po’ di fortuna possono speculare al ribasso sulle azioni degli istituti traballanti e realizzare profitti accelerando il loro fallimento.
In base a questi principi, Merrill Lynch è acquisita da Bank of America, mentre Lehman Brothers si vede rifiutare l’aiuto di Stato e crolla. Con l’aiuto del direttore degli investimenti della società, George Herbert Walker IV, fratello del presidente Bush [svista incomprensibile di Meyssan: in realtà si tratta di un secondo cugino, ndt], i suoi attivi saranno principalmente recuperati dalla britannica Barclays. Questa volta la crisi non si limita alle società di prestito ipotecario. Fa un passo avanti e contagia il settore delle assicurazioni. Prendendo per la prima volta una misura personale, la Federal Reserve accorda prestiti ponte per un totale di 123 miliardi di dollari ad AIG in cambio di una partecipazione maggioritaria, misura che era stata rifiutata a Lehman Brothers. Non si tratta più della nazionalizzazione di una società in economia mista, ma di quella di una società privata. Si capisce subito che questa misura, contraria all’ortodossia del “laissez-faire” tende anche a salvare i dirigenti dell’AIG che festeggiano la loro nazionalizzazione spendendo mezzo milione di dollari per riposarsi una settimana in un residence californiano. Champagne e ragazze: è il contribuente USA che paga!
L’infelicità degli uni fa la felicità degli altri. JPMorgan compra gli attivi di Washington Mutual, mentre CityGroup acquista Wachovia.
Mentre infuria la tempesta e le voci evocano una Grande depressione come nel 1929, l’amministrazione repubblicana elabora infine una soluzione: il Piano Paulson, dal nome del segretario al Tesoro. Piuttosto che organizzare il fallimento delle società che detengono titoli spazzatura, l’idea è di salvare la bolla finanziaria e i privilegiati che ci stanno in mezzo facendo pagare allo Stato federale i crediti insolvibili. Tecnicamente, si riprende il principio di un “super fondo” per dare un colpo di spugna sui debiti degli organismi finanziari, ma questa volta invece di essere elargito dalle banche lo sarà da parte dello Stato, ossia dei contribuenti. Continua la fuga in avanti. Si tratta di guadagnare qualche settimana e respingere le cattive notizie a dopo le elezioni presidenziali USA. Un fondo di 700 miliardi di dollari verrà così creato. Questo denaro potrà alla fine essere recuperato perché, dopo aver rinegoziato i debiti dei privati, lo Stato negli anni a venire percepirà mensilmente le rate dei mutui. Alla fine … se i consumatori conserveranno l’impiego e avranno di che pagare, il che è poco probabile.
L’annuncio del piano fa immediatamente cadere il dollaro. In effetti, questi 700 miliardi rappresentano un aumento di un quarto del budget federale senza la minima entrata per equilibrarlo. L’Amministrazione sarà obbligata a far lavorare la zecca, quindi a svalutare insidiosamente il valore del dollaro, il che viene anticipato dagli speculatori.
La crisi si sviluppa ormai anche in Europa. Il 29 settembre, il Regno Unito nazionalizza Bradford & Bingley. Il Belgio e i Paesi Bassi smantellano Fortis cedendone gli attivi a BNP-Paribas e nazionalizzando il resto. La Germania va in soccorso di Hypo Real Estate. La Francia, il Belgio e il Lussemburgo vanno in aiuto di Dexia. L’Irlanda annuncia che garantirà i depositi dei piccoli risparmiatori nelle sei principali banche di deposito del paese fino a un ammontare di 400 miliardi di dollari. L’Islanda nazionalizza Glitnir e sospende delle quotazioni ma non riesce a stabilizzare la sua moneta che si svaluta del 30%.
Sottoposto il 29 settembre a una Camera dei rappresentanti dominata dai democratici favorevoli a questa soluzione, il Piano Paulson ha la sorpresa di essere rigettato … dai repubblicani del sig. Paulson. E’ una sorpresa? No, qualche grande speculatore prossimo a Henry Paulson, tra cui Goldman Sachs, CityGroup e JPMorgan Chase, erano informati di queste peripezie. Quel giorno realizzeranno profitti favolosi.
Il piano è ridiscusso e corretto, poi alla fine approvato. Nella versione finale, l’ammontare dei beni liquidi dei piccoli risparmiatori garantiti dallo Stato viene aumentato, il che cambia poco ma dà l’impressione di aver preso in considerazione le classi lavoratrici. Le due novità importanti sono che le succursali statunitensi di banche straniere potranno beneficiare della manna e che la distribuzione dei 700 miliardi non sarà a discrezione del segretario al Tesoro, ma sottoposta a un vago controllo parlamentare a posteriori. In altri termini, quando l’Amministrazione salverà un istituto finanziario, dovrà provare di non averne approfittato per arricchire gli amici. Ma non dovrà affatto rendere conto quando lascerà fallire un altro istituto come ha fatto con Lehman Brothers. In definitiva, il contribuente USA rinsanguerà a sue spese gli amici del potere che hanno fatto cattivi investimenti mentre continueranno le espulsioni per insolvenza. Prima di lasciare la Casa Bianca, la squadra Bush realizza così la rapina del secolo.
Dopo una giornata di euforia a Wall Street, l’indice Dow Jones perde il 22% in una settimana. Il problema è che la bolla finanziaria non si limita ai subprimes. Le banche hanno emesso delle obbligazioni su questi crediti, poi hanno ancora sminuzzato le obbligazioni. In breve, la speculazione si è sviluppata su tre livelli e il piano di salvataggio del primo livello non impedirà la caduta degli altri. Inoltre, se in teoria è possibile arrestare la crisi dei subprimes facendo pagare i contribuenti, ciò non è proponibile per i livelli superiori. In un decennio, la bolla finanziaria ha raggiunto l’equivalente di due anni interi di prodotto interno lordo statunitense.
Estensione della crisi
La crisi finanziaria globale era stata analizzata e prevista in anticipo da alcuni economisti, tra cui in prima fila lo statunitense Lyndon La Rouche e il francese Jacques Cheminade [4], ma erano stati demonizzati, di volta in volta trattati da fascisti e da estremisti di sinistra per squalificarli. Secondo loro, il sistema non può essere salvato nella sua forma attuale. Benché doloroso, bisogna mettere in fallimento gli istituti finanziari non solvibili, accompagnandone la caduta con misure sociali, piuttosto che cercare di riempire la botte delle Danaidi e prolungare la crisi. Essi propongono di rilanciare l’economia attraverso investimenti produttivi statali e di cambiare il sistema finanziario mondiale in maniera da impedire il riformarsi di una bolla finanziaria. Nonostante la giustezza della loro analisi della crisi, ciò non significa necessariamente che le loro soluzioni siano quelle buone. Viene loro obiettato che misure di questo tipo non furono sufficienti a Roosevelt per uscire dalla Grande depressione.
Analogamente, il francese Maurice Allais (premio Nobel per l’economia 1988) aveva pubblicato due opere fondamentali “La crise mondiale d’aujour’hui: pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires” [5] e “La Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance: l’évidence empirique“[6] nelle quali analizzava l’evoluzione del sistema finanziario e prevedeva la crisi attuale [7].
Seguendo l’esempio irlandese, la Danimarca, l’Austria, la Germania, l’Islanda e la Grecia annunciano che garantiranno i depositi dei piccoli risparmiatori. Ben presto, tutti gli Stati membri dell’Unione europea fanno altrettanto.
L’8 ottobre, il Primo ministro britannico Gordon Brown, annuncia la nazionalizzazione parziale delle principali banche della City: Abbey, Barclays, HBOS, HSBC Bank plc, Lloyds TSB, Nationwide Building Society, Royal Bank of Scotland, e Standard Chartered. Inoltre, la Banca d’Inghilterra inietta liquidità per fluidificare il mercato inter-bancario.
Più sorprendentemente, nel varare la legge anti-terrorismo, il cancelliere dello scacchiere annuncia il congelamento dei beni islandesi nel Regno Unito. Per evitare che la crisi monetaria islandese contamini l’economia britannica, viene dichiarato che le decisioni del governo islandese minacciano la sicurezza nazionale. Così fustigata, la moneta islandese prosegue la sua discesa all’inferno.
Il Regno Unito non si è accontentato di prendere delle misure per salvare le sue banche a costo di uno spettacolare voltafaccia ideologico. Ha fatto un passo avanti mettendo le problematiche finanziarie nel campo della sicurezza nazionale. Il fatto è che non intende unicamente risolvere le conseguenze della crisi, ma utilizzare questa ultima per ricentrare il sistema mondiale su Londra, appoggiandosi alle banche anglo-americane. Lo stesso giorno, le banche centrali degli USA, del Regno Unito, del Canada, dell’Eurozona, della Svezia e della Svizzera annunciano simultaneamente un abbassamento dei loro tassi di interesse.
L’economia russa è contagiata indirettamente. Gli investitori anglo-sassoni hanno ritirato i loro averi nel mese di agosto, come ritorsione dopo la guerra d’Ossezia del Sud, provocando una forte caduta della borsa di Mosca. Mentre il governo fatica a rimettere le cose in ordine, Washington e Londra esigono che le loro banche si concentrino sul mercato interno e cessino ogni prestito a società russe. Numerosi oligarchi, che hanno piazzato i loro beni all’estero, rifiutano di rimpatriarli come invece vorrebbe il Cremlino da almeno due anni e insistono nello speculare sui mercati mondiali. Il governo e la Duma sono obbligati a sbloccare 36 miliardi di dollari per compensare la crisi e l’allontanamento delle banche anglo-sassoni.
A Monaco, i dirigenti di Dexia festeggiano il salvataggio da parte del Belgio e della Francia con una cena da 200.000 euro. Il giorno dopo a pranzo è la volta dei dirigenti di Fortis, sopravvissuti alla parziale nazionalizzazione da parte dei Paesi Bassi, di ritrovare l’appetito. Si offrono un pranzo nello stesso locale a 3.000 euro a coperto.
L’Impero, co-gestito da Londra e da Washington
Il 10 e 11 ottobre, vengono organizzate a Washington una serie di riunioni. L’amministrazione Bush convoca una riunione del G8 senza la Russia, con la quale la guerra finanziaria è stata dichiarata a partire da agosto e dal conflitto osseto. Tagliandogli l’erba sotto i piedi, il primo ministro britannico Gordon Brown invia preventivamente una lettera a tutti i partecipanti. Vi presenta le proposte della sua consigliera speciale, la baronessa Shriti Vadera. Secondo Londra, piuttosto che cercare di cancellare i debiti astronomici degli enti bancari, bisogna ristrutturare il settore e in parte nazionalizzarlo. L’obiettivo può essere realizzato ricorrendo a tre misure contemporanee: la “ricapitalizzazione” delle banche in fallimento, la fluidificazione dei prestiti interbancari e la garanzia pubblica dei depositi dei piccoli risparmiatori. Problema: il Piano Vandera, come il Piano Paulson, deve essere finanziato con una larga emissione di moneta col rischio di accrescere una crisi che ha origine nella bolla finanziaria. Iniziano i negoziati.
Il segretario USA al Tesoro, Henry Paulson, vuole mantenere la guida del processo ma ha già dimostrato di non padroneggiare la situazione a casa sua. Ricorda di passaggio, in maniera meccanica, come se la sua autorità fosse ancora intatta, che il disordine bancario non deve permettere agli Iraniani di aggirare l’embargo di cui sono oggetto. Il ministro tedesco Peer Steinbrück non vuole che si approfitti del crac per imporre un governo finanziario sovranazionale, al contrario del suo omologo francese, Christine Lagarde, che pensa di fare la brava scolaretta invocando la creazione di un Fondo speciale europeo analogo al Fondo Paulson.
Ciò non ha più importanza in quanto in capo della Federal Reserve, Ben Bernanke, si è già messo d’accordo con i suoi colleghi della City. Il fatto è che la Federal Reserve non è un ente del governo federale USA ma un organismo misto controllato da grandi banche private, alcune delle quali sono anglo-americane. In conclusione, il piano britannico viene adottato, ma in termini piuttosto vaghi per non umiliare Paulson. Per salvare il sistema, i grandi tesorieri si sono piegati davanti alle proposte della signora Vadera. La pagina del “laissez-faire” reaganiano-thatcheriano è stata girata. L’interventismo di Stato ritorna ma al modo della Corona, per socializzare le perdite, non le ricchezze.
Ecco la lista delle decisioni del G7:
“Il G7 ha convenuto oggi che la situazione attuale richiede un’azione urgente e straordinaria. Ci siamo impegnati a continuare a lavorare insieme per stabilizzare i mercati finanziari e restaurare il flusso del credito per sostenere la crescita economica mondiale.
Abbiamo convenuto di:
1. prendere misure decisive e utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione per sostenere le istituzioni finanziarie d’importanza sistemica ed impedire che falliscano;
2. prendere tutte le misure necessarie per sbloccare il credito e i mercati monetari e per assicurare che le banche e le istituzioni finanziarie abbiano ampio accesso alla liquidità e ai capitali;
3. fare in modo che le nostre banche e i nostri altri principali intermediari finanziari possano, quando necessario, accedere a capitali di fonte sia pubblica che privata, con importi sufficienti a restaurare la fiducia e permettere loro di continuare a prestare alle famiglie e alle imprese;
4. fare in modo che i nostri rispettivi programmi nazionali di garanzia dei depositi bancari siano robusti e coerenti, di modo che i nostri piccoli risparmiatori possano continuare ad avere fiducia nella sicurezza dei loro depositi;
5. prendere decisioni, al momento opportuno, per rilanciare il mercato secondario dei debiti ipotecari e di altri attivi cartolarizzati. Sono necessarie valutazioni precise e informazioni trasparenti su questi attivi e la messa in atto coerente di norme contabili di alta qualità;
Queste azioni devono essere intraprese in modo da proteggere il contribuente ed impedire effetti potenzialmente dannosi su altri paesi. Utilizzeremo gli strumenti di politica macroeconomica quando ciò sarà necessario e adeguato. Sosteniamo fortemente il ruolo determinante giocato dal FMI per aiutare i paesi affetti da queste turbolenze. Accelereremo la messa in opera completa delle raccomandazioni del Forum per la stabilità finanziaria ed abbiamo piena consapevolezza del pressante bisogno di una riforma del sistema finanziario. Continueremo a rafforzare la nostra cooperazione e a lavorare con gli altri per realizzare questo piano“.
La mattina dopo, i ministri delle Finanze del G7 (ma non i banchieri centrali) sono ricevuti alla Casa Bianca. Questo secondo incontro non è decisionista, ma ha come unico oggetto di riaffermare la sovranità statunitense anche se il piano adottato è quello britannico. Alla fine il presidente degli Stati Uniti si indirizza alla stampa. Simbolicamente, tutti i suoi ospiti sono in riga dietro di lui come un battaglione sull’attenti. George W. Bush si accontenta di indicare che le decisioni prese alla vigilia dovranno essere ribadite a breve in occasione del G20. In realtà è il G24 a riunirsi senza indugio attorno al segretario al Tesoro, Henry Paulson, questa volta con la Russia, per prendere atto delle decisioni del G7. Il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Forum per la stabilizzazione finanziaria sono stati associati a questi tre incontri.
E’ d’obbligo constatare che la messa in opera di questo programma da parte degli Stati membri della Zona euro è giuridicamente impossibile. I criteri di convergenza dell’Unione economica e monetaria, detti “criteri di Maastricht”, dal nome del trattato che li ha stabiliti, sono formali: gli Stati devono contenere il proprio debito pubblico e il loro deficit di bilancio. Non è permesso alcun aiuto finanziario massiccio da parte degli Stati, salvo modificare il trattato secondo una procedura che richiede diversi anni.
Poco importa! La Francia, in quanto presidente pro tempore del Consiglio d’Europa, convoca una riunione dell’Eurogruppo al quale si unisce il Regno Unito. Gordon Brown espone il Piano Vadera che non può più essere modificato in quanto già adottato dal G7 e di cui il G24 ha preso atto. Angela Merkel ripete che è fuori discussione che la Germania ceda anche un pollice della propria sovranità finanziaria e chiude la porta a una governance sovranazionale. Silvio Berlusconi, unico dirigente presente ad avere esperienza personale del mondo degli affari, spiega ai suoi colleghi, politici di professione, le difficoltà del finanziamento alle imprese. Nicolas Sarkozy abbandona l’idea di un Fondo speciale europeo visto che gli Stati Uniti si sono allineati al piano britannico. Va bene tutto pur di poter condividere con Gordon Brown questo momento di gloria. Come previsto, il Piano Vadera è adottato, sarebbe a dire che le disposizioni relative all’Eurozona nel Trattato di Maastricht sono abbandonate per consenso intergovernativo, senza riguardo per i Parlamenti e i Popoli che l’hanno ratificato. A dire il vero, nessuno se ne dispiace perché nessuno vuole più queste regole soffocanti e obsolete.
Il comunicato finale dell’Eurogruppo allargato è una prolissa parafrasi della lista di decisioni del G7. Oltre alle decisioni relative alla crisi, il Piano Vadera comprende un impegno di normalizzare le regole contabili internazionali su quelle della City. Le società saranno autorizzate a scegliere se valutare i propri attivi al prezzo al quale li hanno acquistati o al prezzo al quale potrebbero venderli. Questa misura è tanto più sorprendente in quanto l’opacità della contabilità anglosassone è una delle cause della crisi. E’ lei ad impedire di valutare con precisione la solvibilità delle imprese. Non importa, mentre i capi di Stato dei governi europei evocano in pubblico la necessità di trasparenza, concedono agli Anglosassoni una misura essenziale alla diffusione mondiale del loro modello.
L’Impero può essere co-gestito da Washington e Bruxelles?
Consigliato dai suoi amici della Banca Rothschild – il fratello Olivier Sarkozy del Carlyle Group così come il mezzo patrigno l’ambasciatore Frank Wisner II (vice-presidente del gruppo AIG) – Nicolas Sarkozy non si accontenta di seguire il gruppo [8].
Dal 23 settembre (cioè durante il lancio del Piano Paulson) si appella all’Assemblea generale dell’ONU per “rifondare il capitalismo”. Sostenuto dalla Banca d’Inghilterra e dalla Federal Reserve USA, torna alla carica ad ogni occasione, malgrado l’irritazione dell’amministrazione Bush uscente.
In numerose occasioni, Nicolas Sarkozy e i suoi alleati anglosassoni invocano “una nuova Bretton Woods”, in riferimento alla conferenza internazionale che creò l’attuale sistema finanziario alla fine della Seconda Guerra mondiale. Da parte di personalità che si sono sempre opposte alla ridiscussione delle regole della finanza mondiale, l’espressione è significativa: il sistema di Bretton Woods è stato concepito sulla scia della Carta Atlantica per installare la dominazione finanziaria anglosassone sul “mondo libero”, a danno degli altri alleati e contro l’Unione sovietica.
Alla fine, George W. Bush concede la convocazione di un vertice dei capi di Stato del G20 a Washington il 15 novembre, ossia dopo l’elezione del suo successore. In verità una buffa riunione dove gli Stati Uniti saranno rappresentati da due presidenti: uno uscente, incaricato degli affari correnti, e uno entrante, non ancora investito dei poteri della sua funzione.
Nicolas Sarkozy davanti al Parlamento europeo ribatte il chiodo e invoca la creazione di un governo economico europeo, sotto forma di una presidenza permanente dell’Eurogruppo che si propone di assumere lui stesso. L’idea provoca l’ira dei tedeschi e la gioia dei britannici che ci vedono la possibile realizzazione del progetto di Winston Churchill: un sistema economico mondiale fondato su due pilastri, uno nord-americano e uno europeo occidentale, con il Regno Unito come cerniera se non come centro del mondo. Il tutto passando per l'”anglosassonizzazione” degli Stati-nazione europei.
Contrariamente alle apparenze, l’eventuale creazione di un governo economico europeo non ambisce ad un rafforzamento dell’euro, ma tende a mettere fine alla rivalità euro-dollaro integrando l’euro in un nuovo sistema imperiale [9]. Mosca non si è sbagliata ad alleggerirsi progressivamente delle sue riserve in euro come aveva già fatto con le riserve in dollari. Il presidente Dmitry Medvedev ha anche proposto ai capi di Stato dell’Organizzazione di cooperazione di Shangai di abbandonare il dollaro nei propri scambi a favore delle monete nazionali.
Verso il crollo degli Stati Uniti?
Tuttavia questa riorganizzazione del sistema finanziario arriva troppo tardi [10]. La recessione dell’economia statunitense è troppo profonda. La decisione, presa nel 1995 da un Congresso all’epoca dominato dai repubblicani, di rilanciare la macchina da guerra USA per dominare il mondo si è conclusa in un disastro. Dal 2004, il Fondo monetario internazionale osserva che la produzione di beni di consumo crolla negli Stati Uniti e che essi sono entrati in una “economia di guerra” [11]. Questa tendenza accelera sotto la doppia pressione delle misure di sicurezza che soffocano il commercio e delle spese astronomiche della guerra globale al terrorismo. Trasformati in un mostro predatore, gli Stati Uniti hanno provato a nutrirsi assoggettando le loro prede, ma non hanno trovato un sufficiente ritorno immediato dagli investimenti in Iraq. Si ritrovano invece nell’identica posizione dell’Unione sovietica alla fine degli anni ’80: il settore militare ha vampirizzato tutte le loro energie.
Così come ho sistematicamente fatto notare nelle numerose trasmissioni a cui ho partecipato dall’estate 2006, lo scacco nel rimodellamento del Medio Oriente, sanzionato dalla disfatta militare israeliana in Libano, ha sancito la fine dell’Impero. Come l’Unione sovietica è crollata e si è smembrata, ugualmente gli Stati Uniti sono ormai minacciati dal crollo e dalla frammentazione.
Aldilà degli indici di borsa che non danno indicazioni affidabili sullo stato dell’economia reale, si moltiplicano i segni di fallimento del sistema. L’industria automobilistica, principale industria civile negli Stati Uniti annuncia la chiusura di stabilimenti e non potrà evitare la catastrofe senza essere acquisita dallo Stato. Queste chiusure ne annunciano altre di modo che sembra difficile riuscire ad impedire un raddoppio della disoccupazione negli Stati Uniti nel 2009. Le fabbriche cinesi che approvvigionano i supermercati dall’altra parte del Pacifico chiudono a catena, il che significa che gli scaffali dei supermercati non tarderanno molto ad essere vuoti. Come abbiamo annunciato un anno fa, numerosi Stati federali potrebbero ben presto trovarsi nell’impossibilità di pagare gli stipendi ai propri impiegati e di conseguenza essere costretti a chiudere scuole e ospedali [12]. Già la California è ufficialmente minacciata di fallimento e si tratta di uno degli Stati federali più ricchi.
Più di un quarto degli statunitensi sono pensionati che dipendono dagli investimenti finanziari. La maggior parte di loro rischia di trovarsi rapidamente senza risorse.
Non si pensi che l’espulsione per morosità di centinaia di famiglie e il loro alloggiamento nei campeggi municipali non provochi tumulti in un paese dove le armi sono in libera vendita. Temendo le conseguenze sociali di questa situazione, il governo federale si è preparato a proclamare lo stato di emergenza. Questa eventualità è stata richiamata al Congresso in occasione del voto del Piano Paulson. Truppe d’élite, specializzate in Iraq nel mantenimento dell’ordine, sono state rimpatriate e si tengono pronte [13].
Alcuni commentatori prevedono che Washington ceda alla tentazione degli anni ’30, quando per uscire dalla crisi del 1929, si incoraggiò la guerra in Europa. Ma tale opzione sarebbe oggi inadeguata: la guerra non può più essere la soluzione in quanto essa è proprio alla base del problema.
E’ per questo che viene fatto di tutto per mascherare l’ampiezza della crisi, perlomeno fino all’elezione del 4 novembre. In caso di bisogno, altra liquidità verrà iniettata e le borse europee sospenderanno le quotazioni. Una volta passata questa scadenza, sarà compito del nuovo inquilino della Casa Bianca procedere alla liquidazione degli attivi e tentare di farlo preservando la pace civile.
Thierry Meyssan
Analista politico, fondatore del Réseau Voltaire
NOTE
[1] « Interconnexion des crises », di Éric Toussaint, Réseau Voltaire, 26 ottobre 2008.
[2] « Retour sur les causes de la crise alimentaire mondiale », di Damien Millet e Éric Toussaint, Réseau Voltaire, 7 settembre 2008.
[3] « Convertir les aliments en carburant, c’est créer la famine », di Fidel Castro Ruiz, Réseau Voltaire, 31 marzo 2007.
[4] Sito ufficiale di Jacques Cheminade.
[5] Ed. Clément Juglar, febbraio 1999.
[6] Ed. Clément Juglar, febbraio 1999.
[7] Benché abbia partecipato alla creazione della Società del Mont-Pélerin, Maurice Allais fin dal 1974 prende le distanze dai discepoli di Friederich Hayek e denuncia le conseguenze della religione del libero scambio.
[8] « ОПЕРАЦИЯ САРКОЗИ », Профиль, 16 giugno 2008. Versione francese : «Opération Sarkozy: comment la CIA a placé un de ses agents à la présidence de la République française », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 19 luglio 2008. [Versione italiana: “Operazione Sarkozy: come la CIA ha piazzato uno dei suoi agenti alla presidenza della Repubblica francese”, Comedonchisciotte.org, 20 ottobre 2008]
[9] « Le dollar, talon d’Achille des USA », di L.C. Trudeau, Réseau Voltaire, 4 aprile 2003.
[10] Questa era richiesta da molto tempo dai banchieri non anglosassoni che diagnosticavano perfettamente la malattia. Si veda « Incertitudes sur l’économie mondiale », della Banca dei regolamenti internazionali (BIR), Réseau Voltaire, 29 giugno 2007.
[11] « La guerre, seule alternative à la crise économique », Réseau Voltaire, 8 gennaio 2004.
[12] « Récession aux USA: 13 États fédérés menacés de faillite » e « USA: la crise des subprimes menace la moitié des États fédérés de faillite », Réseau Voltaire, 20 dicembre 2007 et 30 gennaio 2008.
[13] « Les États-Unis se préparent à des troubles intérieurs majeurs », Réseau Voltaire, 29 ottobre 2008.
Thierry Meyssan
Titolo originale: “ Ajustement, mutation ou effondrement de l’Empire?”
Fonte : Voltairenet.org
Link:http://www.voltairenet.org/article1584241.html
02.11.2008
Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS